Ho indossato un camice bianco, un paio di zoccoli verdi e sono entrato negli ospedali. Mi sono attaccato al petto un cartellino con un nome fasullo: dottor Valerio Trimarchi, dell’inesistente associazione Orchidea bianca onlus. Ho assunto le vesti di un volontario, laureato in medicina in procinto di fare la specializzazione. È bastato per spalancarmi le porte di reparti, pronto soccorso, sale operatorie.
Trattato come un medico da pazienti, inservienti, infermieri, colleghi. Questi ultimi mi hanno accolto nei loro camerini, mi hanno assegnato l’armadietto e gli indumenti da lavoro. Sono entrato a contatto diretto con i malati, ho fatto il giro di visite del mattino e ho preso parte (ma non ho preso i ferri in mano, tranquilli) a interventi chirurgici.
Gli ospedali al centro di questa inchiesta sono quattro: a Catanzaro, Napoli, Isernia e Venafro, in provincia di Isernia. Nel corso dell’indagine (tutta documentata da una telecamera nascosta) ho visto barboni che mangiano e dormono a pochi metri dai malati, zingare che passano fra i letti a chiedere l’elemosina, cinesi che entrano nei reparti per vendere ai bambini giocattoli privi di ogni standard di sicurezza.
Poi medici e infermieri che fumano, alcuni perfino dentro i blocchi operatori. Ho seriamente rischiato di togliere dei punti di sutura dalla testa di una donna. Soprattutto, ho visto da vicino come il personale sanitario si comporta a volte nei nostri ospedali. Come vengono ignorate le più basilari regole di comportamento e di igiene, la cui inosservanza provoca ogni anno circa 500 mila infezioni e più di 5 mila morti. Pazienti che erano andati a curarsi per altre cause.
Catanzaro
Sono le 7 di martedì 29 settembre, Ospedale Pugliese di Catanzaro. Per un’ora faccio su e giù con gli ascensori. Le norme prescrivono che la biancheria pulita segua un percorso diverso da quella sporca. I rifiuti ospedalieri, organici, non devono transitare negli stessi ascensori utilizzati da medici, pazienti o per il cibo. A Catanzaro non funziona così. Passa tutto per lo stesso montacarichi. Ci sono dentro quando si apre la porta. Un operaio: “Dottò, sta scendendo?”. Rispondo di sì e lui spinge all’interno il carrello con un bel po’ di bidoni gialli messi uno sopra l’altro fino al soffitto. Ci stringiamo nel poco spazio disponibile. Li abbiamo addosso. Nell’etichetta esterna c’è scritto: “Rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo“.
Dentro possono esserci garze imbevute di sangue, siringhe, residui di interventi chirurgici, anche materiale radioattivo utilizzato nella medicina nucleare. La porta dell’ascensore si apre, pochi minuti dopo sono sempre lì con il carrello del cibo.
Alle 8 e mezzo eccomi in pediatria. Entro nella saletta dei medici. Ce ne sono tre, più due infermiere. Mi presento: sono il dottor Trimarchi dell’associazione Orchidea bianca onlus. Dico tutto velocemente, come fosse la più famosa organizzazione sanitaria italiana, nella speranza di far scattare il tipico meccanismo per cui non chiedi ulteriori informazioni per paura di passare per deficiente davanti agli altri. È andata. Spiego che mi sono appena laureato e che la nostra struttura ci manda a fare degli stage in giro per gli ospedali. Vorrei stare un giorno con loro per vedere come lavorano. Non c’è problema, nessuno chiede una lettera di incarico, un documento, una preventiva richiesta alla direzione generale. Nulla. Mi accettano sulla parola.
Da questo momento parte quel processo che poi si ripeterà in alcuni dei centri successivi: basta farsi vedere in giro con un infermiere o un medico perché tutti gli altri ti considerino uno di loro, un nuovo arrivato. Ogni minuto che passa, ogni gesto è un tassello che va ad arricchire la tua tracciabilità. Fino a non riuscire più a risalire al momento originario. Ovvero, come sei entrato lì. Chi ti ha mandato. Chi ti ha aperto le porte per primo.
Sono a tutti gli effetti il dottor Trimarchi. Il primo a darmene atto è l’imbianchino che dipinge i muri del corridoio. Mi saluta con una certa deferenza. La puzza della vernice si sente, eccome. Le infermiere mi accolgono nella loro saletta. Una mi prepara il caffè. Poi mi offre una sigaretta. Lei accende e apre la finestra. Mi infilo nella camera dei medici. Anche qui si fuma.
Dopo mezz’ora il battaglione muove alla volta delle camere dei bambini per il consueto giro mattutino delle visite. Alla testa c’è il medico più esperto. Camice aperto, mani in tasca o a giocare con le chiavi, passa da un letto all’altro dispensando affettuosi buffetti e barzellette. Le visite avvengono tutte senza guanti e senza un minimo di privacy, ogni comunicazione è a partecipazione collettiva.
Prima mi sono informato sulle diagnosi dei malati: c’è chi ha un’infezione generalizzata, chi da morso di zecca, chi ha la mononucleosi, l’epatite. In una stanza ci sono tre letti: due adolescenti e un bambino. Dopo aver toccato le ragazze il medico infila la mano dentro la bocca del piccoletto. Ma non vede bene. Allora afferra la tapparella, la tira su. Poi fa alzare il bambino, lo mette a favore di luce e gli rificca la stessa mano in bocca. Un altro bambino ha delle strane macchie sul corpo. Dietro un orecchio la pelle è aperta. Il medico ci passa le mani, poi invita l’assistente ad avvicinarsi. Tocca pure lei. Senza guanti. L’équipe si consulta. Non si riesce a capire a cosa siano dovute. Le gambe sono piene. Uno butta lì l’ipotesi tubercolosi, un altro epatite.
Durante una visita, il medico mi coinvolge: “Lei che ne pensa, dottor Trimarchi?”. Sono con le spalle al muro, non so cosa fare. Ripete la domanda, vuole sapere se in presenza di quei valori la diagnosi è corretta. Rispondo che non lo so, non è quella la mia specializzazione. “E in che cosa siete specializzato voi, dottore?”. Già, bella domanda. In sociologia, in sociologia medica, ecco. Dico così e subito mi do del deficiente. Ma che c’entra la sociol…? “Bene!” esclama il medico. “Ho giusto un caso di cui vi potete occupare allora”. Sono pronto. “Una bambina alla quale abbiamo scoperto il diabete. Ma la mamma, che è qui con lei, è analfabeta”. In una camera singola c’è un bambino con gravi malformazioni. Sembra affetto da sindrome di Down. È grasso, gonfio dalla testa ai piedi, sproporzionato.
Mentre il medico si avvicina lui gli sfila lo stetoscopio dalla giacca. Ci gioca con le mani. Se lo attacca alle orecchie, al petto. Alla fine il dottore lo riprende e lo rimette in tasca. Ci sono altri piccoli da visitare.
Intorno alle 11 esco e vado a prendere il caffè al bar di fronte all’ospedale. Con camice e zoccoli, cosa vietata. Ma sono in buona compagnia. Torno dentro, sulle scale trovo una zingara che chiede l’elemosina. La tengo d’occhio. Dopo un po’ si infila in un reparto, si fa largo tra i parenti in visita, arriva perfino ai letti dei malati.
Provo a entrare nel blocco operatorio. Suono il campanello. Un’infermiera mi apre la porta. Saluto con piglio sicuro e vado dentro. Dopo pochi metri c’è un’altra porta a vetri opachi. Su un cartello c’è un avviso rivolto a tutto il personale: “Si ricorda che è assolutamente vietato entrare nelle sale operatorie senza divise, calzari, cappellini e mascherine adeguate”. Gli indumenti sono lì a fianco. Li ignoro. La porta si apre su un corridoio, sulla destra ci sono due sale operatorie. Un infermiere mi viene incontro. Non ha calzari, cuffia, guanti: nulla. Gli dico che sto cercando il dottor Vattelappesca, un dottore di cui ho letto il nome su un cartello in giro. “Sta al piano di sotto”. Ribatto: mi ha detto di trovarci qui per prendere accordi per un intervento. Tanto basta, semaforo verde. La scena si ripete identica nella camera successiva. Sulla soglia una donna parla al cellulare. La chiamata sembra di lavoro. La seguo dentro. Mette il telefono nella tasca posteriore dei pantaloni, prende una garza e si rimette al lavoro. Non ha cambiato i guanti. Le sue mani si posano sull’uomo operato. Con lei c’è un’altra donna: naso fuori dalla mascherina. A un metro, una infermiera vestita come fosse in reparto. Ha soltanto una cuffia sui capelli, che lascia scoperti grandi ciuffi sul davanti. Non ha i calzari. Come me, che sto a due metri dal lettino operatorio con le stesse scarpe che avevo poco prima al bar di fronte all’ospedale.
All’uscita del reparto un uomo mi chiede com’è andata l’operazione, è preoccupato. Rispondo che è tutto ok e prego Dio che sia vero. Lo rassicuro, la madre si è risvegliata. Mi stringe le mani, mi ringrazia, dice che però si tratta della moglie.
Un infermiere mi ha raccontato di un barbone che mangia e dorme dentro la struttura. Lo trovo seduto davanti al reparto di medicina nucleare, tra l’ascensore e la corsia, dove passano i malati. È grosso, dorme piegato su se stesso. Ha due sacchetti pieni di cianfrusaglie. Le gambe sono gonfie, le caviglie non si distinguono. Puzza. Ha i capelli lunghi e la barba. Accanto a lui c’è un piatto di plastica con i resti del pranzo che ha appena consumato. Lo chiamano “Carminuzzo”, diminuitivo di Carmelo, ha il mio stesso nome.
Continuo il giro. Fra gente che mi chiede informazioni. Non so che rispondere, mi scuso, dico che è il mio primo giorno. Mi becco auguri e pure qualche bacio. Incrocio una ragazza cinese. Ha uno zaino sulle spalle e una sorta di bancarella ambulante davanti con bracciali, orologi e giocattoli. La seguo. Un’infermiera le chiede un cinturino, contrattano. Entra ed esce dalle stanze, anche in pediatria, dove vende i suoi giochi di plastica privi degli standard di sicurezza previsti dall’Unione Europea.
Napoli
Giovedì primo ottobre il dottor Valerio Trimarchi si presenta al Pellegrini di Napoli, nel centro storico. Non ho fortuna. L’ospedale è piccolo, si conoscono tutti, dal primario all’ultimo dei volontari. Riesco comunque a fare un giro all’interno. Non sono ancora le 8 del mattino. Diversi ricoverati dormono sulle barelle nei corridoi. Le condizioni igieniche sembrano scarse. Sul davanzale di una finestra ci sono decine di mozziconi di sigarette. Stessa situazione al pronto soccorso.
L’ingresso dell’ospedale dà su una strada molto trafficata. Poco più su c’è l’arrivo della metropolitana. È una fiumana di persone che si trascina tra auto e moto. In mezzo vedo infermieri e medici in divisa, uno addirittura con la tuta operatoria. Vanno al bar o nei negozietti della via.
Isernia
Per entrare all’ospedale di Isernia, in Molise, mi infilo in un vorticoso giro di conoscenze tipico di una certa Italia dove l’amicizia e il clientelismo la fanno da padrone. Si trova sempre qualcuno che ti consiglia a un altro, che a sua volta non si prende nemmeno la briga di capire chi sei. Gli basta soltanto sapere che sta facendo un favore. Si va avanti così, in una sorta di catena di Sant’Antonio della quale non si riesce più a venire a capo.
Intanto Valerio Trimarchi venerdì 2 ottobre di buon mattino arriva in divisa d’ordinanza all’ospedale Veneziale. Dico che mi sono appena laureato e che mi accingo a scegliere la specializzazione. In medicina generale i pazienti sono tutti anziani. I medici si fermano ai piedi del letto, guardano la cartella, si confrontano, prescrivono esami. Le mani ce le mettono gli infermieri. Si passa da un pannolone all’altro fino alle flebo: senza guanti. Solo un’infermiera è ligia al dovere. Gli altri quasi la rimproverano per l’inutile perdita di tempo. Alla fine vado al bar.
Una dottoressa in camice bianco è appoggiata a un’auto parcheggiata. Aspetta qualcuno. Un medico in tuta verde attraversa la strada. Torno nel blocco operatorio. Mi conoscono tutti, mi muovo in totale libertà. Vedo medici e infermieri senza copriscarpe, mascherine. Senza guanti. Un paio di chirurghi fumano. A pochi metri dalle sale dove si operano i malati, i posacenere sono pieni di mozziconi.
Intorno alle 2 del pomeriggio mi accingo a lasciare l’ospedale. Sbaglio l’uscita. Percorro un corridoio pieno di scatoloni, qualcosa a metà tra un magazzino e un ripostiglio. I muri sono scrostati, alcune piastrelle divelte. Cammino per una decina di metri quando sulla destra mi trovo una porta spalancata: dentro ci sono tre malati che dormono sui lettini. Fanno la dialisi. Le condizioni igieniche sono scadenti. A metà corridoio, senza alcuna porta divisoria, c’è un bagno con due sanitari dove si scaricano pale e pappagalli.
Nel pomeriggio accompagno un medico all’ospedale di Campobasso, nel reparto di anatomia patologica, dove da Isernia mandano ad analizzare i tessuti asportati. Davanti a un cartello con scritto “Vietato fumare” una dottoressa ci intrattiene con una sigaretta fra le mani. La stessa mattina le sono arrivati dei “pezzi” che ancora non riesce a capire perché siano stati asportati. Ci invita a prendere l’abitudine di segnalare la sospetta diagnosi. E accende una seconda sigaretta.
Venafro
Il giorno dopo, su segnalazione di un medico di Isernia, vado a trovare un collega a Venafro, distante una trentina di chilometri. Ha l’aspetto provato, è stanco. Ha voglia di parlare e di sfogarsi. Fare l’ortopedico lì è come essere in trincea, ti arriva di tutto e lavori in condizioni estreme. Con gente che fuma in sala operatoria. Ogni volta che impianta una protesi, dopo che ha cucito prega Dio perché non subentrino complicazioni e infezioni.
Quello che intende lo vedo con i miei occhi lunedì 5 ottobre. Faccio un rapido giro per il reparto. Le camere sembrano supermercati. I comodini faticano a contenere bottiglie, biscotti, patatine e pasticcini. I medici mi danno subito del collega. Dico che sono troppo buoni e che non merito ancora quel titolo perché devo fare la specializzazione. Non importa, sono molto gentili. Mi invitano nella loro stanza, mi affidano un armadietto e una tuta per la sala operatoria. C’è da correre a fare gli interventi. Ci cambiamo.
Nel blocco operatorio ci sono i canonici indumenti monouso. Poi, stranamente, gli spogliatoi sono più avanti nel percorso che porta alle sale operatorie. Le regole vengono molto disattese. L’infermiere che assiste il chirurgo non indossa guanti. Mentre l’operazione è in corso la porta si apre: è un medico in camice bianco e scarpe normali. Rimane sulla soglia a chiacchierare con i colleghi.
Torno in reparto. Sul tavolo della saletta infermieri c’è dell’uva. Il medico mangia e con la stessa mano tocca la medicazione di una donna. Una signora cammina con un mucchio di lenzuola tra le braccia. Ha disfatto lei stessa il letto della figlia. Intanto il medico controlla la mano fasciata di un uomo. Tre dita sono nere, in necrosi. Dai polpastrelli escono fili di ferro. Lui ci infila le mani, che non ha mai lavato dopo avere mangiato l’uva.
Rimango solo, mi trovo davanti una signora: “Dottò, stamattina il primario mi ha detto che prima di uscire mi devono togliere questi punti dalla testa. Ma ora lui non c’è più. Che fa, me li toglie lei?”. Esito. Poi chiedo a un’infermiera di indicarmi la medicheria perché, specifico bene, devo togliere i punti a quella donna. Entriamo. Faccio accomodare la signora, prendo un paio di strumenti, ci gioco, la guardo e le dico che forse è meglio aspettare il primario. Con la salute della gente è meglio non scherzare.