————————————————————————————————————————————————————–Eugenio Scalfari e la massoneria. Una vita per il potere.
Ecco cosa scrive su di lui Giancarlo Perna nella “biografia non autorizzata” dal titolo: «Scalfari – Una vita per il potere» (Leonardo editore, 1990), accolta al suo apparire, come scrisse l’autore, da un “fragoroso silenzio stampa“.
Leggiamo da p. 13 e seguenti: “Come tutti, Eugenio ha aderito al GUF, la gioventù universitaria fascista. La sede è palazzo Braschi. Ecco perchè è lì, lontano dall’università, a due passi da piazza Navona, un giorno dell’inizio del ’42“.
“Scalfari ha un’ispirazione: collaborare a “Roma fascista”, il settimanale del movimento… In redazione c’è Ferruccio Troiani col quale Eugenio simpatizza. Negli anni Cinquanta, saranno insieme all'”Europeo”. C’è Enzo Forcella, oggi editorialista di “Repubblica” e consigliere comunale di Roma eletto nelle liste comuniste nell’autunno del 1989. C’è Paolo Sylos Labini, futuro grande economista e collaboratore di “Repubblica”. Ci sono Luciano Salce e Massino Franciosa, registi cinematografici di sinistra degli anni Sessanta”… “Su “Roma fascista” Eugenio si mette subito in luce. Per sei mesi la inonda di corsivi e articoli…Un paio di brani, tanto per capire. E’ il 16 Luglio del 1942. Gli piace Mussolini. Ma la guerra va male. Ci sono critiche. Il ragazzo insorge: “Noi siamo pronti a marciare, a costo di qualsiasi sacrificio, contro tutti coloro che tentano di fare mercimonio della nostra passione e della nostra fede. E ancora oggi è la stessa voce del Capo che ci guida e ci addita le mete da attingere“. Titolo: Aristocrazia”. “Passa l’estate e gli viene il pallino dell’impero e della razza italiana. Il 24 Settembre esce l’articolo: Volontà di potenza. “Gli imperi quali noi li concepiamo” scrive Scalfari con un sussiego che sopravviverà al crollo del regime “sono basati sul cardine di razza escludendo perciò l’estensione della cittadinanza da parte dello Stato Nucleo alle altre genti“. “In redazione si va due volte alla settimana. Una per concordare i contenuti dell’articolo. L’altra per consegnarlo. Ma per festeggiare il ventennale della marcia su Roma col numero del 28 Ottobre 1942, Pintus [il direttore] convoca una megariunione dei redattori. I giovani decidono di fare un giornale di fuoco. Si sentono tutti moschettieri del Duce attorniato, secondo loro, da imbelli, pancepiene e traditori”.
“Ne viene fuori un numero che è un inno al fascismo rivoluzionario delle origini, allo stato etico, allo stato sociale sul tipo della futura repubblica di Salò, e compagnia cantante. Titolo di copertina: Primo ventennio: avanti verso la rivoluzione sociale. Mussolini, che aveva altre gatte da pelare, prende i redattori per dei pericolosi imbecilli. Chiude il settimanale colpevole di eccesso di zelo e manda tutti a spasso”. “Fascismo e GUF”, continua Perna, “erano comunque agli sgoccioli. Comincia a tirare un’altra aria. Quattro mesi dopo le riflessioni sull’imperialrazza, Scalfari ha già infilato un piede e mezzo nell’antifascismo”.
Nel libro di Giancarlo Perna, Scalfari, una vita per il potere, leggiamo anche: «Scalfari-padre era massone. Una tradizione di famiglia. Il capostipite fu don Antonio, che, a cavallo tra il sette e l’ottocento, fondò la Loggia della Calabria uniforme (…). Eugenio ha i ritratti degli avi che indossarono il grembiulino appesi nella sua villa di campagna, a Velletri. Su ognuno c’è l’emblema massonico scalfariano: uno scudetto a due campi: uno con la scure e l’altro con il ponte (…). Con la caduta del fascismo (…) Pietro (padre di Eugenio) fu tra i fondatori della loggia locale».
L’onda lunga del 1992, l’onda lunga della morsa che stringe l’Italia, l’onda lunga della destabilizzazione e della penetrazione dei poteri che stanno sfibrando il tessuto politico, economico e sociale del Paese, mostra la sua forza d’urto riversandosi in ogni campo. Naturalmente, infiltrandosi nei meccanismi dell’informazione e della propaganda, anzi dominandoli.
L’establishment della stampa e dell’editoria ricalca l’impronta di azione e controllo dei soggetti strategici che da decenni reggono le fila di un continuum oramai chiaramente ideologico e caricaturale. Ne costituiscono una formidabile incarnazione Eugenio Scalfari e la sua emanazione Repubblica, espressioni di quel coacervo laico-azionista-massonico che ha caratterizzato fortemente i passaggi storici di questo Paese e a cui si ricollegano personaggi e vicende di primo piano, negli avamposti della politica, della finanza, della cultura così come dietro le quinte dei circoli e degli ambienti di comando e pressione.
I custodi delle verità precostituite e delle letture storiche preconfezionate amano spesso e volentieri menar vanto di lungimiranti intuizioni e di eccelse frequentazioni ideali o effettive. Costruiscono e aderiscono ad un immaginario di personaggi e ad uno scenario di eventi che poi calano sulla cosiddetta opinione pubblica, appositamente indotta o educata a credervi.
Scalfari, noto trombone di siffatto modus agendi, si è così prodigato per sé e per la Nazione nell’encomio di un uomo-simbolo che in tutti questi anni si è voluto piazzare sul piedistallo di moderno Padre della Patria, con tanto di “medaglia” al valore e al merito. Scalfari loda Ciampi, dunque. L’occasione, l’ennesima, è l’uscita del libro-conversazione dell’ex presidente con Arrigo Levi. Dagli spunti che fornisce il fondatore de la Repubblica pare trattarsi di qualcosa decisamente differente dal pregnante “Fotti il potere” di un altro ex presidente quale Cossiga.
In questo suo “Ciampi, le tre vite del presidente. Autoritratto di un servitore dello Stato” [in data 17 giugno], Scalfari va in digressione sulla vita di quello che definisce “un personaggio unico nella storia dell’Italia repubblicana”. Ecco, distanti dalla ferma tenuta liberal-democratica dell’egregio Direttore, molto più volgarmente il Gran Maestro livornese nei nostri ricordi è un dissolutore dello Stato. La sua ascesa alle postazioni di comando è stata figlia dei tempi.
Ciampi rappresenta quella fase di passaggio dalla primazia della politica alla prassi tecnocratica ed economicistica. Costituisce, di fatto, uno di quei personaggi dotati di un apparentemente neutrale sapere tecnico che si è voluto presentare come imprescindibile per muoversi all’interno delle nuove dinamiche globali. Così è accaduto che un Governatore della Banca d’Italia e punto di riferimento di una certa corrente finanziaria con determinati assetti e mire strategiche, sia stato indicato tra i prescelti a condurre il Paese in una fase di instabilità politico-economica.
Tuttavia, se è pur vero che egli viene fuori da e in una situazione d’urgenza, resta il fatto che questa è stata determinata da un insieme di cause scatenati che non piovono dal cielo, ma sono la risultante di quello che può essere definito – a maggior ragione oggi a distanza di anni- un processo di ridisegnamento geopolitico e geoeconomico, all’interno del quale si inserisce a pieno titolo quell’”oscuro” fenomeno null’affatto solo giudiziario che fu Mani Pulite.
Di Ciampi, a differenza delle complici reticenze di Eugenio Scalfari, preferiamo ricordare le sue per nulla sagge iniziative in particolare da Governatore nel ’92 e poi da Presidente del Consiglio nel ’93, a parte quelle da Ministro indiscusso del Tesoro dal ’96 al ’99. La sua esaltazione storiografico-giornalistica è speculare alla mitizzazione fatta di Maastricht, dei suoi parametri eretti a dogmi di fede inattaccabile, e della moneta unica europea.
Negli anni Novanta l’europeismo è tutta un’alchimia tecno-finanziaria. Ciampi è come un profeta. Alla guida di Bankitalia, in combutta con il fanta-socialista Amato e con le centrali della finanza e dei predoni nazionali ed internazionali, operò la scelta della svalutazione della lira. Nei primi mesi del 1992, le parità di cambio all’interno dello SME erano pressoché consolidate, senza che ci fossero particolari oscillazioni oltre i limiti prefissati. Da parte sua, l’Italia presentava una bilancia commerciale nella sostanza equilibrata e un monte di riserve valutarie intorno ai 34 miliardi di ECU, più o meno 52mila miliardi di lire. Nello scombussolamento generale in atto e nel convergere di diversi fattori endogeni ed esogeni, calò una significativa manovra finanziaria a far scricchiolare gli assestamenti degli anni precedenti. Nel mirino c’era, tra le altre monete, la lira. In cabina di regia operavano Soros&soci. I loro bracci armati come l’agenzia di rating Moody’s lanciavano campagne a discredito del Paese.
Al trio Ciampi-Amato-Barucci non poteva sfuggire che un attacco di quel tipo non poteva essere contrastato operando sul mercato dei cambi con una solitaria iniziativa nazionale, anche in virtù delle condizioni di libera convertibilità. Sarebbe stato necessario almeno un sostegno tedesco, il che era evidente non fosse possibile. La Bundesbank non aveva intenzione di tener fede ormai agli accordi SME, la stessa Germania avrebbe tratto vantaggio dalla svalutazione della lira. Così, con larvato autolesionismo o meglio con subdola complicità, si provvedeva ad attuarla con un iniziale 7% poi in crescendo. La lira scivolava via dallo SME. A fronte di un’estemporanea boccata d’ossigeno sarebbero emersi almeno tre fattori, tutti indicativi di una manovra di destabilizzazione: i profitti dell’orda di speculatori, il dissanguamento delle riserve finanziarie e il deprezzamento della vasta gamma di aziende pubbliche per le quali si preparava il de profundis. La consolidata struttura di economia mista italiana entrava praticamente nel ciclone liberista.
Il 2 giugno, sul Britannia, si raggiungeva un’altra tappa del regime change all’italiana. E non casualmente, ma in perfetta sinergia, all’attacco economico-finanziario si affiancava in quel periodo quello politico, all’uopo per via giudiziaria, con l’operazione Mani Pulite (nome in codice cleanhands). Sorvoliamo sulle altrettanto non casuali sanguinarie sortite della Mafia, a proposito delle quali lo stesso tecno-Carlo Azeglio di recente ed il clan di Repubblica da sempre, continuano a fare opera di depistaggio. Evidentemente il nostro Ciampi, in scioltezza spalleggiato da Washington, Londra e Bruxelles, assurgeva a fidato alfiere del processo di sgretolamento predisposto per l’Italia.
In uno scenario politico sempre più cumulo di macerie, nasceva il primo governo tecnico della storia della Repubblica, con a capo il Gran Maestro (aprile ’93- maggio ’94). Sintomo palese di una frattura storica. Prima di lui, fu Badoglio. In seguito ad un colpo di Stato. Allora il ’43, ieri il ’92. E ho detto tutto. Il governo Ciampi non badò, come naturale che fosse, alla tenuta del sistema. Nacque per gestire un itinerario all’interno di una transizione eterodiretta. In quei giorni si consumò la liquidazione dei vecchi partiti baluardo di un dato assetto, di una data politica; si redisse una riforma elettorale di tipo maggioritario e si avviò tutto quell’infausto processo di dismissioni-privatizzazioni che segnerà il ciclo degli anni Novanta, di chiara matrice centro-sinistra. Ci preparavamo a “fare all’americana”
Le sue parole al convegno I Nobel a Milano, riecheggiano la solita solfa del linguaggio moderno-liberista: “… i mali d’Italia si identificano in tre rigidità: quella del sistema economico finanziario, basato su grandi imprese in gran parte di proprietà pubblica incapaci di sviluppare un vero mercato del capitale di rischio; la rigidità del mercato del lavoro e del sistema fiscale; la rigidità della pubblica amministrazione. Assieme, queste tre rigidità – afferma Ciampi – hanno disegnato un volto del sistema economico italiano in cui la propensione naturale per il mercato è stata svilita, in cui lo stato è stato troppo presente dove non avrebbe dovuto essere – favorendo in tal modo l’inquinamento da corruzione – e non abbastanza presente dove avrebbe dovuto: nell’azione in difesa della concorrenza, nello sradicamento dell’economia criminale, nella promozione dei mercati finanziari al servizio di tutti“. [da “I giorni dell’IRI” di M. Pini]
E venne l’ora delle intuizioni. Come “la politica di concertazione delle parti sociali” – per sua stessa definizione – che volevasi rivelare il mezzo per far fronte alle nuove dinamiche del mercato del lavoro. I sindacati, già sclerotizzati, stavano al gioco. Come l’abolizione dei limiti vigenti dalla legge bancaria del 1936 in merito alla separatezza tra banche e industria. Come la nomina di un comitato di consulenza per le privatizzazioni con a capo Mr Mario Goldman Sachs Draghi, di pari passo col ritorno all’IRI di quell’altro fuoriclasse della distruzione ovvero Romano Prodi.
Del duo sfasciacarrozze Carlo Azeglio – Romano ricordiamo la privatizzazione della Banca Commerciale Italiana, del Credito Italiano, di buona parte del settore agro-alimentare dell’IRI, della Nuova Pignone ENI. Con la logica della “ristrutturazione”, nel ’93 fu messa mano all’ILVA. Praticamente l’inizio della fine della grande siderurgia italiana. Praticamente con Ciampi si avvia – per continuare poi con lui stesso al Tesoro- in maniera operativa la disintegrazione del controllo pubblico di banche ed industrie, l’annullamento di una visione strategica nazionale attraverso l’abbattimento dei settori chiave, l’appiattimento alle logiche eurocratiche con le relative disfunzioni nel mondo del lavoro ed in quello produttivo. Un’azione scientemente condotta. Persino eversiva.
Scalfari, nella sua stucchevole sottolineatura dell’alto profilo istituzionale, non manca di far notare l’altro lato dell’atlantismo dell’ex presidente, accennando alla “riunione del Consiglio supremo di Difesa da lui convocato all’inizio della guerra americana in Iraq, che impose al governo la formula della “partecipazione pacifica” del contingente italiano all’iniziativa di Bush, visto che la nostra Costituzione impedisce guerre offensive”. Chiaro, no?
Ci vuole la tenacia, la complicità e la visione azionista di Scalfari per definire Carlo Azeglio Ciampi “un servitore dello Stato”. All’uno e all’altro, del resto, non manca una pedante retorica intrisa di formalismo liberal-democratico, la stessa in uso per giustificare e incensare le manovre di potere e gli sconquassi che segnano Italia dal ’92 ad oggi. La stessa, del resto, in uso quando si ergono a legittimi paladini del bon ton costituzionale e della retta via da perseguire in ossequio ai dettami tecnocratici che provengono dalle “alte cariche” nazionali o estere. L’accolita di giornalisti e intellettuali alla Scalfari dipinge sempre gli interventi e le mosse di grigi funzionari e integerrimi liberal-democratici come fossero le sublimi e necessarie posizioni che ad un Paese moderno e riformista spetterebbe assumere.
La solita solfa.