“Ad onore dei miei genitori voglio ricordare che i principi che mi hanno guidato in tutta la vita sono frutto della educazione da loro ricevuta e che, se in qualche misura sono riuscito ad operare bene da uomo e da cittadino, ciò lo devo soprattutto agli insegnamenti e agli esempi costanti di mio padre e di mia madre, ai quali va la mia infinita gratitudine.”
1 marzo 1978
Cesare Terranova
A Palermo viene assassinato Cesare Terranova con la sua guardia del corpo. Per due legislature, eletto nelle liste del PCI e membro della commissione antimafia, stava indagando su casi scottanti: sulla droga, che negli ultimi tempi sull’isola ha un ruolo preponderante nel traffico internazionale degli stupefacenti, oltre il consumo in Italia che é già a dimensioni allarmanti.
Terranova era il magistrato che inchiodò nel ’74 Luciano Liggio a Milano, la “Primula Rossa” di Corleone. Il Boss lasciò la potente organizzazione in Sicilia in eredità ai suoi due luogotenenti Toto Riina e Calogero Bagarella ( legati a Buscetta, Bontade (imperatore delle Tv, morirà ammazzato il 24 aprile 1981), Badalamenti, Salvo, Turatello – e altri nomi che si intrecciano con le BR, Moro, Della Chiesa, Pecorelli, Gelli, Sindona, Calvi, Borsellino, Falcone e…. omissis, omissis, omissis)
“E solo l’inizio (ed era vero! ma all’incontrario) -disse quel giorno il magistrato a Milano – vinceremo la lotta contro la mafia; è dal 1904 che lo Stato non registrava un successo così importante”.
Ma Liggio o qualcuno per lui, lo aveva già quel giorno condannato a morte. Ma chissà perchè l’assassinio fu rivendicato da Ordine Nuovo (gli stessi che rivendicarono la strage di Piazza Fontana a Milano, Piazza della Loggia a Brescia, attentato a Rumor, e altri tanti drammatici eventi che hanno funestato l’Italia).
Il passaggio dalla vecchia mafia alla mafia imprenditrice non fu incruento. Come sempre i regolamenti di conti e i processi di rinnovamento vennero raggiunti con il sangue. All’inizio degli anni Ottanta scoppiò infatti la grande guerra di mafia che porterà al potere il gruppo tutt’ora egemone: i Corleonesi di Totò Riina, in principio rappresentati in Commissione dal “Papa” della Mafia, Michele Greco, della famiglia di Ciaculli, località alle porte di Palermo.
La guerra fu condotta con una violenza inaudita. In seguito si disse che questa era una novità, che la vecchia mafia usava metodi meno violenti, e che la nuova mafia aveva perso il vecchio “senso dell’onore”. A smentire questa versione stanno però i resoconti storici che risalgono fino al secolo scorso, e che da sempre narrano l’estrema violenza nella soluzione dei rapporti di forza tra le cosche. Anzi, è tradizione immutata nella mafia che l’affermazione personale avvenga sempre attraverso la violenza direttamente esercitata.
L’idea che a volte si ha dei capi mafiosi come “menti” raffinate, che vivono ad un altro livello rispetto agli esecutori dei loro voleri è del tutto sbagliata (Falcone, Arlacchi). Anzi, caratteristica peculiare della mafia, rispetto ad altre forme di criminalità di alto livello, è proprio questa identità tra mandanti ed esecutori, così che si diventa capimafia solo passando attraverso i crimini più efferati, e spesso sono gli stessi capi che partecipano direttamente alle azioni più importanti.
Alla guerra di mafia si associò anche una serie di “delitti eccellenti” che non aveva pari con la precedente storia di Cosa Nostra. Cosa era successo? Fino alla fine degli anni Settanta lo Stato aveva convissuto con la mafia in maniera piuttosto pacifica. Vi erano dirette connessioni tra potere politico e mafia, come abbiamo visto, ma vi era anche una certa tolleranza da parte della magistratura, delle forze di polizia, e persino della classe imprenditoriale nei confronti di un’associazione che garantiva una certa pace sociale, il controllo delle altre forme di criminalità, ed alla quale venivano lasciati in cambio ampi spazi d’azione.
Per svariate ragioni difficili da riassumere in poche righe, la società siciliana, sul finire degli anni Settanta, cominciò a ribellarsi a questo stato di fatto, e nella magistratura, nella società civile, e persino nella politica cominciarono a esserci voci contrarie alla mafia.
La prima reazione delle cosche fu quella di eliminare chiunque si opponesse seriamente al loro strapotere, approfittando anche del fatto che spesso queste persone erano isolate e poco protette negli stessi ambienti in cui vivevano. Iniziò così la stagione dei delitti eccellenti. Si cominciò nel 1979 con il giudice Cesare Terranova, appena tornato alla magistratura attiva dopo essere stato deputato per il PCI e membro della Commissione antimafia. Seguirono, tra i magistrati, gli omicidi di Gaetano Costa (1980), appena nominato procuratore a Palermo, e Rocco Chinnici (1983), capo dell’Ufficio istruzione di Palermo e diretto superiore di Falcone, al quale per primo aveva dato lo spazio necessario per le indagini antimafia. Tra i politici, nel 1980, di particolare significato fu l’omicidio di Piersanti Mattarella, democristiano, da poco nominato presidente della Regione Sicilia confidando nel fatto che il padre, Bernardo, aveva avuto nel passato “pacifici” rapporti con la mafia. Il cambiamento culturale che stava avvenendo in Sicilia passava però anche all’interno delle famiglie, ed il giovane Piersanti si diede subito da fare per isolare i comitati d’affari politico mafiosi nella Regione, pagando con la vita questa scelta. Ancora tra i politici, fu ucciso Pio La Torre (1982), segretario regionale del PCI, da sempre attivo nella lotta antimafia.
Anche le forze dell’ordine pagarono caramente il nuovo clima di opposizione alla mafia. Furono uccisi il vicequestore di Palermo Boris Giuliano, gli ufficiali dei carabinieri Giuseppe Russo e Emanuele Basile, e i dirigenti di polizia Beppe Montana e Ninni Cassarà. Nel settembre 1982 fu ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa con la sua giovane moglie, da 100 giorni nominato prefetto di Palermo, ed ancora in attesa di quei poteri speciali che aveva richiesto per combattere più efficacemente la mafia, e che il governo aspettò troppo a lungo a concedergli.
Avvenimenti Italiani
Il Cervello omicida non è sempre la mafia
Nella corale lotta al fenomeno mafioso è mancata – non si sa se volutamente o per incapacità – una approfondita analisi sui delitti perpetrati dalla mafia le cui vittime sono state qualificate “cadaveri eccellenti”.
Dal 1972 ad oggi, da quando cioè la Commissione Antimafia ha concluso i suoi lavori in clima di manifesta omertà, nella città di Palermo, sede del potere politico, sono stati assassinati due Procuratori della Repubblica, il magistrato capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, un colonnello dei carabinieri, un Presidente della Regione, il Prefetto di Palermo e la sua consorte, il segretario provinciale della Democrazia Cristiana, due giornalisti, il presidente di uno dei maggiori ospedali dl Palermo, il sindaco di uno dei centri della provincia, il segretario della sezione di uno dei partiti laici, il direttore di un’agenzia di banca, tutti delitti atipici, e tutti rimasti impuniti.
Da questo terrificante elenco sono stati esclusi il vicequestore di Palermo Boris Giuliano, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il maresciallo Ievolella, il brigadiere Aparo ed i numerosi agenti di polizia e carabinieri caduti nella lotta alla criminalità perché non rientrano nella categoria “cadaveri eccellenti”, anche se i delitti sono stati atipici, e anch’essi rimasti impuniti. Ovviamente non sono state incluse numerose altre “vittime eccellenti” perché in evidente odore di mafia.
Tutte le indagini per tutti i delitti si sono adagiate sulla facile pista del traffico degli stupefacenti e del riciclaggio del denaro sporco investito negli appalti delle opere pubbliche, e si è corso dietro raccoglitori di olive, supertestimoni ed altri santipaoli fabbricati dalla mafia, e non si è tenuto conto – o si è voluto ignorare – che nella storia della mafia i pochi “cadaveri eccellenti” hanno avuto “mandanti eccellenti”: e per i pochi casi registrati si ricorda l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, barone di S. Elia, direttore generale del Banco di Sicilia, perpetrato nel 1893, per il cui assassinio è stato additato quale mandante l’onorevole Raffaele Palizzolo, deputato del collegio della “Briaria”, quartiere di Palermo tristemente famoso per essere il covo della feroce mafia protetta dai politici del partito allora al potere.
Non si è tenuto conto che sia a Palermo che altrove, la mafia non aveva mai ammazzato o fatto ammazzare uomini politici e alti funzionari dello Stato; non aveva mai “punito” o “fatto punire” un giornalista “nordico” o siciliano che da Palermo ha dettato i suoi articoli a giornali di Roma o di Milano; non ha mai attentato alle attrezzature ed agli impianti delle troupes cinematografiche, anche se il soggetto è stato dichiaratamente contro la mafia; non ha mai infastidito nessun operatore televisivo, salvo ad intervenire in sede di potere per impedire la trasmissione; non ha mai aggredito, ricattato o sequestrato un turista il cui nome è stato seguito da nomi con una lunga serie di zeri ragguagliabili in dollari e sterline.
Nel corso delle indagini per i “cadaveri eccellenti” sono state scoperte “piste convergenti” legate agli stessi motivi ed alle stesse cause per le quali sono avvenute faide fra cosche; sono stati “fatti passi avanti” per avere accertato che la stessa arma è servita per più omicidi perpetrati in tempi e luoghi diversi, e non si è tenuto conto delle diverse origini e cause, della diversa qualità delle vittime e, soprattutto, del fatto che “quell’arma” può anche essere “attrezzo di lavoro” di proprietà di una “anonima delitti” che noleggia la manovalanza armata per la esecuzione di lavori su commissione da eseguire a Palermo o a Catania, in Toscana o nella Germania Occidentale, ove sono avvenuti fatti delittuosi atipici.
L’avere accomunato in un unico fascio tutti i delitti e tutte le vittime, attribuendole alla cosiddetta “mafia emergente”, cioè alle cosche del traffico degli stupefacenti che sono riuscite ad eliminare le “consorelle concorrenti”, è stato un grosso errore che ha favorito la “grande famiglia” della mafia palermitana della quale fanno parte uomini politici e alti burocrati, gli stessi che sono riusciti ad uscire indenni ed indisturbati dalle indagini e dalla inchiesta della Commissione Antimafia.
Ritenere, ad esempio, che Pio La Torre, segretario regionale del Partito Comunista, deputato al Parlamento, ex membro dell’Antimafia, e Cesare Terranova, ex deputato eletto nelle liste del P.C.I., ex membro della Commissione Antimafia e, come tale, come La Torre, depositario dei segreti della “santabarbara” della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, siano stati fatti assassinare da Luciano Liggio o dalla “mafia emergente” – palermitana o catanese poco importa – è stato un errore perché ha depistato le indagini, ha disorientato l’opinione pubblica che dal Partito Comunista in Sicilia si aspetta ben altro tipo di lotta alla mafia e soprattutto una più impegnata lotta ad alcuni gruppi di potere ed alla parte corrotta e corruttrice dell’alta burocrazia dello Stato e della Regione, ha fermato le ansie e le spinte di quanti vorrebbero collaborare con le forze di polizia, come è avvenuto negli anni della prima fase dei lavori dell’antimafia, quando molti siciliani uscirono dall’atavico silenzio ed additarono alle autorità di polizia ed all’opinione pubblica alcuni boss ritenuti intoccabili.
Di fronte a questi assurdi ed inspiegabili fatti che hanno il sapore dell’omertà politica si prova un vero senso di sgomento: si ha l’impressione che tutte le indagini che riguardano le “vittime eccellenti” cozzino contro il muro di solidarietà fra partiti e correnti e cadano sulla facile e generica strada della criminalità comune con l’inevitabile risultato che dopo poche settimane gli arrestati vengono rimessi in libertà per insufficienza di indizi, si rimane sgomenti perché si è testimoni della terribile verità triangolare che vede da un lato carabinieri e polizia procedere ad arresti di veri e presunti criminali, dall’altro alcuni magistrati “di grido”, ritenuti depositari della verità e della lotta alla mafia, portati in giro come fossero il braccio di San Francesco Saverio, rimanere impotenti (o indifferenti) di fronte a sentenze di proscioglimento o di assoluzione, e, dall’altro, infine la mafia che “giustizia” suoi accoliti e servitori dello Stato (terribile a dirsi: sono stati assassinati fino ad oggi 76 dei 114 mafiosi processati ed assolti a Catanzaro mentre altri 13 sono scomparsi).
Purtroppo, i morti ammazzati dalla mafia non parlano e i vivi, quelli che sanno, tacciono, o perché hanno paura, o per sfiducia nelle istituzioni dello Stato, o per solidarietà politica di corrente o di partito, o addirittura, per la partecipazione al potere. Illudersi di avere mafiosi pentiti è un’utopia perché l’esperienza ha dimostrato che i rari casi del genere sono finiti nei manicomi.
Se i molti ammazzati dalla mafia potessero parlare molti boss della politica, alcuni deputati e forse anche qualche uomo di governo potrebbero finire in galera o quantomeno sul banco degli imputati. Se il Parlamento decidesse di rendere di pubblico dominio “le schede” degli uomini di partito ed anche dei parlamentari i cui nomi ed i cui riferimenti sono stati estratti dai fascicoli personali di esponenti mafiosi e dal materiale probatorio raccolto dalla Commissione Antimafia, crollerebbero alcune maggioranze nei partiti, scomparirebbero dalla scena politica alcuni notabili, verrebbero emarginati alcuni capi corrente ed alcuni feudi elettorali cesserebbero di essere supporto per il potere di alcuni capi corrente nazionali.
Verrebbe fuori che Piersanti Mattarella, Presidente della Regione, uno dei pochi e rari uomini siciliani di governo non “parlato”, Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana e Cesare Manzella, presidente dell’ospedale traumatologico-ortopedico di Palermo (undici miliardi di bilancio l’anno) sono stati assassinati in un intreccio di inestricabili rivalità ed egemonie per il controllo e lo sfruttamento di settori della vita pubblica, controllo e sfruttamento che è stato possibile esercitare se e in quanto sono esistite compiacenze, legami, collusioni e complicità tra boss della mafia e politici boss, tra “famiglie” di mafia, “baronie” politiche e burocratiche nello Stato e nella Regione.
Verrebbe fuori anche che Terranova e La Torre sono stati assassinati proprio quando, mutati i tempi, e cambiato indirizzo, il Partito Comunista in Sicilia è ritornato sulle posizioni di intransigente lotta al sistema di potere “all’italiana” nel quale lo “spirito di mafiosità” è diventato elemento di aggregazione tra forze politiche eterogenee il cui obiettivo è la partecipazione al potere, cioè, verrebbe fuori che Terranova e La Torre sono stati assassinati proprio quando la “grande famiglia” della mafia palermitana si è resa conto che stavano per essere buttati in pasto all’opinione pubblica i nomi dei politici trascritti nelle “schede ” della Commissione Antimafia, le schede dichiarate segrete col voto unanime di tutti i membri dell’Antimafia il 31 marzo 1972.
E verrebbe fuori che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è caduto sulla strada delle “schede segrete”, alcune delle quali sono state compilate con le documentate denunzie contenute nel rapporto 23/461 che lo stesso Dalla Chiesa aveva inviato alla Commissione Antimafia il 31 dicembre 1971 quando era comandante della legione dei carabinieri di Palermo.
Anche il rapporto Dalla Chiesa è stato coperto da segreto dai deputati e senatori componenti l”‘Antimafia”, segreto da me violato quando sono riuscito a consegnarlo al Tribunale di Torino a cui la Commissione lo aveva negato.
«Anche quando si è avuta la certezza di avere colpito i gangli vitali della mafia – ha scritto e ripetuto più volte Dalla Chiesa – si è dovuta constatare una vanificazione degli sforzi, vanificazione dovuta, fra l’altro, al mancato accoglimento delle più volte invocate norme che consentono interventi fiscali e paralleli a quelli della polizia», interventi che Dalla Chiesa voleva venissero estesi anche alle sedi, negli ambienti e per le fonti con le quali sono state raggiunte rapide e facili carriere politiche associate a smisurati e rapidi arricchimenti.
E‘ ovvio che tornato in Sicilia con l’incarico di Alto Commissario per la lotta alla mafia, Dalla Chiesa ha chiesto “le norme più volte invocate”, e non avendole ottenute ha minacciato le dimissioni. Ma un generale non si dimette, semmai cerca nuove strategie, nuove alleanze per continuare la lotta intrapresa nella quale crede e per la quale ha dedicato il meglio di se stesso.
Dalla Chiesa è stato assassinato l’indomani che era riuscito a creare nuove strategie e nuove alleanze: è stato ucciso immediatamente dopo il suo incontro con il Ministro delle Finanze da cui aveva ottenuto la mobilitazione della Guardia di Finanza per «gli accertamenti fiscali e paralleli a quelli della polizia» a carico di molti politici boss. La raffica che ha stroncato l’Alto Commissario per la lotta alla mafia è stata, sì, una punizione per il funzionario dello Stato che aveva osato uscire dai vecchi schemi affrontando la mafia sul terreno politico-finanziario, ma è stato anche un avvertimento per i partiti che minacciano di scoprire i nomi dei politici collusi e complici con la mafia.
Ho incontrato due volte il generale Dalla Chiesa: una prima volta, nel gennaio 1977, all’hotel Liguria di Torino, pochi giorni dopo che avevo consegnato il rapporto 23/461 al Tribunale di Torino, chiamato a giudicarmi per diffamazione a mezzo stampa su querela dell’allora ministro Giovanni Gioia e di altri nove suoi amici e parenti.
Con molta cordialità, ma con insistenza, Dalla Chiesa chiese per quali vie ero entrato in possesso del rapporto da lui inviato al Presidente dell’Antimafia. «A me non dispiace – disse testualmente – che lei sia riuscito a fare qualificare amici dei mafiosi alcuni uomini politici di Palermo, nei cui confronti ho espresso un mio giudizio». «Mi preoccupa – e ripetè le parole come a sottolinearle – che un documento “riservato” sia finito nelle mani di un privato. Non le chiedo i nomi, mi dica almeno per quali vie ne è entrato in possesso». Debbo dire che non rimase convinto quando gli dissi di aver ricevuto il grosso plico per posta, senza il nome del mittente.
Una seconda volta ho incontrato Dalla Chiesa, all’aeroporto di Fiumicino, nell’ottobre del 1981. Non so se era nell’aria un suo trasferimento a Palermo, è certo però che il suo interesse nella conversazione (durata circa mezz’ora, presente un giovane alto, robusto, castano, sui 35 anni, che più volte chiamò «capitano») fu per i legami tra mafia e politica, per le collusioni tra politici e boss della mafia, per la mafia nell’apparato dello Stato e della Regione e soprattutto per le “schede segrete”dell’Antimafia, “schede” che potrebbero distruggere le carriere di numerosi notabili siciliani, con grave pregiudizio per alcune correnti della Democrazia Cristiana.
Dalla Chiesa era convinto che oltre alla “scheda Gioia” fossero in mio possesso altri documenti relativi alla mafia ed ai poteri pubblici, documenti fattimi avere da nemici ed avversari di partiti e di corrente. Si tratta delle “schede” che la Commissione Antimafia ha elaborato sulla scorta della documentazione raccolta nei 13 anni di sua attività, ricavate dalle deposizioni, dalle relazioni e dai rapporti di prefetti, procuratori generali, procuratori della Repubblica, questori, colonnelli dei carabinieri. Fra questi documenti vi è anche il rapporto del generale Dalla Chiesa.
«La Commissione avvertì – si legge nella “Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno mafioso alla fine della IV legislatura”: doc XXIII n. 2 septies, pagg. 140 e 141 – come il suo compito più significativo fosse appunto quello di sciogliere il nodo dei rapporti tra mafia e pubblici poteri in quanto ritenne che fosse questa la ragione essenziale della sua istituzione ed in quanto comprese che solo un organo politico come la commissione avrebbe potuto perseguire uno scopo del genere con la necessaria efficacia, imparzialità e credibilità».
«L’Antimafia si preoccupò – continua la relazione – di impostare uno specifico programma sui rapporti tra mafia e poteri pubblici, e successivamente di costituire un apposito Comitato di indagine che operasse in stretto collegamento con l’ufficio di presidenza, secondo i criteri indicati dalla Commissione plenaria. In adempimento di questo suo compito il Comitato ha provveduto anzitutto ad estrarre dal materiale probatorio raccolto dalla Commissione tutti i riferimenti ad uomini ed organizzazioni di partito; questi riferimenti – continua la relazione – sono stati estratti dai fascicoli personali di esponenti mafiosi, da segnalazioni e documenti inviati da privati o da uffici, dagli atti acquisiti dall’Antimafia nel corso della sua attività e in particolare dalle deposizioni di testimoni e dalle dichiarazioni rese alla Commissione ed a singoli comitati. Sono state quindi – conclude la relazione – redatte apposite schede nominative in ciascuna delle quali è stato riportato in sintesi il contenuto della documentazione».
Queste schede sono diventate segreto di Stato. Nella confusa fase politica di una non meglio qualificata maturazione di nuovi indirizzi politici e nel clima di un inspiegabile ed assurdo compromesso, tutti i partiti hanno consentito che i loro rappresentanti nell’Antimafia coprissero con atto di manifesta omertà «i riferimenti a uomini politici ed a partiti estratti dal materiale probatorio raccolto dalla Commissione».
Quante maggioranze crollerebbero all’interno dei partiti laici se le terribili schede venissero rese di pubblico dominio? Con quali partiti e con quali correnti dovrebbero trattare i partiti immuni dalla mafia – ammesso che ve ne siano – per costituire alleanze e maggioranze per partecipare e collaborare al governo?
La crisi dell’Antimafia non è stata provocata dalla vischiosità del fenomeno mafioso, dalla impossibilità di dare una connotazione alla mala pianta della mafia. La vera crisi è stata nei partiti, ed è stata provocata dalla paura di concludere, dal timore di portare alle estreme conseguenze i risultati di una indagine che non a caso aveva indotto i tre presidenti a proferire trionfalistiche ma fondate dichiarazioni di soddisfazione e di fiducia per il materiale raccolto.
I partiti non hanno compreso – o non hanno voluto comprendere – che il problema della mafia è un fatto politico nazionale. E’ un problema dei partiti all’interno dei quali va iniziata la prima vera lotta per sradicare lo “spirito di mafiosità”, inteso come solidarietà brutale e istintiva fra quanti vogliono conquistare il potere, “spirito di mafiosità” che soffoca la vita politica in Sicilia, ove il potere politico ha il carattere di tipica marca proconsolare.
Pubblicare le “schede” è un atto al quale i partiti ed il Parlamento non possono sottrarsi. Continuare a mantenerle segrete significa accollarsi la responsabilità e la colpa dei “cadaveri eccellenti” che inevitabilmente seguiranno.
A cura di Michele Pantaleone
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