STORIA DELLA PERSECUZIONE MASSONICO-GIUDIZIARIA DEL MOVIMENTO PER LA GIUSTIZIA ROBIN HOOD
(da “Il Ruolo del Volontariato in funzione del Rapporto dei Cittadini con la Giustizia. Stato e Mafia come unico Sistema” di Pietro Palau Giovannetti)
Il “Movimento per la Giustizia Robin Hood” è una Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale (Onlus), riconosciuta con decreto del Presidente della Regione Lombardia, n. 369/99, a seguito di due sentenze del T.A.R. (in un duplice procedimento per obblighi di fare e nomina di Commissario ad acta), che hanno condannato per due volte consecutive l’Ente resistente (Regione Lombardia), ad iscrivere l’Associazione nel Registro Generale del Volontariato, sezione B) Civile, con effetto retroattivo dal 14.7.98, oltre al pagamento delle spese processuali, stante la temerarietà della resistenza opposta all’esecuzione della prima sentenza (sentenze T.A.R. Lombardia, Sezione III, nn. 2793/98 e 1189/99).
La rilevanza socio-giuridica di tale autorevole giudicato, che a quanto consta rappresenta un caso unico nella storia del diritto nel nostro Paese (e forse in Europa), bene introduce la relazione sociale intercorrente tra una <Associazione antimafia> che si adopera per la tutela dei diritti e le Istituzioni preposte ad amministrare la “cosa pubblica“, ovvero a promuovere l’azione del Volontariato, intesa come strumento di sviluppo della personalità umana (artt. 2, 3 Cost.) ed effettiva partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, nel rispetto dei fondamentali diritti costituzionali ad associarsi liberamente e alla libertà di manifestazione del pensiero (artt. 3, 18, 21 Cost.).
Il Movimento per la Giustizia Robin Hood è infatti una libera associazione di volontariato, sorta per iniziativa di persone comuni, resesi conto dell’assenza di tutela in cui versano i cittadini, che si batte contro la corruzione istituzionale e la piaga della malagiustizia, proponendosi di diffondere un’etica universale dei Diritti Umani, in Italia e nel mondo, nonché di difendere le persone più deboli dai torti e dai soprusi delle varie mafie del potere che, anziché agire per il bene della collettività, soffocano le libertà fondamentali, la legalità e il progresso della civiltà (art. 2 Statuto Associativo).
Il Movimento per la Giustizia Robin Hood (di seguito indicato per brevità: “Associazione“), formalmente costituito con atto notarile il 23.6.1994, nasce, invero, alcuni anni prima, nel 1992, ad iniziativa del “Comitato per la tutela dei Diritti dei Cittadini” che, dal 1986, già, si adoperava, senza fini di lucro, in battaglie ambientali, nei quartieri metropolitani, contro la speculazione edilizia e la “mafia del nord“, in difesa dei cittadini più deboli, dando impulso con migliaia di denunce ed esposti alla Magistratura e ai massimi organi dello Stato, all’azione denominata “mani pulite“, ovvero a quel vasto movimento popolare spontaneo, a sostegno dei magistrati impegnati nella lotta alla corruzione e alla mafia, per il rinnovamento delle Istituzioni.
Lo stesso tenore dei titoli di alcuni tra i tanti articoli pubblicati sulle attività del “Comitato per la tutela dei Diritti dei Cittadini“, senza bisogno di particolari commenti, mette bene in luce, l’attività dell’organismo che darà vita, qualche anno dopo, al Movimento per la Giustizia Robin Hood e ad Avvocati senza Frontiere, di cui parleremo più avanti (Mon., “Lo stabile settecentesco posto sotto sequestro dal Pretore. Palazzo fatto a pezzi. Le denunce degli inquilini contro la proprietà…“, in L’Avvenire, 7/5/87; Biffi, “Si può dire no ai palazzinari milanesi“, in “Famiglia Cristiana”, Agosto 1991; P. D’Amico, “Dopo il blocco della licenza arriva una gru e continuano i lavori. Sfida alla legge in Via Zenale. Totalmente ignorata la decisione della magistratura“, in “Il Giorno”, 29/10/91; T. Maiolo, “Palazzi e Giustizia“, in “Il Manifesto” 7/3/92; A. Sessa, “Giù le mani dalla città. Un comitato popolare dice basta alle speculazioni edilizie.La denuncia di anni e anni di abusi nel centro storico sfocia in una nuova forma di protesta“, in “L’indipendente”, Cronaca di Milano, p. 24, 3/11/1992; D.G., “S’incatenano per contestare i box. In Via Zenale entra in azione il Comitato per la difesa dei diritti dei cittadini“, in “Il Giorno”, 3/11/92).
Consapevole che la corruzione e l’arroganza di chi detiene il potere costituiscono un problema mondiale, insito nella natura umana, l’Associazione, da alcuni anni, si propone di dare vita ad una “Internazionale della Pace“, attraverso un ‘progetto confederativo’ (con statuto da depositarsi presso le Nazioni Unite), di tutte le associazioni impegnate nella tutela dei Diritti Umani, in modo da rendere più efficace e “meno vulnerabile” l’azione di ogni singola associazione che, spesso, si trova ad affrontare, isolatamente, la repressione nel proprio Paese.
Cosa, per l’appunto, direttamente, sperimentata, dal Movimento per la Giustizia Robin Hood, attraverso l’ininterrotta azione persecutoria delle istituzioni, a partire dalla temeraria resistenza giudiziale della Regione Lombardia e del Comune di Milano, sopra riferita, finalizzata ad impedire il suo riconoscimento giuridico, quale Ente no profit, sino ai reiterati dinieghi e boicottaggio di qualsiasi sua attività associativa (sfociati nello spoglio violento e clandestino della sede di Via Dogana 2, in Milano, ove sono stati smantellati i suoi uffici e la mostra umanitaria Artisti per la Pace – Pittori contro la guerra 1999) e ai ripetuti <arresti illegali> di attivisti che manifestavano pacificamente davanti al Tribunale di Milano, di cui meglio appreso si riferirà.
L’Associazione si presenta come il primo movimento organizzato non violento, nella storia del nostro Paese, a tutela della legalità e dei principi di giustizia, “a cui ogni spirito libero” (si legge nella home page del sito internet della Provincia di Milano) …”è chiamato a dare il proprio apporto” (www.associazioni.milano.it/robinhood/).
Nonostante, i nobili principi, l’ispirazione gandhiana e il suo collocarsi al di sopra delle contrapposizioni ideologiche: <destra, centro, sinistra>, come sopra accennato, l’Associazione non incontra il favore né delle Autorità locali e centrali, né quello degli schieramenti della Magistratura, in larga parte politicizzata, che guardano con sospetto e timore, il consolidarsi nella società civile di una organizzazione con tali caratteristiche, che si propone di tutelare con fermezza la legalità, sorvegliando le attività di politici, pubblici amministratori e giudici, i quali ultimi, non di rado, hanno dimostrato di essere collusi e/o contigui agli interessi delle classi dominanti.
Il tenace quanto illegittimo rifiuto opposto da parte della Regione Lombardia e Comune di Milano all’iscrizione del Movimento per la Giustizia nel Registro Regionale e Comunale delle associazioni di volontariato, nonché l’estrema lentezza con cui sono state accolte le relative domande, anche in sede decidente, dal T.A.R. per la Lombardia, ben possono fare capire quali resistenze istituzionali abbia dovuto superare l’Associazione per affermare il proprio diritto di esistere e svolgere serenamente la propria <mission>, cosa che, ancora, oggi non gli è consentito pienamente, a causa di un pervicace ostruzionismo paralegale, boicottaggi e impunite azioni persecutorie, da parte di Enti e Istituzioni, conseguenti l’assoluta inerzia della Magistratura inquirente e giudicante, connivente con i poteri forti che governano il Paese.
Basti pensare che per ottenere le citate pronunce di condanna della Regione Lombardia, la quale sosteneva temerariamente che le vittime degli abusi istituzionali “non avrebbero rivestito lo specifico carattere di soggetti svantaggiati“, si sono resi necessari ben cinque ricorsi amministrativi, di cui uno al Consiglio di Stato (tuttora inesaminato, a distanza di oltre 8 anni), una querela di falso, avverso i provvedimenti posti a base dei dinieghi e una serie di ricusazioni e denunce, anche nei confronti di interi collegi del locale Tribunale Amministrativo, tanto che per formare il collegio giudicante, che ha reso le due favorevoli decisioni, sono stati chiamati dei giudici esterni.
Alla freddezza della nomenklatura dei massimi rappresentanti del mondo della politica e della giustizia fanno, però, da contrappeso il calore della gente comune e dei molti onesti magistrati, pubblici funzionari, avvocati, studenti e lavoratori che, in massa, aderiscono alle iniziative dell’Associazione, la quale raggiunge ben 250.000 aderenti e simpatizzanti, nel 1994, a seguito delle sue campagne per la confisca dei patrimoni illeciti di mafiosi e tangentisti, i cui banchetti per la raccolta di firme a sostegno della petizione popolare, rivolta alle Camere, al Presidente della Repubblica, al Parlamento Europeo e alle Nazioni Unite, occupano le piazze delle maggiori città italiane e, finanche, di piccoli paesi delle isole e del centro-sud, in cui le persone comuni decidono spontaneamente di organizzarsi e prendere in mano il loro destino.
Un fenomeno partecipativo che si espande a macchia d’olio, silenziosamente, senza bisogno di mezzi di propaganda, sedi di partito, risorse finanziarie. Un fenomeno partecipativo di massa che si mette in moto da solo, attraverso una modesta associazione di volontariato, fatta da gente comune per difendere le persone comuni, fuori dalle logiche della partitocrazia, contro i soprusi del potere.
Ciò, può, quindi, ben rendere, l’idea di quale estremo bisogno di giustizia attraversasse e, tutt’oggi, continui ad attraversare il Paese, stante che quella domanda di giustizia e di legalità, proveniente da ogni strato della popolazione, è rimasta senza risposta.
Gli anni che hanno caratterizzato maggiormente l’attività pubblica dell’Associazione sono stati sicuramente quelli che vanno dal 1992 al 1995, nella c.d stagione di “mani pulite“, in cui da nord a sud del Paese, migliaia di volontari si riversano nelle piazze principali e avanti ai Tribunali di ogni regione italiana, organizzando raccolte di firme, manifestazioni spontanee e pacifici “sit-in“, in solidarietà ai magistrati antimafia e anticorruzione, chiedendo loro di “andare fino in fondo” e di “non guardare in faccia nessuno“, neppure, ovviamente, gli stessi magistrati corrotti, contigui a mafia, politica e massoneria, come ad esempio, l’ex Procuratore di Palermo, Gianmanco (referente della mafia in Sicilia), l’ex Capo dei G.I.P. romani, Renato Squillante (collettore delle tangenti “Previti-Berlusconi”), i magistrati di Cassazione, Verde e Carnevale (quest’ultimo grande assolutore di mafiosi) o, l’ex Presidente Vicario del Tribunale di Milano, Diego Curtò e l’ex Generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Cerciello, entrambi condannati per fatti di corruzione, che io stesso denunciai, sin dal lontano 1989, passando per lunghi anni per visionario, tanto da avere subito plurimi processi per pretesa “diffamazione” e “calunnia“, da cui sono stato, infine, scagionato, dopo una strenua battaglia giudiziaria (Citacov, “Il generale Cerciello l’aveva querelato, assolto“, l’Informazione, p.41, 30/11/94; Palau Giovannetti, “la Mala-Giustizia. Corruzione, Clientele, Mafia, Massoneria. Il Caso Palau-Classic Cars“, libro bianco, a cura del Comitato per la Tutela dei Diritti dei Cittadini, 1993).
Petizioni popolari, manifestazioni e iniziative contro la mafia e la corruzione, promosse dal Movimento per la Giustizia Robin Hood, suscitano l’attenzione, anche, di testate ed emittenti televisive estere, interessate a documentare il fenomeno di “mani pulite” e il suo retroterra logistico e organizzativo, trovando spazio sui maggiori quotidiani italiani locali e nazionali (Gi. Za. “Un trentenne miliardario fonda un movimento per la giustizia. E’ c’è anche Robin Hood“, in “L’Indipendente”, 15/2/94; Piana, “Un’associazione milanese estremo baluardo a difesa del pool Mani pulite“, in “La Voce”, 19/11/94; S. Barigazzi, “Giustizia l’è morta. La piazza si dispera“, in “Il Manifesto”, 7/12/94; S. Barigazzi, “Manifestano a Milano. Tra i fischi spuntano le bandiere di Forza Italia“, in “Il Manifesto”, 8/12/94; “Il Corriere Mercantile”, “Banchetti aperti in Via XX Settembre a sostegno dei giudici milanesi“, Genova, 13/2/95; la Repubblica, “Iniziata raccolta di firme a favore di Mani Pulite. Confiscate i beni a mafiosi e corrotti“, Torino, 10.5.95; la Repubblica, “Raid politico-turistico ad Hammamet. Vacanza di otto giorni, tutto compreso, per chiedere l’estradizione di Craxi“, pag. 8, 1/6/95, D.B., “Dalla Città. Petizioni. Fino al 22 raccolta di firme per il pool Mani pulite“, in “La Stampa”, 15/7/95; R.C., “Davanti a S. Croce, Raccolta di firme. Col movimento Robin Hood“, in “Il Piccolo”, Luglio 1995; Verres, “Robin Hood in Valle“, in La Vallè, Aosta, Agosto 1995; A. Carenzo, “Amarcord di un idolo. Nel palazzo aleggia ancora il fantasma di Di Pietro“, in “Il Secolo XIX”, 18/1/96) .
Le attività petitorie dell’Associazione, contro i c.d. decreti “salvaladri” del governo (Biondi e Tremonti), volti a garantire l’impunità ai grandi corruttori di regime e legare le mani alla magistratura, in materia di indagini fiscali e tributarie, vengono riprese, oltre che dai quotidiani, come la Voce (“Seimila firme contro il decreto Tremonti“, 27/7/94), anche, da riviste giuridiche, socio-politiche e settimanali dei consumatori, come “L’Incontro” (“Movimento per la Giustizia. Una petizione contro i corrotti“, n. 4/95) e Il Salvagente (Palau Giovannetti, “C’è un decreto che non deve passare“, in “Il Salvagente”, Anno 3, n. 31, Agosto 1994), ove si denuncia, come il governo, nell’estate 1994, avesse cercato di fare passare alla chetichella, il “decreto Tremonti” (dal nome del Ministro delle Finanze), soprannominato “salvaladri bis” (poi bloccato dalla mancanza del numero legale e dalla protesta popolare), che doveva andare a rimpiazzare l’allora più noto “decreto Biondi”, pure ricusato dalla piazza, attraverso il quale il potere politico intendeva sottoporre al suo incondizionato e discrezionale potere di veto, le verifiche fiscali e tributarie nei confronti dei grandi evasori di Tangentopoli, prima di competenza del Secit della Guardia di Finanza, così impedendo alla Magistratura di indagare liberamente.
Gli anni che seguono, dal 1996 al 1999, che segnano il riflusso dell’azione di Robin Hood e il fallimento di “Mani pulite” (rivelatasi una mera operazione <mediatico-giudiziaria> per ricostruire il volto di una classe politica e di una magistratura che non godevano più di alcuna credibilità, da parte dei cittadini), sono gli anni del violento attacco del potere alle strutture organizzative dell’Associazione che, l’8.6.1999, a mezzo della Polizia Municipale, viene spogliata con violenza e minaccia dei locali di Via Dogana 2, in Milano, sede legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, seppure la magistratura avesse respinto con una duplice decisione, passata in giudicato, la pretestuosa richiesta di rilascio avanzata dalla giunta comunale, proprietaria dell’intero stabile, ove, sono, tuttora, ospitate diecine di associazioni, con ciò dimostrandosi la natura repressiva e discriminatoria dell’illegale azione di “spoglio” (impropriamente definita di “autotutela amministrativa“) e la lampante faziosità del Comune di Milano, che sosteneva intendere “allontanare tutte le associazioni dal centro storico, adducendo la necessità di ridestinare gli spazi ad attività commerciali” (Palau Giovannetti, “Storia di Robin Hood“, in “La Voce di Robin Hood“, N. 1, Ottobre 2002, p. 6; e “Persecuzione politico-giudiziaria“, in “La Voce di Robin Hood“, n. 0, Novembre-Dicembre 1999; e (sempre dello stesso autore) “Il Pretore ci ha dato ragione“, in “Corriere della Sera“, 28.4.96).
La violenta rappresaglia del potere, che intende spazzare via ogni sacca di resistenza e di lotta alla corruzione, non si accontenta di colpire le strutture logistiche dell’Associazione, facendole venir meno qualsiasi sostegno, dopo aver smantellato, clandestinamente, senza alcun preavviso, i suoi uffici e archivi (ove oltre alla mostra umanitaria “Pittori contro la guerra – Artisti per la Pace”, vengono asportati centinaia di fascicoli processuali), ma si abbatte, anche, sui volontari e i responsabili del Movimento per la Giustizia Robin Hood, i quali, senza trovare alcuna tutela, da parte della magistratura, vengono fatti oggetto di continue azioni intimidatorie e <fermi illegali>, da parte di agenti delle forze dell’ordine (che più volte al giorno si presentano ai banchetti di raccolta firme, cercando con ogni pretesto di bloccare la petizione per la restituzione della sede di Via Dogana 2) e dei servizi segreti che minacciano imminenti arresti e ritorsioni, finanche sui parenti, ove gli attivisti si “ostinino” a sostenere l’Associazione.
Fatti della massima gravità, di allarmante pericolosità sociale, su cui, ciò nonostante, non verrà, mai, svolta alcuna indagine, seppure ripetutamente, denunciati e riferiti dalla stampa, che parla di esplicite minacce, ricatti e tentativi di corruzione di attivisti di Robin Hood (L. Piana, “Un’associazione milanese estremo baluardo a difesa del pool Mani pulite“, la Voce, 19/11/95), ben conoscendo il quotidiano, all’epoca diretto da Indro Montanelli, come stiano le cose, avendo già avuto modo di seguire le attività dell’Associazione e di segnalare, al pari di altri quotidiani, anomali sequestri di banchetti per la raccolta firme e turbative, ad opera della Polizia Municipale (“I ghisa contro Robin Hood. Sfrattata da Piazza Duomo, l’Associazione che sostiene Mani pulite“, in “la Voce”, p. 28, 4.2.95; L’Unità, “Vigili sequestrano firme e tavolini a Robin Hood“, p. 23, 4/2/95; Corriere della Sera, “Petizione con rissa“, p. 40, 4/2/95).
Di fronte alla ferma e composta reazione dei volontari che per ben 115 giorni consecutivi, continuano pacificamente a denunciare l’ingiusto sfratto e l’inerzia della magistratura, raccogliendo la solidarietà dei cittadini che, davanti al Tribunale di Milano, sottoscrivono la petizione dell’Associazione, il potere fà scattare una brutale aggressione culminata con l’illegale sequestro di tavoli, firme, penne, striscioni, il fermo di vari volontari e l’arresto del sottoscritto, con la falsa accusa di avere opposto resistenza ai Carabinieri (non a caso appartenenti al “Reparto Servizio Magistrati”, ai quali era stato ordinato di porre fine con ogni mezzo alla scomoda protesta) e di avere provocato “contusioni” a tale M.llo Vicinelli, nel tentativo, si assume, “di impedire l’esecuzione del predetto sequestro“.
Procedimento che, senza, neppure, tenere conto delle testimonianze di numerosi cittadini e di un magistrato, presenti ai fatti, che smentivano le false accuse del M.llo Vicinelli – e nonostante l’annullamento, da parte del Tribunale della Libertà, del provvedimento con cui i Carabinieri avevano proceduto al sequestro, stante l’assoluta illegittimità del loro operato ampiamente sottolineata nell’ordinanza del riesame che ha disposto la restituzione dei materiali in sequestro – si concluderà con una scandalosa condanna a quattro mesi di reclusione, nei confronti di chi l’aggressione l’aveva, invero, solo subita, come confermato da tutti i testi oculari, di certo più affidabili del Vicinelli, la cui dubbia “credibilità” ha prevalso, seppure, risultasse indagato in procedimento connesso per “falso ideologico, abuso di ufficio, violenza privata e turbativa dei diritti politici dei cittadini” (la Voce di Robin Hood, n. 0, novembre-dicembre 1999, “Il Tribunale della Libertà dichiara illegittimo il blitz dei Carabinieri e la Procura archivia le false accuse di oltraggio alla magistratura“).
Sentenza, la cui sommarietà non è sfuggita all’opinione pubblica e alla stampa milanese, la quale ha affermato dalle colonne del quotidiano “Il Giorno” che le lunghe spiegazioni difensive di Pietro Palau Giovannetti, in cui ha rappresentato essere vittima di continue vessazioni da parte delle forze dell’ordine e di una persecuzione ai danni dell’Associazione Robin Hood, da lui diretta, “non gli è bastato per ottenere l’assoluzione“, aggiungendo che: “Il processo non ha chiarito ovviamente l’esatta dinamica del blitz dei carabinieri contro il sit-in, ormai tradizionale, davanti al Tribunale“… che, (ha tenuto a precisare l’articolista) “continua dall’inizio di giugno“…, come a voler sottolineare l’inverosimiglianza dell’impianto accusatorio e la contraddittorietà degli elementi di prova su cui si è basata la condanna, tanto da affermare subito dopo che: “Infatti accusa e difesa sono rimaste sulle loro posizioni in merito al presunto intervento ‘esterno’ da parte di un magistrato che avrebbe dato ordine ai militari di eseguire lo sgombero dei manifestanti“, riferendo, infine l’arringa del difensore circa l’arbitrarietà dell’intervento dei carabinieri e il fatto che “se Falcone tornasse in vita sosterrebbe che esiste anche una mafia giudiziaria“, condividendo la tesi dell’Associazione (Il Giorno, “Robin Hood condannato a quattro mesi. Quattro mesi di carcere per Pietro Palau Giovannetti, accusato di resistenza dopo un sit-in in Tribunale contro i giudici“, p. 35M, 8.10.99).
Condanna che, seppure, palesemente iniqua, è stata confermata anche dalla Cassazione, sesta sezione penale (composta dai giudici Pisanti, Fulgenzi, Ciampa, De Roberto, Conti), con una “sentenza lampo“, che in data 2.5.01, a distanza di soli 18 mesi dai fatti, risalenti al 1.10.99, coprirà ben tre gradi di giudizio, dimostrando come la Suprema Corte possa usare due pesi e due misure non solo nell’accelerare o ritardare il normale iter di fissazione dei processi (per cui spesso, come ben noto a tutti, vengono scarcerati per decorrenza dei termini, frotte di mafiosi e pericolosi delinquenti) ma, anche, nell’applicazione rigorosa delle normative di legge, nella specie eluse, avendo omesso di censurare i molteplici vizi di legittimità in cui sono incorse le decisioni dei giudici di primo e secondo grado, sia in relazione all’omessa valutazione della citata ordinanza del Tribunale della Libertà, ritenuta apoditticamente <irrilevante> (la quale, si ricorda, accertava l’illegittimità dell’operato dei Carabinieri) sia in relazione all’inutilizzabilità delle dichiarazioni del Vicinelli, contenute nel verbale di sequestro, poi, annullato (il quale risultando, peraltro, indagato in procedimento connesso, avendo interesse alla causa, non poteva assumere la qualità di teste), sia in relazione all’omesso avviso all’imputato contumace dell’udienza di appello, dopo la sospensione del giudizio.
Senza parlare poi di una serie di ulteriori eccezioni, afferenti la mancata ammissione delle prove testimoniali, che avrebbero consentito di scagionare l’imputato, nonché la nullità “ab origine” dell’intero procedimento, per avere omesso il primo giudice di sospendere il giudizio e di trasmettere gli atti al Presidente del Tribunale e alla Corte di Cassazione, a seguito della intervenuta ricusazione nei suoi confronti e istanza di rimessione (artt. 37 e 45 c.p.p.).
Vizi, su cui la Suprema Corte di Cassazione, di norma così attenta e rigorosa, a garantire i diritti degli imputati eccellenti (non solo quelli di mafia), non si è, neppure, peritata di pronunciarsi compiutamente, tanto da “dimenticarsi” di considerare che – se è pur vero che la richiesta di ricusazione e di rimessione inibiscono al giudice di definire il giudizio, finché non sia intervenuta ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta dette richieste, e che la sentenza, eventualmente assunta dal Giudice ricusato, è nulla solo se interviene una pronuncia di accoglimento delle istanze de quibus – nella specie, il primo giudice, in persona della Dr.ssa Bianchini, aveva letteralmente omesso di trasmettere gli atti relativi ai ricorsi per ricusazione e legittima suspicione sia al Presidente del Tribunale di Milano, sia alla Corte di Cassazione (come tassativamente previsto dagli artt. 37 c. 2° e 46 c. 3° c.p.p., che impone che il giudice trasmetta immediatamente alla Cassazione la richiesta con i documenti allegati e eventuali osservazioni).
Con la conseguenza che, nessun organo ha, mai, potuto decidere sulle richieste di ricusazione e ‘legittimo sospetto’, avanzate nei confronti del Tribunale di Milano, ragione per cui non si vede come la Cassazione possa sensatamente avere ritenuto sanata la nullità derivante dall’omessa trasmissione degli atti, ovvero sostenuto in buona fede che sarebbe stata necessaria una pronuncia di accoglimento di istanze invero mai trasmesse, per potere rilevare la nullità originaria dell’intero giudizio e della sentenza impugnata che, nella specie, è stata conseguentemente resa in macroscopica violazione del diritto di difesa e per falsa applicazione di norme di diritto.
Motivazioni, quindi, palesemente capziose, illogiche e prive di qualsiasi pregio giuridico, tanto più se si tiene conto che provengono da magistrati di Cassazione, di cui i poco accorti giudici della sesta sezione penale dovranno, pertanto, rispondere, unitamente ai giudici di primo e secondo grado, trattandosi di decisioni affette da falsità ideologiche, plurime attività omissive e dolo revocatorio, idonee a provocare un’ingiusta condanna, nei confronti di chi chiedeva solo giustizia e di ristabilire la legalità infranta, ricevendo la solidarietà da parte di molti degli stessi Carabinieri in servizio presso Palazzo di Giustizia di Milano, che ben conoscono e apprezzano le attività dell’Associazione, ovvero la serietà e l’integrità morale del suo Presidente che, ben lungi dall’essere una persona litigiosa e collerica, ha scelto la strada della nonviolenza e del dialogo, adoperandosi la supremazia della legge della ragione su quella della forza (Sentenza n. 25564/01, Suprema Corte di Cassazione, sesta sezione penale).
La gestione del processo in esame, da parte della magistratura, la quale nel giugno 2005 ha messo in esecuzione l’abnorme condanna, oltre ad altre analoghe, per circa 3 anni di reclusione, di cui parleremo più avanti, non è quindi né un caso isolato né, tantomeno, un errore giudiziario, ma la sciente determinazione del potere di criminalizzare chi si è adoperato per fare emergere la Giustizia, in un Paese in cui – usando le parole del P.M. Gherardo Colombo – la legalità è un <optional> e la verità tarda a venire a galla perché prevale la logica dei ricatti e dell’intimidazione. Chi non cede ai ricatti, perché non ha scheletri negli armadi, viene intimidito, e se non basta, viene messo a tacere per sempre, come Falcone, Borsellino e tanti altri onesti servitori dello Stato.
Poi si darà, ovviamente, la colpa alla mafia, che rappresenta l’unico grande male, dando modo allo Stato (che invece è il bene), di presentarsi come il “Salvatore della Patria“, intorno a cui i cittadini si devono stringere, con fiducia, confidando in quelle stesse istituzioni a cui, ingenuamente, tutte le vittime della malagiustizia (o della mafia) si erano già affidate, venendo, miseramente, tradite, perseguitate, condannate alla morte civile o, barbaramente trucidate, uccise, quando non fisicamente, nello spirito e nella vita privata.
Non mi soffermerò qui a parlare dell’azione persecutoria dello Stato nei miei confronti, seppure sia stato fatto oggetto di oltre 750 procedimenti, con le accuse più disparate, senza alcuna indagine in mio favore, la cui narrazione, anche sintetica, richiederebbe un vero e proprio trattato sugli abusi giudiziari (una sorta di enciclopedia di come difendersi dalla malagiustizia), ma mi limiterò a trattarne, ancora, solo un paio, che riguardano la storia dell’Associazione e il tentativo di screditarne l’azione di denuncia da parte di settori della c.d. <magistratura di regime>, vicina alle logge massoniche, le quali controllando i gangli vitali delle istituzioni, dell’economia e dell’informazione, dagli anni 1996-1999, hanno praticamente imbavagliato la stampa e la televisione, oscurando la pubblicazione di qualsiasi notizia sulle attività del Movimento per la Giustizia Robin Hood e Avvocati senza Frontiere, che continuano silenziosamente ad operare nell’assoluta indifferenza e ostilità delle istituzioni (la Voce di Robin Hood, “Palavobis. Oscurata l’anima di mani pulite!“, p. 3, n. 1, ottobre 2002, Anno III).
Per meglio inquadrare la complessità sociale e la situazione in cui si può venire a trovare un’associazione antimafia che intenda portare avanti con coerenza i suoi fini statutari, rivestono sicuramente interesse degli studiosi sociali altri due blitz delle forze dell’ordine, nella sede del Movimento per la Giustizia Robin Hood, attraverso cui si può comprendere come possa prevalere, nella logica del <Dual State>, la forza <intimidatrice del potere>, su <quella della legalità> che lo stesso Stato dovrebbe, invece, concettualmente, tutelare.
Nella nota concezione di Ernst Fraenkel (1941), basata sull’esperienza dell’Autore con il regime nazista, ma utilizzabile anche per analizzare la situazione italiana, si descrive, infatti, la compresenza nell’assetto statuario di “normatività” e “discrezionalità“, ovvero come la <condizione doppia> rappresenti la complessità di unificazione delle strutture e dei metodi che, secondo Franz Neumann (Autore che ha sviluppato le tesi di Fraenkel), “conducono alla progressiva dissoluzione dello Stato e delle libertà dei cittadini“, configurandosi una funzione dello Stato di soppressione delle libertà politiche e dei diritti dei lavoratori, dei quali venne organizzato il consenso intorno al razzismo imperialistico, tipico del nazionalsocialismo: ciò che, seppure, in altre forme, si sta cercando di ripetere oggi, anche in Italia (Ernst Fraenkel, “Dual State“, Octagon Books, Hardcover, 1969, tr. It. “Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura“, Einaudi, 1983; Franz Neumann, “Behemoth, Struttura e pratica del nazionalsocialismo“, Feltrinelli, 1977).
Il primo dei due blitz, avviene ad opera della Polizia Municipale, durante la “Festa della Befana“, un’iniziativa benefica riservata ai soci, in favore delle vittime della malagiustizia. Il 6 gennaio 1996, presso la sede dell’Associazione, ubicata nello stabile di Via Dogana 2, a Milano (ove hanno sede anche molte altre associazioni, tra cui i Verdi e la Libreria delle Donne), mentre stavano iniziando ad affluire i primi partecipanti, fanno irruzione, senza alcun mandato, un gruppetto di agenti della Polizia Annonaria del Comune di Milano, sostenendo che si sarebbe trattato di una “festa illegale“, in quanto “non autorizzata“, e che, da lì a poco, sarebbe stata eseguita <una operazione del Prefetto di Milano per sgomberare l’Associazione…>, la quale, a dire degli agenti, sarebbe risultata non essere in possesso dei requisiti di legge per potere operare, occupando, tra l’altro, abusivamente i locali di Via Dogana.
A nulla sortendo ogni ragionevole invito ad esaminare i documenti attestanti la legittimità delle attività associative (statuto, libro soci, tessere, ricevute pagamenti affitti, etc.), alcuni associati si determinavano a chiedere l’intervento della Polizia di Stato, denunciando il comportamento illegittimo e minaccioso degli agenti della Annonaria, palesemente esorbitante le loro funzioni istituzionali (limitate a comminare, tutto al più, una multa per la pretesa mancanza di autorizzazione, invero non necessaria, trattandosi di una festa privata), i quali impedivano agli altri associati di entrare alla festa, permanendo, senza titolo né ragione, nei locali privati di un’Associazione di Volontariato, da oltre due ore, in attesa di un più vasto preannunciato fantomatico blitz del Prefetto, che poi non è, infatti, mai, avvenuto.
L’arrivo della Digos, anziché di una normale volante della P.S., complicava la situazione, poiché gli agenti intervenuti facevano parte del Commissariato di P.za S. Sepolcro, che per anni aveva coperto ogni illecito edilizio e urbanistico, denunciato dall’Associazione, in relazione all’immobile di Via Zenale 9, in Milano, di proprietà di palazzinari, molto vicini alla Edilnord di Paolo Berlusconi e all’ex Sindaco di Milano, Pillitteri, cognato di Craxi, per cui io stesso, quale inquilino, avevo denunciato un tentativo di corruzione, rifiutando l’offerta di Lire 1.500.000.000, a mezzo di un assegno, con cui l’ex Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano, Michele Saponara, aveva cercato di mettere a tacere le molteplici denunce sporte nei confronti di suoi assistiti, magistrati, avvocati e disonesti funzionari dello Stato (Corriere della Sera, “Rifiuta un miliardo e mezzo di buonuscita. In Via Zenale inquilino resiste allo sfratto e denuncia un complotto“, 27/7/91; A. Sessa, “Giù le mani dalla città. Un comitato popolare dice basta alle speculazioni edilizie.La denuncia di anni e anni di abusi nel centro storico sfocia in una nuova forma di protesta“, in “L’indipendente”, Cronaca di Milano, p. 24, 3/11/1992; D’Amico, “Dopo il blocco della licenza arriva una gru e continuano i lavori. Sfida alla legge in Via Zenale. Totalmente ignorata la decisione della magistratura“, in “Il Giorno”, 29/10/91).
Gli agenti della Digos, malvedendo, quindi, sia il sottoscritto, che li aveva già denunciati, sia le attività dell’Associazione, ritenuta scomoda, rimanevano del tutto inerti, giungendo, persino, a rifiutare di procedere alla richiesta di “scambio di generalità” con gli agenti dell’Annonaria, che a loro volta si erano rifiutati di farsi identificare con nome, cognome e numero di matricola, proferendo continue minacce di arresto e pesanti considerazioni sul legale rappresentante dell’Associazione e la sua vita privata, in relazione alla vicenda di Via Zenale, da cui dopo anni di abusi, violenze e omissive connivenze dei pubblici poteri, era scattato il sequestro penale dell’intero immobile e delle concessioni edilizie, da parte dell’allora ex P.M. di “mani pulite” Antonio Di Pietro.
Singolarmente, gli agenti dell’Annonaria, il cui intervento avrebbe dovuto essere limitato al solo occasionale controllo delle attività ricreative dell’Associazione, nel quadro di quella che si presentava come una normale attività di routine, mostravano, invece, di nutrire ben diverse intenti e funzioni, rivelando esplicitamente di conoscere fatti privati, del tutto estranei alla mera pretesa necessità di autorizzazione per una festa associativa; fatti che, corre osservare, solo gli agenti della Digos gli potevano avere riferito, i quali, va ricordato, senza alcun ritegno, pur svolgendo una delicata attività di vigilanza e prevenzione, nell’interesse dello Stato, non esitavano ad ostentare pubblicamente le proprie personali simpatie politiche, tenendo appesi alle pareti degli uffici della Digos di P.zza S. Sepolcro (ove io stesso in più occasioni ero stato accompagnato), i gagliardetti di “Forza Italia”, anziché quelli del Milan o della squadra del cuore o, tutto al più, i poster della Pirelli, con le fotomodelle in bikini.
L’epilogo della vicenda, finisce, ancora una volta, con una brutale aggressione e il mio illegale arresto, questa volta consumato nei locali privati dell’Associazione, ad opera degli stessi agenti dell’Annonaria (rivelatisi, invero, parrebbe, una squadra speciale agli ordini del vice-Sindaco di A.N., De Corato), i quali afferrandomi per le braccia, le gambe, i capelli e colpendomi con pugni e calci, anche nei testicoli, mi trascinano con la forza, per tre rampe di scale, tra le proteste verbali di una cinquantina di presenti, che ubbidienti ai principi della nonviolenza non oppongono resistenza, come d’altronde, io stesso, che mi limito a chiedere, una volta trasferito in una cella di sicurezza, presso il Comando della Polizia Municipale di P.zza Beccaria (dove passerò la notte, in attesa del processo per direttissima), di venire trasferito all’ospedale per potermi fare medicare dalle ferite, cosa che mi verrà negata, sino alla scarcerazione il giorno seguente, da parte del Pretore (la Repubblica, “Festa della Befana abusiva. In carcere per oltraggio. Nei guai il presidente dell’associazione Robin Hood“, 7/1/97 e <Befana “abusiva”. Il Pretore libera Palau>, 9/1/97; L’Unità, “Brutta Befana per Robin Hood, Palau a giudizio: ha resistito agli agenti“, 9/1/96; Il Giorno, “Festa illegale. I Vigili arrestano Robin Hood con rissa“, 7/1/96; Corriere della Sera, “Robin Hood resiste agli agenti: fermato“, 8/1/96).
Il giudizio per direttissima, svoltosi avanti al Pretore di Milano, dr. Imprudente, così come la successiva sommaria sentenza di condanna a 12 mesi di “libertà vigilata“, nonostante l’incensuratezza dell’imputato, sono, anche, in questo caso, del tutto scandalosi, essendo venuta meno qualsiasi garanzia di imparzialità decisoria, da parte del giudicante che ha dimostrato la sua faziosità e sudditanza al potere politico, non prestando alcun credito ai numerosi testi della difesa, tra cui persone estranee all’Associazione e passanti, fondando la propria abnorme decisione sulle non certo disinteressate testimonianze degli agenti dell’Annonaria, anche in questo caso non utilizzabili, in quanto indagati in procedimento connesso, come nell’altra vicenda precedentemente narrata dei Carabinieri del “Reparto Servizio Magistrati” di Palazzo di Giustizia (Corriere della Sera, “Robin Hood, arresto confermato“, 9/1/96).
Sarà, solo, la sentenza n.2139/98 della IV sezione penale della Corte d’Appello di Milano, presieduta dall’integerrimo dr. Caccamo (il quale già condannò il gotha di Tangentopoli), a ripristinare la verità e a confermare l’esistenza del denunciato preordinato boicottaggio paralegale delle attività del Movimento della Giustizia Robin Hood, ad opera del Comune di Milano e dei gruppi di pressione riferibili ai partiti di governo della città.
Infatti, annullando l’abnorme condanna del Pretore Imprudente, la Corte Ambrosiana stigmatizza l’accaduto, affermando, testualmente, che: “…al di fuori di schemi formali la vicenda deve essere valutata con senso di equità“. “Infatti, il Palau, ritenendo, forse, non del tutto a torto, di avere subito degli abusi nella gestione giudiziaria di vicende che hanno portato alla perdita del patrimonio famigliare ha creduto, e crede, di trovare nel Movimento per la Giustizia una tribuna di protesta aperta a chi avesse subito vessazioni, da parte del potere… che costituisse appoggio e consenso popolare alla lotta contro la corruzione, quella giudiziaria inclusa“. “Le rumorose iniziative e manifestazioni civili non hanno, ovviamente, incontrato il favore delle varie Autorità che negli occasionali interventi non hanno mancato di manifestare il fastidio per quella che vedevano come una azione di disturbo“. “Che il Palau fosse in buona fede lo dimostra il fatto che egli chiese subito l’intervento della Polizia di Stato.
E quel che stupisce è che i funzionari sopraggiunti si sarebbero limitati a cercare di spiegare, a loro dire, che i vigili avevano ragione e fossero poi rimasti spettatori inerti delle seguite diatribe e vie di fatto, senza intervenire quasi si trattasse di fatti che non li riguardavano“. “Non va poi sottaciuto che appare piuttosto strano che alle vie di fatto fosse passato per primo il Palau se si tiene conto della sproporzione fisica degli antagonisti. Incidentalmente, va rilevato che il Palau nell’occorso riportò lesioni ben più gravi delle piccole contusioni riportate dai due vigili” (sentenza n.2139/98, Corte Appello Milano, 4 sezione penale).
L’autorevole sentenza della Corte Ambrosiana, non piacendo ai poteri forti, scatenerà l’ira della massoneria giudiziaria milanese e il risentito ricorso del Procuratore Generale, alla Cassazione, quindi una serie di “procedimenti di rinvio“, scambi di denunce tra giudicanti e imputato (tra cui lo stesso Pretore Imprudente), nuove assoluzioni del sottoscritto e, infine, una catena di opposizioni alla Procura di Brescia, al tentativo di archiviazione della querela, tuttora insabbiata, contro gli agenti dell’Annonaria e i molteplici magistrati che hanno avuto parte nell’illegittima azione di criminalizzazione e soffocamento dei più elementari diritti politici dell’Associazione . Fatti su cui, allo stato, la Procura bresciana, territorialmente competente per territorio, nonché ogni altra Autorità dello Stato adita, dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, alla Procura Nazionale Antimafia e al Presidente della Repubblica, a distanza di ben 10 anni dalla prima denuncia, non ha, ancora, svolto la benché minima indagine, nonostante l’allarmante valenza criminosa e la pericolosità sociale dei comportamenti posti in essere dai diversi funzionari dello Stato e dai magistrati inquirenti e giudicanti coinvolti (Atto di opposizione, ex art. 410 c.p.p., 7/6/04, P.M. di Brescia, dr. Gallo, R.G.N.R. 13899/03).
Tentativi di insabbiamento e connivenze a parte, resta il fatto che quella parte sana della magistratura, che pure esiste, anche se si fa molta fatica ad individuarla (almeno tra i viventi), ha annullato l’arbitraria condanna a 12 mesi di libertà controllata, inflitta dal Pretore Imprudente, per la pretesa “resistenza” agli agenti della Polizia Annonaria, i quali, senza alcun mandato, avevano fatto irruzione nei locali dell’Associazione, con il pretesto di un controllo di routine, arrestando il promotore, come ancora oggi si usa fare nei Paesi autoritari, privi di diritti certi, credendo che il cammino della giustizia e la storia possano essere fermati dalla repressione, colpendo i simboli della resistenza della società civile.
In proposito, è opportuno sottolineare, come la misura della <libertà vigilata> (art. 228 c.p.p.), rientri tra le tipiche restrizioni, attraverso cui il fascismo ieri e le “democrazie mafiose” oggi (usando la definizione di Panfilo Gentile), organizzino il controllo politico del dissenso, calpestando le libertà fondamentali dei cittadini (Panfilo Gentile, “Democrazie Mafiose. L’altra faccia del sistema democratico. Come i partiti mantengono il potere“, Ponte alla Grazie, 1997).
L’istituto della “vigilanza speciale” che prevede la sorveglianza della persona in stato di libertà controllata, da parte dell’Autorità di pubblica sicurezza, trae le sue origini, infatti, dal codice Zanardelli, risalendo alla fine del diciottesimo secolo, in cui la misura aveva funzioni esclusivamente repressive, volte a salvaguardare la sicurezza e la conservazione della società giuridicamente organizzata, riguardando soggetti ad alta pericolosità sociale, quali possono considerarsi oggi boss mafiosi, serial killer, pericolosi delinquenti, ma non certo il rappresentante di un’ associazione di volontariato che si adopera per il rispetto della legalità e dei diritti dei cittadini più deboli. Sotto tale profilo appare, quindi, del tutto evidente come la misura inflitta a una persona incensurata non avesse altra funzione che quella di sottoporre il soggetto passivo ad uno stretto controllo, da parte dell’Autorità di P.S., della sua vita pubblica e privata, nonché di ingerire pesantemente nella vita dell’Associazione, screditandone il fondatore, allo scopo precipuo di allontanare gli associati.
L’altro blitz, nella sede dell’Associazione, tra i tanti da ricordare, di cui va trasmessa la memoria storica, per comprendere come il potere agisca nel consapevole intendimento di contrastare con ogni mezzo l’azione diretta dei cittadini atta a creare legalità, è avvenuto, ancora, ad opera della Digos, circa un anno dopo, durante l’allestimento della mostra umanitaria “Pittori contro la guerra 1997“, in favore dei bambini profughi dell’ex Zaire. Una manifestazione che si proponeva di diffondere un messaggio di pace e solidarietà per l’educazione al rispetto dei diritti umani e per l’effettiva attuazione della “Dichiarazione Universale”, sancita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948. La mostra, articolata in quattro sezioni, con oltre 400 opere e sculture, provenienti da artisti di tutto il mondo, era patrocinata dalle maggiori Autorità in campo internazionale, tra cui, in particolare:
– l’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra;
– la Rappresentanza Italiana della Commissione Europea;
– l’U.N.I.C.E.F.;
– l’U.N.E.S.C.O. di Parigi;
– Il Ministero della Cultura e il Governo della Croazia;
– la Municipalità di Dubrovnik;
– le maggiori Accademie di Belle Arti in Italia e all’estero;
– la Provincia di Milano;
– la Regione Lombardia;
– la compagnia di bandiera ALITALIA.
L’articolazione della mostra in quattro sezioni, concepite per sviluppare una discussione sui grandi temi della giustizia, della legalità e della guerra, coinvolgendo la partecipazione dell’intera società civile, a partire dai bambini delle scuole elementari, sino agli studenti delle Accademie di Belli Arti, prevedeva in particolare:
– “Concorso non competitivo sul tema della guerra ” (per pittori professionisti e amatori, aperto ai docenti e agli allievi dei licei e Accademie di Belle Arti);
– “I Pittori di Dubrovnik” (rassegna di trenta opere dei maggiori artisti croati per non spezzare la catena della solidarietà);
– “I Colori contro la guerra” (rassegna di disegni di bambini e studenti);
– “l’Etica della politica” (rassegna di quindici “falsi d’autore” con caricature di politici italiani per significare la falsità della politica e che la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi).
L’iniziativa, tenuto conto della sua rilevanza sociale e culturale, veniva pubblicizzata gratuitamente sul quotidiano “la Repubblica” e riviste del settore, oltre che da radiogiornali, televisioni e dall’Alitalia con locandine affisse in tutti gli aeroporti italiani (la Repubblica, “Pittori contro la guerra 1997. Una mostra contro l’ingiustizia e l’indifferenza“, 12/5/97; Corriere della Sera, in “ViviMilano”, (Mostra) Pacifista, 6/3/97; ArteCultura n. 4 Aprile 1997 e n. 5 Maggio 1997).
La presentazione ufficiale della mostra avveniva a Dubrovnik, il 29.3.97, alla presenza dei rappresentanti del Governo di Croazia e del Movimento per la Giustizia Robin Hood, esponendo, in anteprima, una trentina di opere, offerte dai maggiori artisti croati, per significare il legame di solidarietà che unisce le popolazioni colpite dalla guerra e fare arrivare un messaggio forte da una città che era stata distrutta dai bombardamenti e da poco ricostruita (Slobodna Dalmacija, Uskrs, 1997; Dubrovacki Vjesnik, 29.3.97).
Ciò nonostante, in data 8.4.97, gli agenti della Digos di P.za S. Sepolcro, si presentavano in forze presso la sede dell’Associazione, questa volta, però, con un mandato del P.M. Stefano Aprile, con il quale si chiedeva di perquisire i locali di Via Dogana 2, provvedendo al sequestro di 15 quadri, della sezione dedicata all’etica della politica, raffiguranti “falsi d’autore“, con opere di Matisse, Degas, Magritte, Brauner, Picasso, Ligabue, Rousseau, Lautrec, i cui volti dei soggetti originali delle opere erano stati sostituiti con le caricature di alcuni politici italiani della prima e seconda Repubblica, ritratti in pose ironiche, per rendere evidente che la politica deve essere intesa come una missione per il bene della società e non un mestiere per arricchirsi illecitamente.
L’accusa mossa dal P.M. Stefano Aprile, assolutamente infondata e infamante, inspecie per chi propone una mostra all’insegna dell’etica politica, è di “appropriazione indebita“.
A questo punto, corre opportuno precisare che, le opere in questione erano state donate circa due anni prima, da una pittrice non professionista, la quale aveva pubblicamente dichiarato in una intervista alla rivista “Stop”, di essere tra i promotori della mostra umanitaria, dedicata ai bambini profughi dell’ex Zaire (M. Di Leo, “Eccovi il Circo della politica“, Stop, Dicembre 1996).
La concomitanza dell’accusa e del ‘capzioso’ sequestro penale, con l’imminente inaugurazione della mostra, che doveva aprire i battenti pochi giorni dopo, ben evidenzia, anche in questo caso, la funzione palesemente strumentale del provvedimento paralegale del P.M. Stefano Aprile, volto a stroncare sul nascere, con la pesante accusa di “appropriazione indebita”, un’iniziativa destinata a creare solidarietà e simpatie intorno all’Associazione promotrice, che risultavano evidentemente scomode a chi non ha alcun interesse a vedere crescere un movimento spontaneo di cittadini, scollegati dagli interessi della politica dei partiti, i quali si pongono al di là di ogni sterile contrapposizione ideologica per fare emergere la legalità.
Il pretesto per colpire l’invisa Associazione viene costruito a tavolino, attraverso l’anomala intesa tra l’Amministrazione Comunale, guidata da una coalizione di centro-destra, e la Federazione milanese del PDS, partito storico della <opposizione di sinistra>, i quali per interessi convergenti, entrambi malvedono il rafforzarsi nella società civile di una Onlus non controllabile politicamente e per di più impegnata nella lotta alla mafia e alla corruzione che, tanto da vicino riguarda gli stessi apparati burocratico-amministrativi della locale Pubblica Amministrazione e dei relativi partiti di governo e di opposizione (virtuale o reale che sia).
Entrambi i soggetti entrano, infatti, in contatto con l’autrice dei falsi di autore, la quale inizialmente si adoperava per ottenere il patrocinio alla mostra, da parte dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano e del Ministro per i Beni Culturali, On. Veltroni, già Direttore dell’Unità.
Ne consegue che, Comune di Milano e Federazione milanese del PDS, offrono il <loro appoggio> alla pittrice, personalmente, anziché alla Associazione, lusingandola con la promessa di farla partecipare con una “personale” al Festival dell’Unità, con un proprio stand sui falsi d’autore, a patto che ella accettasse di revocare qualsiasi forma di collaborazione alla scomoda Associazione, rientrando in possesso dei quadri, che si ricorda erano stati donati quasi due anni prima, dalla medesima pittrice, la quale rendeva pubblico con una intervista alla stampa, il proprio impegno di offrire il ricavato della vendita all’asta, in favore dei bambini profughi, vittime del conflitto nell’ex Zaire (Di Leo, “Eccovi il Circo della politica“, Stop, Dic. 1996).
Accade, così, che il Responsabile del locale Festival dell’Unità, Luca Bernareggi, inviti la pittrice, già sostenitrice della mostra “Pittori contro la guerra”, ad esporre i falsi di autore al Festival milanese dell’Unità e che, quest’ultima, richieda di tornare in possesso dei quadri, sostenendo, pretestuosamente, di avere appreso dal Comune di Milano (senza meglio precisare da chi), che la mostra “non avrebbe mai avuto luogo” e che l’Associazione avrebbe fatto meglio a rinunciare all’iniziativa se non avesse voluto incontrare ulteriori problemi legali.
Pur avendo ricevuto assenso all’ingiustificata pretesa di restituzione dei quadri, al termine della mostra umanitaria, la pittrice, anziché rivolgersi al Giudice civile, con una normale <azione petitoria>, trattandosi di una mera controversia sul diritto di proprietà dei quadri, sporgeva inopinatamente querela presso il Commissariato di P.S. di P.zza S. Sepolcro (quello dove all’Ufficio Politico della Digos sono in bella vista i gagliardetti di Forza Italia), i cui funzionari dirigenti, senza neppure peritarsi di sentire la versione dell’Associazione, si affrettavano a richiedere il <sequestro preventivo> delle opere, quale preteso “corpo di reato”, presentando, falsamente, il sottoscritto come una persona “socialmente pericolosa“, nonché spingendosi a sostenere, in spregio a qualsiasi contraria evidenza documentale, risultante dai certificati penali, che lo stesso avrebbe subito precedenti condanne per non meglio precisati “reati contro il patrimonio” (Comunicazione di notizia di reato con richiesta di decreto di Sequestro Preventivo, 7/4/97, Questura di Milano, Commissariato della P. di S. di P.zza S. Selpocro, Ispettore Carmelo Di Grazia).
Circostanza che, seppure palesemente falsa, forniva il pretesto per motivare la misura del sequestro cautelare “inaudita altera parte“, onde impedire all’indagato, asseritamente, “pregiudicato” per reati consimili (tenuto conto delle a lui attribuite “indole a delinquere” e “pericolosità sociale“), di “sottrarre o disperdere i quadri“, neanche si trattasse di un trafficante internazionale di opere d’arte o dei preziosi dipinti originali – e, non già, di falsi con mere caricature di modesto valore commerciale.
Il P.M., Dr. Stefano Aprile, su cui la massoneria giudiziaria pilotava il procedimento, si rivelava essere, guardacaso, figlio di Goffredo Aprile, titolare di una <cooperativa rosa>, tempo addietro denunciata dall’Associazione, per avere spogliato con violenza e minaccia, della loro abitazione, dopo una vera e propria frode processuale, un’umile famiglia di operai, che l’aveva acquistata con grandissimi sacrifici.
In tale anomalo contesto, una volta disposto il sequestro, il P.M. respingeva qualsiasi istanza di restituzione dei quadri, motivata a consentire la loro sola esposizione, quantomeno, sino al termine della mostra, onde non privarla della sezione dedicata all’etica della politica, sul presupposto che la sua realizzazione era stata da tempo preannunciata dagli Enti promotori e dalla stessa autrice, costituendo parte integrante dell’importante iniziativa umanitaria.
Ignaro di tutto ciò, anche, l’allora Procuratore Capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, pur edotto dei gravi motivi di <incompatibilità> e <conflitto di interessi>, gravanti sul suo Sostituto P.M., Stefano Aprile, ometteva di provvedere alla sua sostituzione, come richiesto e previsto dagli artt. 36, comma 1, lettera a), b), d) e) e 53 comma 2 c.p.p.; omissione in cui incorreva, a sua volta, il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Milano, pure sollecitato in tal senso, il quale ai sensi del comma 3 del medesimo art. 53 c.p.p., in caso di inerzia del Procuratore Capo, avrebbe dovuto provvedere a designare un magistrato appartenente al suo ufficio (art. 372, lettera b c.p.p.).
La prima edizione di “Pittori contro la guerra“, con oltre 400 opere e sculture esposte, prendeva, quindi, il via in mezzo ad una vera e propria “bufera giudiziaria”, a cui si aggiungeva, infine, l’imposizione del silenzio stampa, nonostante una positiva recensione di Sergio D’Asnasch, Consigliere e Segretario dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia e noto critico d’arte, il quale ebbe a visitare la mostra, in veste di inviato dell’Agenzia giornalistica A.N.S.A., dandone un positivo giudizio critico in cui sottolineava la “validità sociale ed artistica” dell’iniziativa, cosa che riconfermava, più recentemente, in una dichiarazione, rilasciata a fini di giustizia, in relazione al procedimento penale, pendente avanti al Tribunale di Milano, Giudice monocratico, Dr. Zucchetti, a carico del Presidente dell’Associazione, per il reato di appropriazione indebita, nel corso del quale, gli agenti della Polizia di Stato, al fine di sostenere la pretestuosa accusa, erano giunti a negare che “la mostra avesse avuto luogo” e che “esistessero altri quadri, oltre a quelli sequestrati” (Sergio D’Asnasch, “Attestazione autografa“, agli atti del procedimento penale R.G.N.R., n. 6590/01, a carico di Pietro Palau Giovannetti).
Senza perdersi d’animo, i legali dell’Associazione provvedevano a citare a giudizio, con un ricorso, ex artt. 700 e 703 c.p.c., oltre alla pittrice e al P.M. Stefano Aprile, la Federazione milanese del PDS, l’Ispettore di P.S. Carmelo di Grazia, il Comune di Milano e i Ministeri di Interno, Giustizia, Beni Culturali, ritenendoli, solidalmente, responsabili di avere, artatamente, provocato, in esecuzione di un preordinato disegno criminoso, lo spoglio della sezione dedicata all’etica della politica (di cui richiedevano l’immediata restituzione), allo scopo precipuo di boicottare le attività del Movimento per la Giustizia Robin Hood, ovvero la sua affermazione, quale nuova forza emergente espressa dalla società civile (Atto di citazione, Tribunale di Milano, IV sezione civile, procedimento R.G. n. 15228/97).
In proposito, i difensori dell’Associazione, richiedendo in via <cautelare e di urgenza>, la restituzione dei quadri, rilevavano che, seppure il sequestro fosse avvenuto in base ad un “ordine” dell’Autorità Giudiziaria, tale provvedimento doveva ritenersi illegittimo, in quanto affetto da <dolo collusorio>, rivestendo il P.M. la qualità di <coautore dello spoglio>, conformemente a quanto stabilito, in situazione consimile, dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione (Cass. n. 5070/83).
E, ciò, anche, alla luce del fatto che, il P.M. aveva, nelle more, indebitamente, acconsentito a disporre il dissequestro dei quadri, pur in pendenza della controversia sulla proprietà, in accoglimento della richiesta di “restituzione“, avanzata dalla pittrice (la quale era stata, invece, respinta per ben quattro volte consecutive da altri suoi colleghi P.M. di turno: Albertini, Scagliarini, D’Orsi, Scagliarini), affinché li potesse esporre al Festival milanese dell’Unità, come sollecitato dal Responsabile Organizzativo, Luca Bernareggi, a mezzo di una lettera in data 24.7.97, di cui, poi, la difesa della Federazione milanese del PDS, non potendo disconoscerne la provenienza e l’autenticità, ha cercato con ogni mezzo di sostenerne l’inesistenza, tanto da affermare ripetutamente, contro ogni evidenza cartacea e principio di buona fede, che tale lettera “non sarebbe risultata prodotta agli atti del giudizio“.
Circa la palese illegittimità del dissequestro e la malafede processuale del P.M. veniva, altresì, rilevato che questi, prima di provvedere alla “restituzione” ad una delle due parti in causa, non aveva compiuto alcun atto, volto a rimettere la controversia sulla proprietà dei quadri, al Giudice civile, come, tassativamente, previsto dall’art. 263 c. 3° c.p.p.
Evidenziando, poi, che tale omissione e l’ingiustificata contumacia del P.M., costituissero la prova incontrovertibile dell’insostenibilità e strumentalità della <pseudoimputazione> di “appropriazione indebita“, ovvero della consapevolezza, da parte della pubblica accusa, della materiale impossibilità di ottenere una sentenza di condanna.
Verdetto che, infatti, non è tuttora giunto, seppure il procedimento penale sia in corso da oltre 8 anni e i legali dell’Associazione abbiano ampiamente dimostrato la piena proprietà e disponibilità delle opere, da ben quasi due anni prima la pretestuosa denuncia, pilotata da chi aveva in animo di arrestare la crescita spontanea di un movimento antimafia e anticorruzione nel cuore della capitale finanziaria del Paese.
Nonostante tali evidenze, nessun giudice civile né penale, ha trovato il coraggio di ristabilire la legalità, provvedendo a tutelare le libertà associative del Movimento per la Giustizia, restituendogli, quantomeno, se non i quadri, la dignità morale che gli compete, cosa che, comunque, purtroppo, non servirà a salvare le vite umane di quei 400.000 profughi dell’ex Zaire, morti di stenti, che “Pittori contro la guerra 1997”, nel suo piccolo, si proponeva di aiutare.
Quale ultimo atto dell’infaticabile azione di boicottaggio, da parte dello Stato, attraverso cui si è cercato paralizzare la mostra e qualsiasi attività associativa, vale la pena dulcis in fundo ricordare la disattivazione di tutte le linee telefoniche, di telefonia fissa e mobile, riferibili all’Associazione e finanche all’abitazione dello scrivente, ad opera della Telecom Italia e della TIM (quella che Beppe Grillo definì “un’associazione di stampo telefonico”), le quali, all’epoca, agivano, ancora, in pieno regime di monopolio, su concessione del Ministero delle Telecomunicazioni.
Storia che appare utile narrare, onde far comprendere <le ramificazioni> dell’azione repressiva da parte dello Stato e la forma <tentacolare> che la stessa può assumere nel tentativo di avvolgere le vittime nelle proprie spire, soffocandone ogni possibilità di resistenza.
In una prima fase, si trattò di una incessante serie di turbative, in cui Telecom e Tim, adducendo falsamente che non sarebbero stati effettuati i pagamenti di alcune fatture, sospendevano contemporaneamente il servizio per vari giorni di ben tre diverse utenze, ignorando ogni contestazione, circa la violazione del Regolamento di Servizio, che prevede che il gestore monopolista prima di privare l’utente del servizio, lo debba mettere in mora e attendere la soluzione della controversia, ove sorgano contestazioni sul pagamento delle bollette telefoniche (Art. 13, commi 2° e 5° del Regolamento di Servizio Telecom Italia).
Nella fase terminale del boicottaggio, nonostante l’instaurarsi di varie denunce e citazioni per spoglio delle linee telefoniche, ai sensi degli artt. 700 e 703 c.p.c., nei confronti di Telecom, TIM e Ministero Telecomunicazioni, gli Enti resistenti, anche grazie all’inerzia dei giudici, che negavano qualsiasi tutela, coprendone l’illegittimo operato, si spingevano a risolvere “unilateralmente” ogni contratto di utenza telefonica, seppure fosse stata raggiunta piena prova in giudizio, dell’avvenuto integrale pagamento delle fatture, nonché offerta garanzia fidejussoria, a mezzo libretto bancario, sino alla concorrenza delle somme indebitamente pretese (Atto di Appello, in data 26/8/03, avverso sentenza Tribunale di Milano, n. 9410/02 – R.G. 3001/01, Corte Appello Milano).
I vari giudici investiti dei procedimenti azionati dalla Associazione, menomata nella sua libertà di comunicazione, anziché censurare gli illeciti comportamenti del Gestore, chi ritenendosi “calunniato“, chi “oltraggiato“, chi, ancora, addirittura, “minacciato“, per il contenuto degli scritti difensivi e le “insistenti istanze” dell’Associazione per giungere alla definizione dei numerosi giudizi – su cui a distanza di quasi 9 anni, non è, ancora, stata pronunciata una sentenza definitiva – si spingevano a sporgere una serie di denunce alla Procura di Brescia, accanendosi nei confronti del sottoscritto, quale rappresentante legale dell’Associazione.
A seguito di ciò, il Tribunale penale di Brescia, in questo caso, in tempi inusitatamente brevi (da vera e propria giustizia scandinava), tanto da non curarsi, neppure, della regolarità degli avvisi al difensore dell’imputato, circa la comunicazione del rinvio d’ufficio dell’udienza dibattimentale e, senza, svolgere alcuna indagine in favore dell’imputato, né preoccuparsi di citarlo a deporre sui fatti per sentire la sua versione, mai raccolta, pronunciava una frettolosa sentenza di condanna contumaciale a quattro mesi di reclusione, ritenendolo responsabile del reato di “minacce” (art. 336 c.p.), consistite: “nell’essere improvvisamente entrato” – così si assume nel capo d’imputazione – “…nella stanza del Giudice; nel chiedere di assumere rapidamente la decisione della propria causa; nell’impedire di chiudere la porta, gridando: “non ho paura di lei la tampinerò”; nel costringere la dr.ssa Magda Alessi, appartenente alla 11^ sezione civile del Tribunale di Milano, ad assumere una decisione allo stesso favorevole nella causa, n. 4395/98, nei confronti di Telecom Italia s.p.a. e altri” (Atto di appello in data 1.3.03, avverso sentenza Tribunale penale di Brescia, n. 3500/02, c/Pietro Palau Giovannetti).
A nulla giovava, neppure, rivolgersi alle più alte cariche dello Stato, tra cui l’allora Presidente del Consiglio dei Ministro, On. D’Alema (Esposto 4.11.98), il quale nella sua funzione di Presidente del “Comitato Permanente per l’Attuazione della Carta dei Servizi Pubblici“, era istituzionalmente preposto a svolgere funzioni di sorveglianza e di controllo, in applicazione delle Direttive Comunitarie (Direttiva CEE 95/62), Direttive del Ministro delle Poste in data 31.10.95 e 22.11.95, nonché Direttive dello stesso Presidente del Consiglio dei Ministri, in data 27.1.94, in relazione alle sanzioni da applicarsi al Gestore del Servizio telefonico pubblico, in caso di violazione delle funzioni istituzionali, circa il diritto alla libertà di comunicazione telefonica, sancita anche dalla Corte Costituzionale.
In proposito, si ricorda che, la Corte Costituzionale, seppure ignorata, ha autorevolmente ritenuto che, in relazione alle ipotesi di recesso, senza giusta causa, anche la clausola sulla morosità non determini il recesso, risolvendosi “in un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, in danno del consumatore” (Corte Cost., sentenza n. 1104/88). Aggiungendo, poi, che: “tale significativo squilibrio appare ancora più evidente, ove si consideri che l’Ente viola i principi fondamentali dell’ordinamento, collegati alla violazione del diritto di comunicazione telefonica. Diritto che si è ritenuto rientrare nella sfera dei diritti inalienabili, ai sensi dell’art. 2 Cost. (Cass. n. 2914/90), dovendosi conseguentemente ritenere che la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), debba avvalersi necessariamente di un mezzo di diffusione, quale il servizio telefonico, e tale servizio allo stato dell’attuale progresso socio-economico deve ritenersi un servizio pubblico essenziale” (in Foro It. I, 1989, I, C. 7).
Diversi anni dopo, una volta che, ormai, l’Associazione era stata sloggiata dalla propria sede, senza disporre delle proprie linee telefoniche, intervenivano due sentenze di rinvio, da parte della Suprema Corte di Cassazione (Sezione terza, nn. 13754/02 e 2058/04), che accoglievano i ricorsi dei legali dell’Associazione contro le sentenze emesse dai giudici milanesi: quelli per intenderci che avevano negato qualsiasi tutela, invano, invocata, ottenendo la condanna a quattro mesi di reclusione della parte ricorrente, in tempi e forme del tutto scandalose per una giustizia che possa reputarsi degna di questo nome.
A seguito di tali decisioni le domande di ripristino dei contratti e delle linee telefoniche sono, quindi, ora, rimbalzate al Tribunale di Milano, che a distanza di quasi 9 anni dai fatti, deve ancora decidere, proprio come nel precitato caso dello spoglio dei quadri della mostra “Pittori contro la guerra 1997”.
E l’odissea non sembra finire qui (Atto di citazione in riassunzione, Tribunale di Milano, Sezione IV civile, dr. Manunta, R.G. n 66945/03).
Quest’ulteriore emblematico episodio di “malagestio” dell’Amministrazione della Giustizia che suggella 20 anni di continue turbative e boicottaggio paraistituzionale delle attività dell’Associazione, rappresenta l’estremo tentativo dell’apparato repressivo dello Stato e di chi ne controlla le leve di comando di mettere a tacere una voce scomoda e indipendente, cercando di soffocarne proprio la <libertà di comunicazione telefonica> che a, seguito dello sviluppo tecnologico e del progresso economico, è divenuta un diritto essenziale, equiparabile alla libertà di manifestazione del pensiero, come statuito dalla già citate massime della Corte Costituzionale e dalle Direttive della CEE, in materia.
La concomitanza dello spoglio delle linee telefoniche e dei quadri della sezione dedicata all’etica della politica, a cui fa seguito, nel giugno del 1999, lo spoglio violento della sede dell’Associazione, non è una coincidenza temporale, determinata dal caso, ma la lucida scelta di tempi e tecniche repressive, attraverso cui lo Stato e i suoi apparati territoriali, facendo leva su una magistratura, priva di una cultura dei diritti, in larga parte asservita agli interessi dell’establishment, hanno deciso di <sospendere> le tradizioni normative e le garanzie costituzionali, nei confronti di chi ne rivendicava l’applicazione, determinando <quella “eccezione” della discrezionalità che conferma la regola dell’arbitrarietà>, tipica dei regimi totalitari o, se si preferisce, dei Paesi privi di diritti certi.
Il programma che l’Associazione si proponeva di realizzare, attraverso la mostra “Pittori contro la guerra 1997“, collegando le organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti, aprendo la sede di Via Dogana alle iniziative della società civile, offrendo tutela gratuita alle vittime della malagiustizia, lanciando campagne per la confisca dei patrimoni illeciti e per l’istituzione di una Commissione di controllo sull’operato di politici e magistrati, a cui potenzialmente potevano collaborare gli oltre 250.000 cittadini che avevano firmato le sue petizioni, era talmente temibile, da parte di chi voleva conservare i logori equilibri, su cui, tuttora, si regge l’organizzazione dello Stato, che è sembrato quasi “indispensabile“, cercare di sopprimere con qualsiasi mezzo, chi “osava” turbare quell’assetto di potere che, seppure moralmente inaccettabile alle gente per bene, per chi amministra il potere, viene inteso come il cardine dell’ordine sociale e della sicurezza dello Stato.
Ripercorrendo il manifesto di presentazione di “Pittori contro la guerra 1997”, si legge, infatti, testualmente che: “il Movimento per la Giustizia Robin Hood, quale associazione di volontariato, intende proporre alle persone di buona volontà e alle migliaia di associazioni umanitarie che agiscono sparse in ogni parte del mondo (e di cui spesso si ignora la reciproca esistenza), la creazione di una forte federazione internazionale con statuto depositato presso le Nazioni Unite (mantenendo le singole autonomie e competenze), in modo di potere pesare concretamente sul piano interno e internazionale con proposte e iniziative volte a garantire l’effettivo rispetto dei diritti umani nel mondo.
Il significato che potrebbe, ad esempio, assumere una campagna contro la produzione di armi da guerra o per interventi umanitari a favore di popolazioni colpite da conflitti bellici, promossa contemporaneamente da migliaia di associazioni non governative in ogni parte del mondo, è certo di diversa incidenza rispetto ad ogni singola iniziativa di ogni singola associazione, localmente circoscritta.
La proposta è quindi quella di iniziare a lavorare insieme, creando momenti di incontro e collegamenti, per costruire un ordine mondiale di pace e solidarietà tra i popoli, nel rispetto delle diversità culturali, etniche, sociali, politiche e religiose, ovvero un’etica universale dei diritti umani“.
“E’ oggi possibile affermare (prosegue il documento) una nuova cultura universale, capace di mutare i rapporti sociali e attuare i principi etici di uguaglianza e solidarietà tra gli uomini, estirpando dai loro cuori l’egoismo, l’odio e l’arroganza, da cui nascono le guerre.
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo pronunciata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite deve venire oggi concretamente attuata in ogni parte del mondo. Gli stati membri dell’O.N.U. ne hanno formalmente assimilato i principi fondamentali nei loro ordinamenti con leggi specifiche con cui uniformare l’organizzazione sociale, consolidando il principio supremo di “ORDINE INTERNAZIONALE”, fondato sul rispetto dei diritti umani universali e, conseguentemente, il principio di “NON LIBERTÀ DEGLI STATI” ad agire in spregio alle convenzioni internazionali.
Ma le brutalità e le gravi forane di ingiustizia che affliggono più o meno tutti i paesi del mondo testimoniano come siamo, ancora, ben lontani dall’effettivo rispetto dei diritti umani. I cosiddetti diritti di “PRIMA GENERAZIONE” (civili e politici), strettamente legati al diritto alla vita, alla libertà di pensiero e di associazione, a ricevere un processo equo, in tempi rapidi, da un tribunale imparziale, vengono, ancora, violati in gran parte del mondo, così come quelli definiti di “SECONDA GENERAZIONE” (economici, sociali e culturali) e di “TERZA GENERAZIONE”‘ (pace, ambiente, sviluppo).
Pensiamo a quanto accade nell’ex Zaire dove oltre un milione di persone e bambini hanno dovuto abbandonare i loro villaggi, le loro case, e si trovano senza acqua, viveri, medicine e mezzi di sussistenza, senza che la Comunità internazionale sia riuscita ad intervenire, come ha denunciato lo stesso Alto Commissario, Ogata Sadako, che ha lanciato un allarmante appello lo scorso aprile. La cultura occidentale (dalla Magna Charta nel 1200) ha inventato i cosiddetti diritti di prima generazione e il linguaggio giuridico.
Benché i diritti di prima generazione siamo stati concepiti in Europa, proprio nell’ambito di questo continente si è affermato il colonialismo e la giustificazione etica dello “STATO ARMATO”, a protezione del brutale sfruttamento economico delle risorse naturali e umane dei paesi in via di sviluppo.
A superamento di questa logica è auspicabile che si progetti una nuova concezione dello Stato, intervenendo sull’organizzazione delle istituzioni, con particolare attenzione alle strutture educative, che devono diventare scuole di educazione alla cittadinanza, per sviluppare la massima attenzione e ricettività ai bisogni dei cittadini. Attraverso nuove forme di cooperazione internazionale e specifici progetti delle Nazioni Unite, oggetto dell’attuale dibattito, sarà possibile risolvere il problema dei flussi migratori e della fame nel mondo, sulla base di valori umani universali. In tal modo alla “cittadinanza anagrafica” si sostituirà lo “STATUTO GIURIDICO DELLA PERSONA UMANA“, fondato sui principio della cittadinanza universale (cittadini del mondo)“.
“Per frenare le gravi forme di ingiustizia e le sistematiche violazioni dei diritti fondamentali (conclude il documento) è necessario sviluppare un’azione dal basso delle “ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE” che sempre più numerose partecipano alle attività delle Nazioni Unite, assumendo una funzione determinante del processo in atto per la concreta attuazione dei principi, posti a base della Dichiarazione del 1948” (P. Palau Giovannetti, “Una mostra per il rispetto dei diritti umani nel mondo, contro le guerre, l’ingiustizia e l’indifferenza“, in Presentazione “Pittori contro la guerra 1997”).
Negli anni che seguono, l’attività dell’Associazione, spogliata di sede, numeri telefonici di riferimento, archivi, fascicoli processuali, indirizzari soci e visibilità sui media (tanto da fare credere abbia cessato di esistere), subisce un forte rallentamento, concentrandosi sulla propria difesa legale, resa sempre più difficoltosa dal moltiplicarsi dei procedimenti e dalle resistenze della magistratura, in ogni sede e grado, riottosa a riconoscere le sue giuste ragioni, accertando la verità, a cui si affianca la difesa legale dei soggetti più deboli e dei tanti cittadini che, ogni giorno, loro malgrado, vengono costretti a subire soprusi legalizzati da parte delle varie mafie di potere. Si apre, così, una seconda fase nella storia della Associazione.
L’istituzione degli sportelli di “S.O.S. Giustizia” viene affidata alla struttura di “Avvocati senza Frontiere”, una rete che offre, gratuitamente, orientamento legale e la necessaria assistenza alle persone in stato di bisogno, attraverso cui è stato possibile raccogliere migliaia di casi, risolvendo molte situazioni di denegata giustizia, che spesso potevano sembrare impossibili da rovesciare.
Di tali attività, svolte da operatori del settore a livello di volontariato, ne parliamo nel paragrafo successivo, limitandoci a ricordare, a chiusura di questa prima parte che, l’Associazione, oltre ai numerosi riconoscimenti internazionali e patrocini per le sue attività in difesa della pace e della legalità, è stata insignita dell’Alto riconoscimento dell’O.N.U., “Thanksgiving for Peace“, in occasione della Giornata Mondiale delle Nazioni Unite, svoltasi a Milano, il 28 ottobre 2000, e che, nonostante, magistratura e Stato Italiano l’abbiano privata di qualsiasi tutela e sostegno finanziario, facendole venire meno l’assegnazione di nuovi locali, ove esercitare la propria attività, nonché ogni indispensabile cooperazione istituzionale, la stessa continua ad esistere e a godere di buona salute, testimoniando dal proprio sito internet, seguito in ogni parte del mondo, e dalle colonne di “la Voce di Robin Hood” (organo del Movimento per la Giustizia), a quale punto le istituzioni dello Stato possano ridursi nel cercare di frenare l’affermazione della legalità e dei diritti umani (www.associazioni.milano.it/robinhood/).
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Atto di Appello, in data 26/8/03, avverso sentenza Tribunale di Milano, n. 9410/02, tra Movimento per la Giustizia e Telecom Italia (R.G.A. n. 3001/01, Corte Appello Milano);
Atto di appello in data 1.3.03, avverso sentenza Tribunale penale di Brescia, n. 3500/02, c/Pietro Palau Giovannetti;
Esposto 4.11.98 al Presidente del “Comitato Permanente per l’Attuazione della Carta dei Servizi Pubblici“, On. Massimo D’Alema;
Direttiva CEE n. 95/62;
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Direttiva Presidenza del Consiglio dei Ministri 27/1/95;
Sentenza Corte Costituzionale n. 1104/88, in Foro Itialiano I, 1989, I, C. 7;
Sentenza Suprema Corte di Cassazione, Sezione terza, n. 13754/02, Palau Giovannetti Pietro e Movimento per la Giustizia Robin Hood contro Telecom Italia S.p.A.;
Sentenza Suprema Corte di Cassazione, Sezione terza, n. 2058/04, tra Movimento per la Giustizia Robin Hood e Telecom Italia S.p.A.;
Atto di citazione in riassunzione, Tribunale di Milano, Sezione IV civile, dr. Manunta, R.G. n. 66945/03;
Palau Giovannetti, “Una mostra per il rispetto dei diritti umani nel mondo, contro le guerre, l’ingiustizia e l’indifferenza“, in Presentazione “Pittori contro la guerra 1997”.