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DE BENEDETTI, EUGENIO SCALFARI E LA MASSONERIA. UNA VITA PER IL POTERE

De Benedetti, Eugenio Scalfari e la massoneria. Una vita per il potere. 
L’appartenenza di Berlusconi alla loggia p2 in Italia la conoscono tutti… Molto più reticenza, invece, c’è sul suo grande avversario politico e mediatico De Benedetti, ex patron dell’Olivetti, che possiede la Repubblica, l’Espresso, e decine di altri giornali locali, e che ha permesso in buona parte l’ascesa prima di Rutelli e poi di Veltroni…
Analoga reticenza incombe su Eugenio Scalfari, dal cui pulpito del quotidiano la Repubblica negli anni precedenti l’accesa diaspora con Berlusconi mai si è sentito affrontare con onestà intellettuale e trasparenza lo scottante tema delle «massomafie» e della capacità di condizionamento della magistratura e delle istituzioni democratiche. 
Sentiamo cosa scrivono su di loro, partendo da De Benedetti: 
Ferruccio Pinotti in “Fratelli d’Italia” (Edizioni Bur):
“De Benedetti risulta essere entrato nella massoneria a Torino, nella loggia Cavour del Grande Oriente d’Italia (GOI), ‘regolarizzato col grado di Maestro il 18 marzo 1975 con brevetto n.21272’ (Ansa, 5 novembre 1993).
L’informazione è accertata in quanto proviene direttamente dal Gran Maestro del Goi Gustavo Raffi, che lo ha dichiarato pubblicamente nel 1993…. Il Gran Maestro Raffi ha affermato che De Benedetti era ‘proveniente dalla massoneria di piazza del Gesù’. Quindi la sua affiliazione dovrebbe essere anteriore: a quando risale? Ancora più interessante sarebbe capire a quale loggia di piazza del Gesù appartenesse l’imprenditore. E’ noto infatti che la massoneria di piazza del Gesù, molto forte in Piemonte, aveva al pari del GOI delle logge coperte, la più celebre delle quali è stata Giustizia e Libertà, cui sarebbero appartenuti Cuccia, Merzagora, Carli e altre figure della finanza laica. Sembra inoltre che la Giustizia e Libertà sia confluita nel Grande Oriente nel 1973. Ma De Benedetti non è entrato nel Goi col grado di Apprendista: era già Maestro in una non meglio identificata loggia di piazza del Gesù. Quale? Impossibile stabilirlo, certo è curioso che molti anni dopo De Benedetti lanci un’iniziativa politica chiamata «Libertà e Giustizia», con Enzo Biagi, Umberto Veronesi, Giovanni Sartori, Umberto Eco, Claudio Magris….
“Sta di fatto che, secondo Raffi, De Benedetti resta nel Grande Oriente, come Maestro, dal marzo 1975 al dicembre 1982. Un periodo estremamante significativo, in cui accadono molti eventi forti legati alla massoneria. Un anno dopo l’ammissione al Grande Oriente, nel 1976, a De Benedetti viene affidata la carica di amministratore delegato della Fiat…”.
De Bendedetti entra ed esce dalla massoneria come da un taxi ” (Stefano Cigolani) 

————————————————————————————————————————————————————–Eugenio Scalfari e la massoneria. Una vita per il potere.

Ecco cosa scrive su di lui Giancarlo Perna nella “biografia non autorizzata” dal titolo: «Scalfari – Una vita per il potere»  (Leonardo editore, 1990), accolta al suo apparire, come scrisse l’autore, da un “fragoroso silenzio stampa“.

Leggiamo da p. 13 e seguenti: “Come tutti, Eugenio ha aderito al GUF, la gioventù universitaria fascista. La sede è palazzo Braschi. Ecco perchè è lì, lontano dall’università, a due passi da piazza Navona, un giorno dell’inizio del ’42“. 

Scalfari ha un’ispirazione: collaborare a “Roma fascista”, il settimanale del movimento… In redazione c’è Ferruccio Troiani col quale Eugenio simpatizza. Negli anni Cinquanta, saranno insieme all'”Europeo”. C’è Enzo Forcella, oggi editorialista di “Repubblica” e consigliere comunale di Roma eletto nelle liste comuniste nell’autunno del 1989. C’è Paolo Sylos Labini, futuro grande economista e collaboratore di “Repubblica”. Ci sono Luciano Salce e Massino Franciosa, registi cinematografici di sinistra degli anni Sessanta”… “Su “Roma fascista” Eugenio si mette subito in luce. Per sei mesi la inonda di corsivi e articoli…Un paio di brani, tanto per capire. E’ il 16 Luglio del 1942. Gli piace Mussolini. Ma la guerra va male. Ci sono critiche. Il ragazzo insorge: “Noi siamo pronti a marciare, a costo di qualsiasi sacrificio, contro tutti coloro che tentano di fare mercimonio della nostra passione e della nostra fede. E ancora oggi è la stessa voce del Capo che ci guida e ci addita le mete da attingere“. Titolo: Aristocrazia”. “Passa l’estate e gli viene il pallino dell’impero e della razza italiana. Il 24 Settembre esce l’articolo: Volontà di potenza. “Gli imperi quali noi li concepiamo” scrive Scalfari con un sussiego che sopravviverà al crollo del regime “sono basati sul cardine di razza escludendo perciò l’estensione della cittadinanza da parte dello Stato Nucleo alle altre genti“. “In redazione si va due volte alla settimana. Una per concordare i contenuti dell’articolo. L’altra per consegnarlo. Ma per festeggiare il ventennale della marcia su Roma col numero del 28 Ottobre 1942, Pintus [il direttore] convoca una megariunione dei redattori. I giovani decidono di fare un giornale di fuoco. Si sentono tutti moschettieri del Duce attorniato, secondo loro, da imbelli, pancepiene e traditori”.

“Ne viene fuori un numero che è un inno al fascismo rivoluzionario delle origini, allo stato etico, allo stato sociale sul tipo della futura repubblica di Salò, e compagnia cantante. Titolo di copertina: Primo ventennio: avanti verso la rivoluzione sociale. Mussolini, che aveva altre gatte da pelare, prende i redattori per dei pericolosi imbecilli. Chiude il settimanale colpevole di eccesso di zelo e manda tutti a spasso”. “Fascismo e GUF”, continua Perna, “erano comunque agli sgoccioli. Comincia a tirare un’altra aria. Quattro mesi dopo le riflessioni sull’imperialrazza, Scalfari ha già infilato un piede e mezzo nell’antifascismo”.

Nel libro di Giancarlo Perna, Scalfari, una vita per il potere, leggiamo anche: «Scalfari-padre era massone. Una tradizione di famiglia. Il capostipite fu don Antonio, che, a cavallo tra il sette e l’ottocento, fondò la Loggia della Calabria uniforme (…). Eugenio ha i ritratti degli avi che indossarono il grembiulino appesi nella sua villa di campagna, a Velletri. Su ognuno c’è l’emblema massonico scalfariano: uno scudetto a due campi: uno con la scure e l’altro con il ponte (…). Con la caduta del fascismo (…) Pietro (padre di Eugenio) fu tra i fondatori della loggia locale».

13 luglio 2010 di  Lino Bottaro  e Alfredo Musto Conflitti e Strategie 20 giugno 2010

L’onda lunga del 1992, l’onda lunga della morsa che stringe l’Italia, l’onda lunga della destabilizzazione e della penetrazione dei poteri che stanno sfibrando il tessuto politico, economico e sociale del Paese, mostra la sua forza d’urto riversandosi in ogni campo. Naturalmente, infiltrandosi nei meccanismi dell’informazione e della propaganda, anzi dominandoli.
L’establishment della stampa e dell’editoria ricalca l’impronta di azione e controllo dei soggetti strategici che da decenni reggono le fila di un continuum oramai chiaramente ideologico e caricaturale. Ne costituiscono una formidabile incarnazione Eugenio Scalfari e la sua emanazione Repubblica, espressioni di quel coacervo laico-azionista-massonico che ha caratterizzato fortemente i passaggi storici di questo Paese e a cui si ricollegano personaggi e vicende di primo piano, negli avamposti della politica, della finanza, della cultura così come dietro le quinte dei circoli e degli ambienti di comando e pressione.
I custodi delle verità precostituite e delle letture storiche preconfezionate amano spesso e volentieri menar vanto di lungimiranti intuizioni e di eccelse frequentazioni ideali o effettive. Costruiscono e aderiscono ad un immaginario di personaggi e ad uno scenario di eventi che poi calano sulla cosiddetta opinione pubblica, appositamente indotta o educata a credervi.
Scalfari, noto trombone di siffatto modus agendi, si è così prodigato per sé e per la Nazione nell’encomio di un uomo-simbolo che in tutti questi anni si è voluto piazzare sul piedistallo di moderno Padre della Patria, con tanto di “medaglia” al valore e al merito. Scalfari loda Ciampi, dunque. L’occasione, l’ennesima, è l’uscita del libro-conversazione dell’ex presidente con Arrigo Levi. Dagli spunti che fornisce il fondatore de la Repubblica pare trattarsi di qualcosa decisamente differente dal pregnante “Fotti il potere” di un altro ex presidente quale Cossiga.
In questo suo “Ciampi, le tre vite del presidente. Autoritratto di un servitore dello Stato” [in data 17 giugno], Scalfari va in digressione sulla vita di quello che definisce “un personaggio unico nella storia dell’Italia repubblicana”. Ecco, distanti dalla ferma tenuta liberal-democratica dell’egregio Direttore, molto più volgarmente il Gran Maestro livornese nei nostri ricordi è un dissolutore dello Stato. La sua ascesa alle postazioni di comando è stata figlia dei tempi.
Ciampi rappresenta quella fase di passaggio dalla primazia della politica alla prassi tecnocratica ed economicistica. Costituisce, di fatto, uno di quei personaggi dotati di un apparentemente neutrale sapere tecnico che si è voluto presentare come imprescindibile per muoversi all’interno delle nuove dinamiche globali. Così è accaduto che un Governatore della Banca d’Italia e punto di riferimento di una certa corrente finanziaria con determinati assetti e mire strategiche, sia stato indicato tra i prescelti a condurre il Paese in una fase di instabilità politico-economica.
Tuttavia, se è pur vero che egli viene fuori da e in una situazione d’urgenza, resta il fatto che questa è stata determinata da un insieme di cause scatenati che non piovono dal cielo, ma sono la risultante di quello che può essere definito – a maggior ragione oggi a distanza di anni- un processo di ridisegnamento geopolitico e geoeconomico, all’interno del quale si inserisce a pieno titolo quell’”oscuro” fenomeno null’affatto solo giudiziario che fu Mani Pulite.
Di Ciampi, a differenza delle complici reticenze di Eugenio Scalfari, preferiamo ricordare le sue per nulla sagge iniziative in particolare da Governatore nel ’92 e poi da Presidente del Consiglio nel ’93, a parte quelle da Ministro indiscusso del Tesoro dal ’96 al ’99. La sua esaltazione storiografico-giornalistica è speculare alla mitizzazione fatta di Maastricht, dei suoi parametri eretti a dogmi di fede inattaccabile, e della moneta unica europea.
Negli anni Novanta l’europeismo è tutta un’alchimia tecno-finanziaria. Ciampi è come un profeta. Alla guida di Bankitalia, in combutta con il fanta-socialista Amato e con le centrali della finanza e dei predoni nazionali ed internazionali, operò la scelta della svalutazione della lira. Nei primi mesi del 1992, le parità di cambio all’interno dello SME erano pressoché consolidate, senza che ci fossero particolari oscillazioni oltre i limiti prefissati. Da parte sua, l’Italia presentava una bilancia commerciale nella sostanza equilibrata e un monte di riserve valutarie intorno ai 34 miliardi di ECU, più o meno 52mila miliardi di lire. Nello scombussolamento generale in atto e nel convergere di diversi fattori endogeni ed esogeni, calò una significativa manovra finanziaria a far scricchiolare gli assestamenti degli anni precedenti. Nel mirino c’era, tra le altre monete, la lira. In cabina di regia operavano Soros&soci. I loro bracci armati come l’agenzia di rating Moody’s lanciavano campagne a discredito del Paese.
Al trio Ciampi-Amato-Barucci non poteva sfuggire che un attacco di quel tipo non poteva essere contrastato operando sul mercato dei cambi con una solitaria iniziativa nazionale, anche in virtù delle condizioni di libera convertibilità. Sarebbe stato necessario almeno un sostegno tedesco, il che era evidente non fosse possibile. La Bundesbank non aveva intenzione di tener fede ormai agli accordi SME, la stessa Germania avrebbe tratto vantaggio dalla svalutazione della lira. Così, con larvato autolesionismo o meglio con subdola complicità, si provvedeva ad attuarla con un iniziale 7% poi in crescendo. La lira scivolava via dallo SME. A fronte di un’estemporanea boccata d’ossigeno sarebbero emersi almeno tre fattori, tutti indicativi di una manovra di destabilizzazione: i profitti dell’orda di speculatori, il dissanguamento delle riserve finanziarie e il deprezzamento della vasta gamma di aziende pubbliche per le quali si preparava il de profundis. La consolidata struttura di economia mista italiana entrava praticamente nel ciclone liberista.
Il 2 giugno, sul Britannia, si raggiungeva un’altra tappa del regime change all’italiana. E non casualmente, ma in perfetta sinergia, all’attacco economico-finanziario si affiancava in quel periodo quello politico, all’uopo per via giudiziaria, con l’operazione Mani Pulite (nome in codice cleanhands). Sorvoliamo sulle altrettanto non casuali sanguinarie sortite della Mafia, a proposito delle quali lo stesso tecno-Carlo Azeglio di recente ed il clan di Repubblica da sempre, continuano a fare opera di depistaggio. Evidentemente il nostro Ciampi, in scioltezza spalleggiato da Washington, Londra e Bruxelles, assurgeva a fidato alfiere del processo di sgretolamento predisposto per l’Italia.
In uno scenario politico sempre più cumulo di macerie, nasceva il primo governo tecnico della storia della Repubblica, con a capo il Gran Maestro (aprile ’93- maggio ’94). Sintomo palese di una frattura storica. Prima di lui, fu Badoglio. In seguito ad un colpo di Stato. Allora il ’43, ieri il ’92. E ho detto tutto. Il governo Ciampi non badò, come naturale che fosse, alla tenuta del sistema. Nacque per gestire un itinerario all’interno di una transizione eterodiretta. In quei giorni si consumò la liquidazione dei vecchi partiti baluardo di un dato assetto, di una data politica; si redisse una riforma elettorale di tipo maggioritario e si avviò tutto quell’infausto processo di dismissioni-privatizzazioni che segnerà il ciclo degli anni Novanta, di chiara matrice centro-sinistra. Ci preparavamo a “fare all’americana
Le sue parole al convegno I Nobel a Milano, riecheggiano la solita solfa del linguaggio moderno-liberista: “… i mali d’Italia si identificano in tre rigidità: quella del sistema economico finanziario, basato su grandi imprese in gran parte di proprietà pubblica incapaci di sviluppare un vero mercato del capitale di rischio; la rigidità del mercato del lavoro e del sistema fiscale; la rigidità della pubblica amministrazione. Assieme, queste tre rigidità – afferma Ciampi – hanno disegnato un volto del sistema economico italiano in cui la propensione naturale per il mercato è stata svilita, in cui lo stato è stato troppo presente dove non avrebbe dovuto essere – favorendo in tal modo l’inquinamento da corruzione – e non abbastanza presente dove avrebbe dovuto: nell’azione in difesa della concorrenza, nello sradicamento dell’economia criminale, nella promozione dei mercati finanziari al servizio di tutti“. [da “I giorni dell’IRI” di M. Pini]
E venne l’ora delle intuizioni. Come “la politica di concertazione delle parti sociali” – per sua stessa definizione – che volevasi rivelare il mezzo per far fronte alle nuove dinamiche del mercato del lavoro. I sindacati, già sclerotizzati, stavano al gioco. Come l’abolizione dei limiti vigenti dalla legge bancaria del 1936 in merito alla separatezza tra banche e industria. Come la nomina di un comitato di consulenza per le privatizzazioni con a capo Mr Mario Goldman Sachs Draghi, di pari passo col ritorno all’IRI di quell’altro fuoriclasse della distruzione ovvero Romano Prodi.
Del duo sfasciacarrozze Carlo Azeglio – Romano ricordiamo la privatizzazione della Banca Commerciale Italiana, del Credito Italiano, di buona parte del settore agro-alimentare dell’IRI, della Nuova Pignone ENI. Con la logica della “ristrutturazione”, nel ’93 fu messa mano all’ILVA. Praticamente l’inizio della fine della grande siderurgia italiana. Praticamente con Ciampi si avvia – per continuare poi con lui stesso al Tesoro- in maniera operativa la disintegrazione del controllo pubblico di banche ed industrie, l’annullamento di una visione strategica nazionale attraverso l’abbattimento dei settori chiave, l’appiattimento alle logiche eurocratiche con le relative disfunzioni nel mondo del lavoro ed in quello produttivo. Un’azione scientemente condotta. Persino eversiva.
Scalfari, nella sua stucchevole sottolineatura dell’alto profilo istituzionale, non manca di far notare l’altro lato dell’atlantismo dell’ex presidente, accennando alla “riunione del Consiglio supremo di Difesa da lui convocato all’inizio della guerra americana in Iraq, che impose al governo la formula della “partecipazione pacifica” del contingente italiano all’iniziativa di Bush, visto che la nostra Costituzione impedisce guerre offensive”. Chiaro, no?
Ci vuole la tenacia, la complicità e la visione azionista di Scalfari per definire Carlo Azeglio Ciampi “un servitore dello Stato”. All’uno e all’altro, del resto, non manca una pedante retorica intrisa di formalismo liberal-democratico, la stessa in uso per giustificare e incensare le manovre di potere e gli sconquassi che segnano Italia dal ’92 ad oggi. La stessa, del resto, in uso quando si ergono a legittimi paladini del bon ton costituzionale e della retta via da perseguire in ossequio ai dettami tecnocratici che provengono dalle “alte cariche” nazionali o estere. L’accolita di giornalisti e intellettuali alla Scalfari dipinge sempre gli interventi e le mosse di grigi funzionari e integerrimi liberal-democratici come fossero le sublimi e necessarie posizioni che ad un Paese moderno e riformista spetterebbe assumere.

La solita solfa.

da www.stampalibera.com

RAOUL GARDINI E GABRIELE CAGLIARI DUE FALSI SUICIDI MASSOMAFIOSI RIMASTI IMPUNITI

Il 20 luglio 1993, il presidente dell’ENI Gabriele Cagliari, primo gruppo siderurgico italiano, viene trovato morto per soffocamento, in circostanze misteriose e mai chiarite dalla Procura di Milano, con un sacchetto di plastica infilato in testa e legato al collo con una stringa da scarpe, nei bagni di San Vittore, dov’era andato per farsi la doccia.

Il 23 luglio 1993, tre giorni dopo la morte di Cagliari, alle sette del mattino, il maggiordomo di Palazzo Belgioioso trova riverso sul letto, Raoul Gardini, ras della chimica italianapatron del gruppo Ferruzzi-Montedison, il quale si sarebbe anche lui suicidato in circostanze misteriose, e mai chiarite dalla Procura di Milano, sparandosi un colpo di pistola con una Walter Pkk, stranamente trovata sulla sponda opposta di dove si trovava il corpo inamimato dell’impreditore ravennate fulminato da un unico proiettile alla tempia.

Due misteriosi falsi suicidi da collegarsi alle attività criminali delle massomafie che controllano l’economia e l’alta finanza, riclicando i capitali della mafia, derivanti dal narcotraffico, come avevano intuito Falcone e Borsellino, prima di venire trucidati su ordine di quei “poteri esterni” che governano nell’ombra il Paese da oltre 150 anni, mettendo a tacere chiunque interferisce o si oppone ai loro progetti.Il (finto) suicidio di Cagliari si è cercato farci credere sino ad oggi sia da imputare allo scandalo che aveva travolto i vertici dell’ENI, per una maxi tangente di 17 miliardi, in buona parte versati a quasi tutti i partiti politici a conclusione di un accordo esclusivo tra l’ENI e la società assicuratrice SAI di Salvatore Ligresti (grazie alla cui megatangente si era riusciti a far fuori l’INA).

Ma nella versione ufficiale secondo cui Cagliari non avrebbe retto allo scandalo che lo aveva coinvolto e al prolungarsi della carcerazione sono rimasti in pochi a crederci, forse neanche gli stessi magistrati di Milano.

Se è pur vero che Cagliari sperava di essere a breve scarcerato, come aveva lasciato trapelare il P.M. Fabio De Pasquale, è anche vero che, proprio in quei giorni, il 19 luglio, era stato arrestato Salvatore Ligresti, che aveva reso una versione dei fatti contrastante rispetto a quella forse più credibile fornita dal presidente dell’Eni, che avrebbe potuto inziare a vuotare il sacco (anzichè infilarselo in testa…) e risultare assai scomodo a quei poteri occulti che hanno ordinato di trucidare anche gli stessi giudici Falcone e Borsellino che stavano indagando proprio sui rapporti tra mafia, economia legale, istituzioni e massoneria.
In quest’ottica appare inverosimile che Cagliari abbia deciso repentinamente di togliersi la vita, quando ormai sapeva di potere uscire dal carcere, per di più con modalità talmente atroci e da manuale di criminologia.

E’ più probabile invece che sia stato indotto da menti subdole e raffinate ad inscenare l’intenzione di suicidarsi per anticipare l’ordine di scarcerazione, inviando lettere disperate alla moglie, come fanno spesso taluni detenuti per fare più o meno consapevolmente pressione sui giudici. Certamente la delusione per il ritardo nella scarcerazione, dovuto all’arresto di Ligresti e al rischio di inquinamento delle prove, può avere provocato nel presidente dell’ENI una profonda prostrazione, ma non tale da indurlo ad uscire così repentinamente dalla scena, cosa che giovava sicuramente a vantaggio solo di chi poteva temere sue nuove rivelazioni.

Ed, infatti, appena settantadue ore dopo, ecco il secondo (finto) suicidio eccellente, anzi eccellentissimo del suo grande antagonista nella vicenda Enimont. Quello del patron della chimica italiana Raoul Gardini, con cui veniva tappata per sempre la bocca a un altro scomodo protagonista di quel perverso connubio tra mafia, alta finanza, politica e massoneria, che aveva deciso di collaborare, raccontando tutto ai magistarti di “mani pulite”.

La discesa di Raoul Gardini era cominciata l’anno prima, nel 1991 quando estromesso dalla gestione della Ferruzzi gli erano subentrati il cognato Carlo Sama e l’amministratore Giuseppe Garofano.

La mattina del finto suicidio avrebbe dovuto incontrare i magistrati di “mani pulite” per definire la sua situazione: c’era nell’aria un ordine di cattura, ma lui sperava di evitarlo mostrandosi disposto a una piena collaborazione. A preoccuparlo c’era stato l’arresto di Giuseppe Garofano, avvenuto due giorni prima, il 24. Al centro delle accuse nei confronti suoi e e della Ferruzzi la “enorme” tangente Enimont, di circa tre miliardi versati alla DC di Forlani. Una storia che Garofano conosceva benissimo.

Secondo la versione ufficiale, alle sette di mattina, Gardini ha già fatto la doccia, è ancora in accappatoio quando gli portano i giornali, il cappuccino e un croissant: ed è proprio mentre si accinge a fare colazione che l’occhio gli cade su un titolo di prima pagina di “Repubblica”: “Tangenti Garofano accusa Gardini“. L’imprenditore ravvenate Ras della chimica italiana e coraggioso uomo di mare che aveva superato ben altre difficoltà e venti contrari a quel punto avrebbe capito che è finita e aprendo il cassetto del comodino vicino al letto si sarebbe sparato un colpo mortale alla testa.

Gardini magnate dell’industria e della finanza che aveva anche sponsorizzato il Moro di Venezia all’American Cup non lascia testamento o lettere, fatta eccezione di un biglietto lasciato lì in bella vista con scritto sopra un semplice “grazie“. Ma si scoprì poi che risaliva al Natale precedente ed era la risposta a un regalo che aveva ricevuto dalla moglie Irina…

Anche a questo secondo plateale “suicidio”, frettolosamente inscenato solo poche ore prima che Raoul Gardini potesse rendere le sue confessioni, sono rimasti a crederci i soli magistrati di Milano, che altrettanto frettolosamente hanno archivato uno dei più scottanti casi della storia dell’alta finanza italiana e del suo rapporto con la mafia. E, forse, anche sè stessi… 

In concomitanza muoiono infatti anche “mani pulite” e le speranze degli italiani di svoltare pagina.

L’ombra delle massomafie sulla morte di Raoul Gardini riapre l’inchiesta sul suicidio.
A distanza di oltre 13 anni dall’archiviazione dell’intera operazione denominata “mani pulite”
, voluta dai poteri forti e dalle massomafie, ecco il colpo di scena che sembra riaprire il caso dei falsi suicidi dei due tra i maggiori protagonisti della Tangentopoli finanziaria italiana e dei rapporti collusivi tra Stato e mafia.  

Nell’agosto 2006, dopo le indagini sui legami tra la Calcestruzzi S.p.A. e la mafia parlemitana, la Procura di Caltanissetta chiede alla Dia di riesaminare il caso, come già riferito anche dalla stampa: “I pubblici ministeri hanno ordinato agli investigatori di ripartire da zero, senza trascurare nulla”. Alla base delle nuove indagini, “la convinzione dei pm che sia stata Cosa Nostra a determinare la scomparsa del “Contadino” che aveva sfidato la finanza e la politica…”. (E, aggiungiamo noi: “la Massoneria“, N.d.r.).
Ci sarebbero stati almeno due elementi della scena del crimine che non convincevano appieno gli inquirenti dell’ipotesi suicidio, riferiscono le cronache dell’epoca. Così, fu chiesta una nuova perizia balistica perché, come rivelato da L’espresso, citando fonti giudiziarie, “la pistola esplose due colpi, una modalità insolita per un suicidio, tanto più che nessuno sentì le detonazioni e solo diversi minuti dopo il corpo venne trovato in un lago di sangue”. La Procura di Caltanissetta prese in considerazione anche il biglietto lasciato da Gardini ai familiari con la scritta “Grazie”: “Secondo un esperto – scrive il settimanale – poteva essere stato scritto anche mesi prima”.
L’inchiesta della Procura di Caltanissetta si ricollega alle ipotesi già vagliate da una vecchia indagine della Procura di Palermo, ribattezzata “Sistemi criminali“, secondo la quale “dietro le stragi del 1992-93 ci sarebbe stata la volontà di Cosa Nostra di impedire ogni inchiesta sul monopolio degli appalti“. Ora però, i magistrati nisseni avrebbero potuto disporre di fatti nuovi, a partire dagli sviluppi nella ricostruzione dei rapporti tra i Buscemi, padrini palermitani di Passo di Rigano, vicini a Totò Riina, e i Gardini, per cui il gip di Caltanissetta Giovanbattista Tona, su richiesta della Procura, fece scattare alcuni ordini di custodia nei confronti dei gestori di una cava nissena e di due dipendenti della società Calcestruzzi, poi assorbita nel gruppo Italcementi.

Più recentemente sono venute alla luce le clamorose deposizioni rilasciate da Luigi Ilardo, un pentito inflitrato che già nel gennaio 1994 aveva inascoltamente denunciato i legami del Gotha di Cosa nostra con Marcello Dell’Utri, Salvatore Ligresti, Raul Gardini e altri famosi imprenditori del suo entourage, dei quali taluni verranno poi condannati per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Ma Ilardo non si ferma qui, denuncia anche un patto politico-elettorale con il nascente partito di Forza Italia, facendo i nomi di influenti politici, tra cui, oltre a Dell’Utri, quello dell’attuale Ministro della Difesa, Iganzio  La Russa e di suo fratello Vincenzo, che secondo tali riivelazioni e fonti giudiziarie “legherebbero la famiglia La Russa e la famiglia Ligresti a Cosa nostra“.

Noi non sappiamo se tali accuse siano fondate, ma è cosa certa che dal 1994 ad oggi ogni verità falsa o vera che sia, ci è stata subdolamente celata e non è stata svolta alcuna indagine. Ciò mentre il povero Ilardo veniva tradito e ucciso dallo Stato che stava servendo, proprio poco dopo aver rivelato ai Ros dei Carabinieri, dove si trovava l’ “introvabile” covo del superlatitante Bernardo Provenzano, che oltre a non venire arrestato nè attenzionato, sarà lasciato indisturbatamente libero di frequentare e agire, mandando pizzini a destra e a manca, per ben sei anni successivi alle informative ai Ros e all’uccisione di Luigi Ilardo.

Il caso di Luigi Ilardo che in pochi mesi aveva fatto decapitare le famiglie mafiose di tutta la Sicilia orientale, legate alla fazione più cruenta di Totò Riina, è quindi emblematico del patto scellerato tra istituzioni e massomafie, ovvero del fatto che Stato e mafia siano ormai divenute da oltre 40 anni una “Cosa sola“.

Alla luce di tutto ciò chiediamo quindi al Procuratore Nazionale Antimafia Grasso come mai a distanza di 18 anni ancora oggi nessuno ha ancora scoperto la verità sul duplice “omicidio-suicidio” di Gabriele Caglairi e Raoul Gardini e sulla catena di morti sospette e stragi che hanno insaguinato l’Italia, riaprendo la pista della Duomo connection di Falcone e Borsellino?

GARDINI E I PADRINI

A riguardo, riprendendo alcuni stralci di un articolo de L’Espresso, ricordiamo che pochi giorni dopo le rivelazioni di Leonardo Messina, primo mafioso a pentirsi dopo la strage di Capaci, che accettò di collaborare con il pm Paolo Borsellino, collegando gli investimenti e le attività di Cosa nostra con quelli dell’alta finanza italiana e del sistema dei partiti, quest’ultimo venne frettolosamente trucidato.

Infatti, in quell’interrogatorio Messina, piccolo boss dalle rivelazioni sconvolgenti sulla rete planetaria di Cosa nostra, disse senza mezzi termini: “Totò Riina i suoi soldi li tiene nella calcestruzzi”. All’inizio venne verbalizzato con la ‘c’ minuscola, come se si trattasse di una qualunque fabbrica di cemento, ma l’uomo d’onore precisò subito: “Intendo dire la Calcestruzzi spa”. Ossia il colosso delle opere pubbliche, leader italiano del settore posseduto dall’ancora più potente famiglia Ferruzzi ma, secondo quel mafioso della provincia nissena, controllato in realtà dal padrino più feroce.

Borsellino rimase colpito da quelle parole: all’indomani dell’uccisione di Giovanni Falcone aveva riaperto il dossier del Ros sul monopolio degli appalti. Una radiografia dell’intreccio tra cave e cantieri che costituisce il polmone di Cosa nostra: permette di costruire relazioni con i politici e con la borghesia dei professionisti, di creare posti di lavoro e marcare il dominio del territorio. E guadagnare somme sempre più grandi. “Ma se ci sono tante persone che possono riciciclare qualche miliardo di lire”, dichiarò Borsellino all’indomani dell’interrogatorio di Messina, “quando bisogna investire centinaia di miliardi ci sono pochi disposti a farlo. Imprenditori importanti, di cui i mafiosi non si fidano ma non possono nemmeno fare a meno. È uno dei fronti su cui stiamo lavorando”.

Il magistrato siciliano non ebbe il tempo di andare avanti: 19 giorni dopo fu spazzato via dall’autobomba di via d’Amelio. Un anno più tardi, anche Gardini uscì di scena.

Due morti che, secondo la Procura di Caltanissetta, sono direttamente collegate.

Per questo i magistrati nisseni riaprirono l’inchiesta sul suicidio di Gardini, a cui la moglie Idina Ferruzzi, non ha mai creduto, ripartendo da un’ipotesi, già percorsa invano con un’indagine ribattezzata ‘Sistemi criminali’ e chiusa con l’archiviazione: “dietro le stragi del 1992-93 ci sarebbe stata la volontà di Cosa nostra di impedire ogni inchiesta sul monopolio degli appalti“.

Ora, proseguiva L’Espresso, nel 2006, “i pm di Caltanissetta dispongono di fatti nuovi, alcuni ancora segreti, a partire dagli sviluppi nella ricostruzione dei rapporti con i Buscemi, padrini di Passo di Rigano: il feudo di Salvatore Inzerillo, a loro affidato da Totò Riina per la fedeltà dimostrata in guerra e in affari…”.

Già dieci anni fa si era scoperto che il Gruppo Gardini e i Buscemi erano sostanzialmente soci: ciascuno controllava il 50 per cento della Finsavi, creata per fare affari nell’isola. Poi nel ’97 la Compart, nata dal crollo della Ferruzzi, vende tutto a Italcementi. In Sicilia, però, secondo le indagini, le mani della mafia restano avvinghiate alla Calcestruzzi. Poco dopo finiscono in carcere il capomafia di Riesi, Salvatore Paterna, impiegato della Calcestruzzi Spa; Giuseppe Ferraro, proprietario della cava Billiemi e Giuseppe Giovanni Laurino, detto ‘ù Gracciato’, responsabile locale dell’azienda…”.

Possono personaggi così provinciali custodire segreti che hanno sconvolto il Gotha della finanza italiana? Alcuni dei più importanti pentiti nell’ultimo decennio, tra loro Giovanni Brusca e Angelo Siino, hanno sottolineato come la questione del calcestruzzo fosse strategica per i corleonesi.

Anche Falcone e Borsellino si sarebbero mossi sulla stessa traccia.

Nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta ‘Sistemi criminali’ i pm scrivono: “Già le loro indagini nel 1991 avevano aperto scenari inquietanti e se fossero state svolte nella loro completezza e tempestività, inquadrandole in un preciso contesto temporale, ambientale e politico avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima o contestualmente a Tangentopoli”.

In ballo c’erano investimenti miliardari e relazioni fondamentali per il potere mafioso, che andavano difese a tutti i costi.

Dopo le bombe che hanno eliminato i due migliori magistrati della storia del ns. Paese, pare che altre fossero pronte per l’ex P.M. Di Pietro, come rivelato dal pentito Maurizio Avola e a posteriori dallo stesso Di Pietro.

Fino alla tarda serata del 23 luglio 1993, poco prima dell’inscenato suicidio, Gardini era deciso a presentarsi ai magistrati di mani pulite per rispondere alle accuse mossegli sulla megatangente Enimont e le relazioni tra il Gruppo Ferruzzi e il sistema dei partiti. Cosa che, all’epoca, riferirono i suoi stessi avvocati, con i quali “fino a poche ore prima aveva discusso della deposizione, mostrando la determinazione di sempre”. La mattina dopo, invece, Gardini viene trovato morto.

Possibile, si interrogano i magistrati nisseni, che le pressioni di Cosa nostra abbiano pesato su questo gesto? Possibile che si sia trattato di un omicidio?

I pm, prosegue L’Espresso, senza che sia mai stata data alcuna concreta risposta, chiedono alla Dia di usare ogni strumento per non lasciare dubbi. E di approfondire ogni possibile legame anche con la bomba di Milano, esplosa all’indomani dei funerali in via Palestro. Secondo gli atti del processo, gli attentatori sbagliarono bersaglio di alcune centinaia di metri. E Palazzo Belgioioso, residenza di Gardini, era poco lontano.

“Tanti fantasmi siciliani”, a cui Sergio Cusani, fiduciario del sistema dei partiti, non ha mai dato stranamente credito, seppure fossero molto concreti e capaci di seminare morte: “La Calcestruzzi godeva di una autonomia assoluta perché Lorenzo Panzavolta l’aveva creata e la gestiva come un autocrate”, ha spiegato in un’intervista: “A un certo punto, dopo un attentato, saltò fuori il nome di questo Buscemi. Gardini fu molto seccato da questa storia e all’interno del gruppo si aprì un’inchiesta. Cusani ricorda che Panzavolta presentò Buscemi “come un manager dell’azienda comprata in Sicilia”. E descrive Gardini turbato, tanto da pensare di liberarsi dell’azienda: “Mi disse: ‘Vendo la Calcestruzzi e così vendo anche Panzavolta'”. Ma, conclude il settimanale L’Espresso: “Era qualcosa che Gardini poteva fare? Si poteva dire di no ai soci palermitani? E si poteva licenziare Panzavolta, l’ex comandante partigiano romagnolo che teneva i rapporti tra Ferruzzi e Pci, ma soprattutto gestiva i grandi appalti nazionali della famiglia di Ravenna?

Da: “Gardini e padrini”, L’Espresso del 10/8/2006

Lettera aperta al C.S.M. e alla Procura di Palermo sulle bugie e i silenzi di Cusani.

Agli interrogativi dei magistrati nisseni e del settimanale L’Espresso a distanza di oltre 5 anni la DDA non ha ancora risposto e neppure il C.S.M. e la Procura di Palermo alla lettera aperta del giornalista di Antimafia 2000, Antonio Bongiovanni, di cui pubblichiamo alcuni stralci, onde consentire ai lettori di comprendere come siano andate le cose e quanto ci sia ancora da scoprire dietro ai falsi suicidi di Gabriele Cagliari e Raoul Gardini, ovvero dietro ai torbidi rapporti tra alta finanza, mafia, sistema dei partiti, massoneria e capacità di condizionamento dell’attività giudiziaria.

“Vorrei richiamare la vostra attenzione sulla notizia apparsa lo scorso 23 novembre sul Corriere della sera riguardante le informazioni rilasciate dal collaboratore di giustizia Angelo Siino relative alla collusione tra cooperative rosse e mafie in relazione al suicidio del ’93 di Raul Gardini.

Le dichiarazioni del pentito circa le cause della morte del finanziere imputano la totale responsabilità del fatto alla mafia. Ciò contrasta con la tendenziosa smentita di Cusani che, icordiamo, nell’ambito dell’inchiesta “Mani Pulite” fu condannato, per corruzione, a 4 anni di carcere.
In qualità di giornalista mi permetto quindi di intervenire, focalizzando alcuni fatti rilevanti, per poter meglio chiarire la posizione di Sergio Cusani, del gruppo Ferruzzi – Gardini e del loro legame con i fratelli Buscemi di Cosa Nostra.

Come abbiamo già pubblicato nel numero di maggio della rivista ANTIMAFIA Duemila, riportiamo integralmente le affermazioni inquietanti del direttore dello SCO, Alessandro Pansa, inerenti le cause della morte del Gardini: “Si grandi interessi economici in una realtà criminale come Cosa Nostra hanno come esigenza assoluta elementi di mediazione, di coloro cioè che mettono in contatto il criminale con il mondo economico. Se guardiamo al territorio nazionale, ad esempio, la Sicilia scopriamo che i collegamenti fra i livelli più bassi a quelli più elevati che si sono stabiliti tra il mondo economico e il mondo criminale sono stati quelli della politica. Nel momento in cui le inchieste del passato sono state mirate ad individuare questa relazione tra politica e mafia, senza considerare che il ruolo della politica era un ruolo intermedio, strumentale, non era lo scopo finale, si scopre forse anche il perché alcune inchieste sono fallite e il livello economico non è stato interamente perseguito, perché ancora oggi noi non ci siamo spiegati bene perché Calvi si è suicidato o è stato ammazzato, perché Sindona si è suicidato o è stato ammazzato e forse oggi sorge anche il dubbio di altri personaggi come Raoul Gardini che si è suicidato o è morto perché è morto” (tali affermazioni sono registrate in una documentazione audio, a disposizione della Magistratura).

Riscontri importantissimi emergono dalle inchieste del P.M. della DDA di Palermo, Dott.ssa Franca Imbergamo, sui rapporti tra il gruppo Ferruzzi – Gardini della Spa in Sicilia e i fratelli Buscemi, capi di Cosa Nostra per il mandamento di Passo di Rigano – Boccadifalco di Palermo. Di particolare interesse è l’inchiesta riguardante la perizia legale fatta su alcune di queste società e il loro forte coinvolgimento con i Buscemi.
La prima dichiarazione in assoluto fu quella del Dott. Falcone che nell 1989/’90 disse che “la mafia era entrata in borsa”, in coincidenza con l’ingresso, appunto in borsa, del gruppo Ferruzzi – Gardini. La conferma che Falcone fece riferimento a queste due organizzazioni ci arriva proprio dai suoi amici, detentori delle sue confidenze.

Gli stessi elementi emergono in due requisitorie: quella del PM Luca Tescaroli per la strage di Capaci, che comprende le testimonianze di Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca e di altri collaboratori di giustizia, e quella dei P.M. La Palma e Nino Di Matteo per quanto riguarda il processo Borsellino.
Concludendo, è ormai provato che i fratelli Buscemi (ai quali il Tribunale ha sequestrato centinaia di miliardi di capitali in beni immobili) collaboravano con il gruppo Ferruzzi – Gardini tramite Lorenzo Panzavolta.
A dimostrazione di ciò che emerge dalle indagini della magistratura palermitana, risultano false e in cattiva fede le smentite dell’ex detenuto Sergio Cusani delle deposizioni del pentito Angelo Siino.

Auspichiamo che i magistrati della DDA di Palermo, in particolare il procuratore Grasso, chiedano di interrogare Sergio Cusani e Lorenzo Panzavolta, come persone informate sui fatti, sulla questione degli affari della Ferruzzi – Gardini in Sicilia, per cercare di scoprire la verità sulle stragi che nel ’92/’93 hanno insanguinato l’Italia”.

Da 10 anni, aggiungiamo noi, oggi, questi auspici e interrogativi devono ancora trovare risposta, malgrado le buone intenzioni del Procuratore Grasso che se ne va in giro per Tv a mostrare il volto gentile ma impotente del potere giudiziario (n.d.r.).
Sant’Elpidio a Mare, lì 30 novembre 2000
In Fede: Giorgio Bongiovanni
http://www.antimafiaduemila.com/2000/05/0005_49.html

Immigration is not a crime.

Da Brescia a Milano, migranti «sospesi» per la regolarizzazione

Ieri Brescia, oggi Milano, domani in tutta Italia», cantano e sperano gli immigrati raccolti sotto la ciminiera di via Imbonati, a pochi passi da piazzale Maciachini, periferia Nord di Milano densamente abitata da stranieri. Sopra i loro occhi, a circa quaranta metri d’altezza sette ragazzi protestano da due giorni: chiedono una «sanatoria per tutti», perché «immigration is not a crime», spiega uno striscione pendente dall’ex camino industriale della farmaceutica «Carlo Erba».

Dopo Brescia, anche a Milano i migranti manifestano per ottenere la regolarizzazione. Sospesi, sulla ciminiera, ci sono cinque egiziani, un argentino e un marocchino, tutti sotto i quarant’anni. Sul piazzale un gazebo, due tende e un centinaio di persone a dargli sostegno. Fa freddo, soprattutto di notte, ma loro dicono di voler andare avanti fino a quando non avranno dal governo le risposte che aspettano. A mediare è la prefettura. Le richiesta sono sei, dice Najat Tantaoui, combattiva portavoce del Comitato Immigrati in Italia, presidente dell’associazione Dialogo, titolare di una cartoleria e mamma di quattro bambini «nati in Italia e che si sentono italiani, cosa di cui sono fiera». Sei richieste, dicevamo. Innanzitutto un passo indietro rispetto alla «sanatoria truffa del 2009», quella che permetteva di mettere in regola colf e badanti. Continua Najat: «Molti di noi da lavoratori hanno cominciato a pagare i contributi Inps ma aspettano ancora la regolarizzazione. Tanti altri invece hanno denunciato i datori di lavoro che chiedono di essere pagati per avviare le pratiche». Una sorta di pizzo sui documenti. Ma non ci sono solo colf e badanti. C’è la richiesta del diritto di voto per chi è residente da almeno cinque anni. Il diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia. Il prolungamento dei termini di scadenza del permesso di soggiorno quando si perde il lavoro. Riprende Najat: «Quelli che hanno perso il posto per via della crisi hanno solo sei mesi per trovare un’altra occupazione. Scaduto il permesso devono andare via. Noi chiediamo un proroga di due anni». Infine «il riconoscimento dei rifugiati politici come esseri umani».

Migliaia a Brescia
Rivendicazioni simili a quelle avanzate dai cinque stranieri di Brescia che da più di una settimana si trovano su una gru nel cantiere della metropolitana di piazzale Cesare Battisti, in centro città. Sono saliti a 35 metri d’altezza dopo lo sgombero di un loro presidio e gli scontri con le forze dell’ordine. Dopo il «no» del prefetto alla richiesta di permesso di soggiorno, con loro ieri alcune migliaia di persone hanno manifestato con un corteo. Nella folla c’era anche un gruppo di genitori di Adro, il comune famoso per la scuola in cui sono stati collocati circa 700 simboli del sole delle Alpi. La giornata di proteste migranti ha fatto registrare anche una manifestazione a Sassari, dove qualche giorno fa due stranieri sono stati aggrediti. Circa duecento persone hanno sfilato dietro lo striscione «No violenza, no razzismo».

7 novembre 2010

di Giuseppe Vespo

da www.unita.it

Massoni coperti nel pool di Milano? Borrelli ride ma se fosse massone anche lui?

La denuncia di Pietro Palau Giovannetti, presidente del Movimento per la Giustizia Robin Hood e di Avvocati senza Frontiere, vittima da oltre 20 anni di una persecuzione massonico-giudiziaria, senza precedenti nella storia del diritto, da parte delle procure di Milano e Brescia, su cui non è stata mai svolta alcuna indagine.

Oltre 750 procedimenti sparsi nelle procure di tutta Italia e condanne a ben 6 anni di reclusione per pretesi “reati ideologici” per avere avuto il coraggio di denunciare la corruzione giudiziaria e le collusioni tra massoneria, mafia, politica e istituzioni.  

A riguardo, pubblichiamo un’intervista rilasciata da Francesco Saverio Borrelli al Corriere della Sera in data 10.5.1997, che la dice lunga sull’epilogo di “mani pulite” e l’esistenza di massoni coperti nel pool di Milano, nella quale l’ex Procuratore di Milano, nominato con l’intervento di Craxi, afferma di “non avere mai avuto neppure il più vago e remoto sentore“, aggiungendo con ancora minor credibilità di escludere che alcuno dei colleghi possa essere iscritto alla “massoneria ufficiale“. La curiosità è che quelle sei misteriose schede, riguardanti magistrati di Milano, non le ha potute conoscere neppure il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti che pure, dopo un lungo tira e molla, era stato autorizzato dall’allora Presidente del Consiglio Prodi a prendere visione del fascicolo con la procedura ultrariservata della lettura “solo per gli occhi“, senza estrarne copia, e senza portarlo via dalla sede del Sisde. Insomma quelle sei misteriose schede pare siano sparite nel nulla. Forse è questa la ragione per cui l’ex Procuratore capo di Milano afferma che crede non lo riguardino personalmente?

Quello che possiamo affermare con certezza è che le “delicatissime indagini” affidate alla Procura di Brescia, che pare fosse l’unica ad avere ricevuto copia dal Sisde delle schede, sono state affossate e che l’ex Procuratore capo di Brescia Lisciotto, anch’egli appartenente alla P2, aveva occultato in soffitta oltre 26000 fascicoli, senza neppure registrarli nel registro delle notizie di reato, molti dei quali riguardanti denunce della Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood nei confronti di magistrati di Milano e lo stesso Borrelli. 

Chissà se l’ex Procuratore di Milano Borrelli lo hai mai sospettato?  

Dossier Achille, il mistero di sei schede.

di Calabrò Maria Antonietta e Paolo Biondani  

Pronta la relazione del Comitato parlamentare servizi che ha preso visione di tutti i rapporti del Sisde tranne quelli inviati in copia alla Procura di Brescia. Dossier Achille, il mistero di sei schede. Massoni “coperti” nel pool di Milano? Borrelli ride: ci accusano di tutto, ma questa poi… L’ organismo presieduto da Frattini lamenta una “questione insoluta”: non aver preso visione delle parti che riguardano le inchieste ambrosiane. L’ INTERVISTA. Il procuratore: Davigo direbbe che ci rivoltano come un calzino.

ROMA. Sei schede, dai titoli inquietanti, documenti su cui la Procura di Brescia ha in corso delicatissime indagini. E’ questo il “cuore” segreto del piu’ segreto dei dossier, il famoso fascicolo “Achille” del Sisde che doveva contenere presunte schedature di magistrati, soprattutto quelli del pool di Milano. Quelle sei misteriose schede non le ha potute conoscere neppure il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti che pure, dopo un lungo tira e molla, era stato autorizzato alla fine dello scorso novembre dal Presidente del Consiglio Prodi a prendere visione del fascicolo con la procedura ultrariservata della lettura “solo per gli occhi”, senza estrarne copia, e senza portarlo via dalla sede del Sisde.

L’incredibile storia di quest’ultimo “santuario” di “Achille” e’ descritta nero su bianco nella Relazione conclusiva di 56 pagine che il Comitato parlamentare ha approvato all’unanimita’ il 29 aprile. Giovedi’ scorso il documento e’ stato consegnato al presidente della Camera, Luciano Violante, per la pubblicazione, e il Corriere e’ in grado di anticiparlo. Il Comitato sostiene – senza mezzi termini – che “il Sisde non ha consentito l’esame di atti pur certamente conservati nei propri archivi e di indubbio interesse per l’attivita’ di referto al Parlamento“.

Il ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, ascoltato in proposito nel corso di un’audizione a San Macuto il 3 aprile scorso – riferisce la Relazione – ha dovuto ammettere, alla fine, che quelle schede erano statetolte dal contenitore” del dossier e trasferite in un altro archivio di via Lanza. “Lo stesso ministro dell’Interno – e’ scritto piu’ oltre – nel corso dell’audizione, ha preso atto della esistenza, in tale vicenda, di una questione tuttora insoluta”. Il fatto e’ che i componenti del Comitato (otto, in rappresentanza di tutte le forze politiche, presieduti da Franco Frattini di Forza Italia) in un primo tempo non si sono neppure resi conto del fatto di essere stati “bypassati”.

Ai documenti mancanti, infatti, spiega la Relazione, nel fascicolo visionato dai parlamentari “corrisponde nelle pagine di protocollo progressivo, l’indicazione, nello spazio bianco, delle parole: “inviato all’autorita’ giudiziaria di Brescia“. “Tali circostanze avevano indotto i componenti del Comitato a ritenere – continua la Relazione – che l’unico mezzo idoneo a consentire la visione della parte mancante del fascicolo “Achille” fosse quella di ottenerne, come era avvenuto nel 1996 per altre schede, la trasmissione in copia dalla Procura della Repubblica di Brescia”. Ma ecco la sorpresa. “Il procuratore Tarquini ha comunicato di avere acquisito dal Sisde le schede in questione (…) in copia e non in originale”. L’interesse dei parlamentari, in particolare, per le sei schede era nato dai “titoli” con cui esse sono individuate nel fascicolo, titoli che la Procura di Brescia aveva comunicato al Comitato parlamentare descrivendone sinteticamente l’oggetto: “1) “Novita’ in vista nell’inchiesta tangenti di Milano”; 2) “Voci su manovre internazionali contro la lira”: nel documento vi sono notizie provenienti da fonti “autorevoli” su presunti contatti tra magistrati (Di Pietro) e ambienti, anche internazionali, in grado di determinare tali manovre; 3)” La vicenda Lega – Cardinale Martini”; 4) “Il giudice Colombo indaga in Svizzera”; 5) “Avviso di garanzia a G. Balboni Acqua; 6) “Ancora indiscrezioni sulle influenze della politica ebraica”; il documento fa riferimento alla possibile appartenenza a logge massoniche coperte di magistrati della Procura di Milano”. Insomma, il problema delle sei schede costituisce davvero “una questione insoluta”, anche e soprattutto se si tiene conto che lo stesso responsabile del Viminale, Napolitano, ha rassicurato, a nome del governo, il Comitato parlamentare sul fatto che nessun magistrato e’ mai stato spiato e in particolare quelli del pool milanese di Mani Pulite a cominciare dalla sua punta di diamante, Antonio Di Pietro.

Questo l’esito delle ricerche, ordinate dallo stesso ministro Napolitano, che secondo il Comitato e’ “condivisibile” (nonostante le polemiche, sottolinea la relazione, e le strumentalizzazioni che in passato sono state fatte dell’intera vicenda). Una circostanza di non poco conto – sostiene il testo – visto che Napolitano e’ il primo responsabile del Viminale “espresso da una parte politica che dal dopoguerra ad oggi non ha mai avuto la responsabilita’ del dicastero”. Una valutazione “tranquillizzante”, dunque, delle informative del Sisde di cui e’ stata esclusa ogni possibilita’ di “collegarle a finalita’ di indebita interferenza sull’attivita’ della Procura milanese”, pur essendo le notizie “prive di rilevanza istituzionale per il servizio”.

Un giudizio su cui ha pesato molto la stessa audizione – nella passata legislatura – dello stesso Antonio Di Pietro “il quale ha affermato – in merito ad alcuni fatti descritti in una delle schede del fascicolo – che gli stessi erano proprio quelli da lui raccontati ad Achille Serra”, all’epoca questore di Milano. Resta, comunque, l’anomalia delle sei schede mancanti. Esse con ogni evidenza fanno parte del “filone” di raccolta di notizie relative all'”attivita’ della Procura di Milano”. Che, si noti, e’ solo uno (il secondo in ordine di conservazione) dei cinque “capitoli” in cui si divide il dossier “Achille”, in base alla sistematizzazione che ne ha fatto il Comitato. Il primo e’ quello sulle “correnti della Dc romana“, sul ruolo di Vittorio Sbardella, e della corrente andreottiana nel sistema delle privatizzazioni avviato nel ’92. Il terzo, nutritissimo, riguarda “informazioni su alti esponenti vaticani“, comprese notizie sulla salute del Papa, e l’esistenza di varie correnti “politiche” all’interno della gerarchia ecclesiastica. Il quarto riguarda invece vicende interne della Rai (organigrammi, progetti). Il quinto: notizie varie. 

L’INTERVISTA A BORRELLI. Il procuratore: Davigo direbbe che ci rivoltano come un calzino.

MILANO. “Beh, questa non l’avevo mai sentita. Che vi devo dire?

Non penso che quelle schede mi riguardino personalmente. Ed escludo nel modo piu’ assoluto che esista qualcosa di fondato su altri magistrati del pool. Io non ho mai avuto neppure il piu’ vago e remoto sentore che tra gli attuali colleghi di questa Procura possa essercene qualcuno iscritto a logge coperte. E nemmeno alla massoneria ufficiale”.

Saverio Borrelli, ancora in ufficio alle otto di sera, commenta con tono non preoccupato ma divertito l’ultimo mistero romano: un documento del Sisde di cui si conosce solo il titolo, che accenna a oscure “influenze della politica ebraica” sulle inchieste di Tangentopoli. Ipotizzando pure “una possibile appartenenza a logge massoniche coperte di magistrati della Procura di Milano”. Informato di questa inedita appendice del famoso “dossier Achille”, Borrelli sorride: “Non ne sapevo nulla. In questi anni ci hanno accusato di tutto, ma e’ la prima volta che salta fuori la massoneria“. Nella relazione, i parlamentari si chiedono dove siano finiti gli originali di 6 schede del Sisde su Milano. “Se nelle copie non manca niente, non capisco bene la rilevanza del problema. Documenti di quel tipo non sono sottoscritti. Quindi, tra originali o copie, che differenza fa?” Lo sapeva che, su quelle 6 schede, indaga la Procura di Brescia, che e’ l’unica ad averne le copie? “Anche questa mi giunge nuova. Bisognerebbe almeno conoscere lo stato del procedimento: siete sicuri che, magari, non sia stato gia’ archiviato?” Perche’, ha qualche sospetto sull’origine della “velina” massonica? “Per carita’, io posso fare solo un’ipotesi. L’unica cosa che mi viene in mente e’ la valanga di denunce presentate da Pietro Palau Giovannetti…” Chi, il presidente dell’associazione “Robin Hood”? “Proprio lui. La conosce la sua storia? Quel signore abitava in uno stabile di un immobiliarista milanese, Virginio Battanta. Ricevuto lo sfratto, Palau lo ha denunciato. Poi, quando e’ finito sotto inchiesta per due fallimenti, ha cominciato a presentare esposti a Brescia contro i pm di Milano che, a suo dire, non avrebbero indagato. Di li’ e’ nato un groviglio di inchieste a catena, con decine o forse centinaia di denunce incrociate… Penso che ora se ne occupi Trento… Ma non escludo che prima o poi, passando da una Procura all’altra, finisca tutto a Trieste”. E la massoneria cosa c’entra? “Una delle tante denunce di Palau fu indirizzata al procuratore Cordova, che all’epoca era titolare della maxi – inchiesta sulle logge coperte.

Che io ricordi, quella e’ l’unica denuncia che abbia mai ipotizzato “infiltrazioni giudaico – massoniche”, espressione forse usata in senso generico, approssimativo, tra i magistrati di questa Procura”. Insomma, l’ennesima bufala. Questa storia delle schede segrete, pero’, prova che, prima dell’Ufficio “I” della Finanza, anche il Sisde spiava il pool. “Fin dall’inizio di Mani pulite avevamo messo in conto che le nostre vite private sarebbero state… rivoltate come un calzino, come si e’ fatto dire a Davigo. In cinque anni di indagini, mi sembra che siano stati toccati centri di potere abbastanza importanti. Era prevedibile che la nostra attivita’ avrebbe ricevuto un’attenzione spasmodica. Va detto pero’ che tutti questi controlli clandestini non hanno portato a nulla, se non a qualche disgrazia personale per Di Pietro a Brescia”. Essere spiati, insomma, non sempre e’ dannoso… Borrelli ride. “Un vantaggio c’e’: le nostre mogli hanno la prova che, quanto a fedelta’ coniugale, possono stare tranquille”.

10 maggio 1997 – Corriere della Sera

http://archiviostorico.corriere.it/1997/maggio/10/Dossier_Achille_mistero_sei_schede_co_0_9705105041.shtml

N.d.R.: Dell’efficenza dei controlli del Sisde e sulla fedeltà coniugale e credibilità dell’ex Procuratore capo di Milano si nutrono fondati sospetti, poiché al di là della diffusa appartenza di magistrati a logge massoniche coperte e non è fatto notorio che il Dott. Francesco Saverio Borrelli avesse come amante proprio una P.M. della Procura di Milano.    

ATTO DI ACCUSA E DENUNCIA CONTRO I GIUDICI DELLA CORTE D'APPELLO DI BRESCIA

 ATTO DI ACCUSA E DENUNCIA IN MERITO ALLA SENTENZA n. 837/2007 DELLA I ^ SEZIONE CIVILE DELLA CORTE  DI APPELLO DI BRESCIA. A cura di Francesco Di Lorenzo.

Di seguito pubblichiamo il testo integrale della denuncia in oggetto, come pervenutaci dal diretto interessato a cui manifestiamo tutto il ns. appoggio e solidarietà. 

“In premessa va comunque precisato che la sentenza era meritevole  di un  ricorso per Cassazione. Purtroppo ciò non si è verificato per le disastrose condizioni  economiche del sottoscritto causate dal comportamento di un avvocato del quale è inutile fare il nome perché ormai il fatto è risaputo. Dopo aver bussato a mille porte, nessuno ha ritenuto di fargli credito. La Cassazione avrebbe senz’altro rilevato i grossolani errori commessi in fase di  appello. Primo fra tutti, quello di giudicare inammissibile  una querela di falso senza dare la benché minima motivazione sulla decisione ed in tempi congrui atti a potersi opporre.

Col presente documento, il sottoscritto DENUNCIA ed ESPONE quanto segue:

La   I ^ sezione civile della Corte d’Appello di Brescia, nella  sentenza n. 837/2007  del 4.7.2007 giudica inammissibile una “querela di falso” presentata dal sottoscritto nel corso della causa civile con Bergamo 2 srl per una lettera falsificata dal legale di quest’ultima e così prodotta nel fascicolo principale della causa, quello del giudice.

Ciò gli fu consentito, a mia insaputa, dal mio avvocato che tradì il mandato.

Senza entrare nei particolari aberranti dei 20 anni di causa trascorsi tra umiliazioni, furti e saccheggi da parte di questi assatanati che grazie all’inerzia dei giudici del Tribunale e al tradimento di un avvocato disonesto, hanno causato danni irrimediabili a me e alla mia famiglia. Dopo 17 anni il GOA di Bergamo mi attribuisce la ragione. Costoro prima tentano di trattare  ma poi decidono per l’appello. L’esecuzione del I° grado viene sospesa dalla Corte. Si decide col mio legale di presentare appello incidentale e la predetta querela di falso. Quest’ultimo con mille pretesti tentò di ostacolare la presentazione di questa querela attraverso motivazioni poco convincenti e penso che il suggerimento di non presentare il documento sia venuto proprio da qualcuno che aveva interesse in tal senso. C’è da dire che se la querela di falso fosse stata ammessa, alla fine l’avvocato Vittoni avrebbe subìto un processo per falso come prevede il Capo III – della falsità in atti del C.P. e in modo anche continuato, ai sensi art. 81C.P.  poiché la lettera falsificata l’ha proposta in tutte le memorie prodotte nei 20 anni di causa. Finanche nella fase d’interpello ai sensi dell’art. 222 c.p.c. nel corso dell’istruttoria della querela, aveva deciso di avvalersi del documento. Il fatto che il mio avvocato ( Rocchi – del quale conservo la lettera !) continuasse  ad ostacolare la presentazione della querela di falso, sostenendo che era un fatto penale e non civile. Mi ha dato molto da pensare, dopo l’esito della causa. Perché non voleva il mio avvocato che si presentasse questo documento?  Io mi ero informato e sapevo che aveva importanza sull’esito della causa civile, come sostiene la Corte di Cassazione nella sentenza n. 12399 del 28.05.2007. Pertanto ritengo che questi giudici abbiano deciso in quel modo, soprattutto per salvare l’avvocato da un possibile procedimento penale poiché questo si era reso responsabile nel produrre un documento della controparte in modo  contraffatto e poiché nella sua funzione di avvocato difensore, funge anche da pubblico Ufficiale,  è perseguibile ai sensi degli art. relativi al capo III °- della falsità in atti- del C.P. ( come già esposto) ed ai sensi dell’art. 374 C.P. per la frode processuale, e dell’art. 81 C.P.  poiché per quanto già esposto, il reato non è mai cessato, quindi si tratta anche di reato continuato. Credo che di questo il mio avvocato fosse al corrente, ma tentava di dissuadermi su mandato dell’avversario o di chi aveva interesse in questo.

Ritenevo importante che il documento fosse acquisito agli atti nella sua integralità in quanto rappresentava un ostacolo alla lettera di diffida inviata dalla controparte all’inizio della causa. Fu appunto la lettera falsificata, che metteva in mora la società ancora prima che questa decidesse di inviare lettera di diffida. La società tralasciò di rispondere a quella lettera che chiedeva legittimamente di avere prove della propria situazione debitoria presente nella fattura n. 17 nella quale appariva , tra le altre cose una richiesta che si riteneva illecita ma nessuno seppe dare certezza alla cosa. Solo recentemente si è saputo dall’ Istituto bancario che quella era una richiesta illegittima e quindi, come io giustamente pensavo,  appariva come un tentativo di estorsione di denaro a tutti i condomini, e  che,comunque,  si trattava di interessi passivi non dovuti che gravavano soltanto su chi aveva ricevuto e utilizzati i soldi di quell’anticipazione, cioè la società Bergamo 2 srl. 

Ritengo responsabili della cosa sia l’avvocato difensore (Vittoni), sia la società Bergamo 2 Srl. Chiedo l’intervento della  la S.V. su questa vicenda sulla quale si sono consumati numerosi reati quali: furti; sequestri di mobili ed effetti personali non più ritrovati; utenze peraltro pagate e 14.250.000 di Lire versate quali rate anticipate e non rimborsate le quali, oggi ammonterebbero a circa € 23.000 con interessi e rivalutazione. Va detto inoltre che una famiglia è stata messa allo sbando per questa vicenda dove ha subìto ed anche pagato le pretese del primo avvocato che ha tradito ( ne  è a conoscenza l’Ordine di Bergamo, ma non l’hanno mai voluto mettere per iscritto, anzi l’hanno assolto) e dei suoi eredi che grazie a degli stratagemmi legali hanno acciuffato oltre 22.000 €  oltre quello già pagato a  mani del congiunto.

Questo quale premio per aver rovinato la vita mia e della mia famiglia in combutta con l’atro filibustiere. I due hanno distrutto la serenità, l’avvenire dei figli e di una famiglia che potrà sopravvivere, non so per quanto ancora, soltanto attraverso carità cristiana e questo non mi sembra giusto per chi ha dato anni di vita allo Stato Italiano. Altro che costoro, difensori soltanto del proprio benessere e della Casta a cui appartengono. Mi appello alla coscienza di chi è chiamato a rendere giustizia. Sembra, però, che questo non importi a nessuno perché sono state presentate denunce, esposti al C. S. M.,  al Capo dello Stato, al Governo, al Ministero della Giustizia ed anche agli organi di stampa italiani ed anche esteri: sembra che sia stato costruito un muro a protezione per queste persone che non so più come definire.  

Chiedo infine di essere informato ai  sensi  di legge e di essere avvisato sulle decisioni che La  S.V. prenderà in merito. Gli allegati sono  parte integrante della denuncia.

Allegati alla denuncia:

            1 – Esposto   inviato al C.S.M. (ad oggi nessuna risposta  neanche  su esplicito        

                 invito del Presidente della Repubblica)                  

2- Notizie (verificabili) sui trascorsi della società

3- Lettera dal Quirinale

4- Ultima lettera per il Capo dello Stato e p.c. Ministero Giustizia.

5- Considerazioni sulla sentenza              

In fede   Francesco Di Lorenzo

"Aiuto, perdo la casa per tre milioni di lire"

Mozzo. Non pagò gli interessi del mutuo ritenuti ingiusti per tre milioni di vecchie lire. Ora dopo 19 anni di causa, oltre a venire ingiustamente condannato a pagare ben 45 mila euro, rischia di vedersi anche sfrattare dalla propria abitazione. La solita “giustizia” alla rovescia.

Francesco Di Lorenzo protesta davanti al Tribunale. Rischia di vedersi sfrattato dalla casa di sua proprietà in via Manzoni a Mozzo, in cui vive con la moglie e i due figli, per colpa di tre milioni di vecchie lire. Nemmeno 1.500 euro, che adesso, col senno di poi e dopo anni di estenuanti lentezze processuali, sembrano una bazzecola, ma che allora, 1988, costituivano una questione di principio. La vicenda giudiziaria che ha investito Francesco Di Lorenzo, 71 anni da compiere, ex dipendente dell’Agenzia delle Entrate, è la classica palla di neve che ruzzolando a valle s’è ingigantita ed è diventata valanga. Il suo calvario comincia nel 1986 con la decisione di comprare un appartamento in una palazzina in via di costruzione a Mozzo. La guerra sugli interessi. Anticipo di 14 milioni di lire, contratto che prevede la permuta della sua vecchia abitazione (quella dove vive tuttora), ma tempi di consegna che s’allungano. Pare che la società immobiliare sia in difficoltà economica, tanto che si fa anticipare dalla banca i soldi del mutuo. «Il fatto è – precisa il signor Di Lorenzo -, che il mutuo doveva partire solo al momento di consegnare l’appartamento». L’istituto di credito esige gli interessi passivi, che l’immobiliare pensa bene di addebitare ai futuri inquilini. Sono tre milioni di lire a testa, contro il cui esborso il signor Francesco s’impunta. Inizia in questo modo, tutto sommato banale, il domino di disavventure giudiziarie che gli rovinerà l’esistenza. La società reclama i soldi con tanto di fattura, il dipendente delle Entrate risponde con una lettera di diffida in cui contesta i tre milioni di interessi non dovuti, il ritardo nella consegna e alcuni lavori non eseguiti. È l’incipit della guerra legale, perché da lì in poi entrano in scena gli avvocati. Il primo legale di Di Lorenzo fa riferimento alla missiva dell’assistito, soprattutto al post scriptum sulle inadempienze contestate alla ditta che il dipendente statale aveva aggiunto a penna e che, vedremo in seguito, durante il processo sparirà misteriosamente. i contenziosi con l’immobiliare. Le cause partono nel 1988: una di possesso che lo statale finirà per perdere in tempi relativamente rapidi (l’appartamento resterà di proprietà dell’immobiliare), l’altra di merito in cui ci si contende acconti, lavori effettuati, spese, interessi (fra cui i famosi tre milioni di lire). I rapporti tra le parti si deteriorano fin da subito. Non sono nemmeno passati sei mesi dall’inizio del contenzioso di possesso che la società cambia la serratura dell’abitazione. «Noi avevamo già iniziato il trasloco – ricorda Di Lorenzo -, dentro c’erano alcuni oggetti di valore affettivo, nonché suppellettili ed elettrodomestici nuovi di zecca, tutta roba che non fu più ritrovata». Qualche tempo dopo il dipendente statale ricambierà il blitz, procurandosi la chiave e andando a vivere in quell’appartamento per qualche mese. «Io e mia moglie non sopportavamo che tutti i lavori che avevamo deciso e pagato di tasca nostra andassero a beneficio di un altro (l’abitazione stava per essere affittata, ndr) – racconta il signor Francesco -. Rimanemmo lì con l’incertezza e il disagio di chi è privato della certezza di vivere in casa propria, fino a quando non scattò il sequestro conservativo». il legale gli fa causa È lì che Di Lorenzo comincia a infilarsi nell’imbuto della sua odissea giudiziaria. E dire che, alla prima udienza della causa di possesso, il pretore aveva invitato le parti a raggiungere un accordo. «Io ero quasi propenso a versare i tre milioni di lire – confida oggi il signor Francesco -, ma il mio avvocato (il secondo, dopo che il primo aveva lasciato l’incarico per subentrati impegni, ndr) continuava a insistere: c’è un contratto che va rispettato. Mi sono fidato di lui, ho pensato: è uno rinomato, saprà certo quel che fa. Col tempo ho cominciato a sospettare che lui agisse contro i miei interessi e che fosse d’accordo con il collega di controparte per tirarla per le lunghe e guadagnarci. Anche per questo motivo l’ho denunciato all’ordine degli avvocati, che però lo ha scagionato». Saranno i dissidi col suo legale a rappresentare la seconda tegola economico-giudiziaria. Perché, nel ’94 (a causa ancora in corso), quando il cliente decide di sollevarlo dall’incarico, l’avvocato presenta una parcella da 40 milioni di lire, due anni dello stipendio del signor Francesco. Così, quando manifesta l’intenzione di non pagare, Di Lorenzo si ritrova con un altro contenzioso sul gobbone, intentato dal suo ex difensore e risoltosi con una sconfitta: lo statale viene condannato a risarcire 25 mila euro, che si affretta a reperire tramite prestiti di amici e di una finanziaria, nel momento in cui intuisce che metà della sua casa rischia di andare all’asta. verdetto ribaltato in appello Sul fronte dell’altro contenzioso, però, arrivano buone notizie. È il 2002 e Di Lorenzo vince la causa di merito. Il tribunale civile gli riconosce un risarcimento di 50 mila euro. La controparte impugna il verdetto e nel luglio del 2007 (19 anni dopo l’avvio) la Corte d’appello decreta che è lui a dovere 45 mila euro all’immobiliare. Per il signor Francesco il verdetto è ingiusto perché i giudici non hanno tenuto conto di una cosa: il post scriptum sparito dalla sua lettera. L’ex dipendente delle Entrate assicura che, in primo grado, la controparte – per dimostrare che non era stato lui a ventilare per primo la richiesta di messa in mora, un dettaglio fondamentale per vincere il contenzioso – aveva prodotto la sua missiva dopo aver debitamente cancellato la coda. Per questo motivo ha presentato una denuncia di falso, un atto che, in virtù di una sentenza della Corte suprema, sarebbe determinante per l’esito del processo civile e che, invece, in appello – per il signor Francesco – sarebbe stato liquidato come puro rilievo penale, e dunque estraneo al contendere. Si potrebbe ricorrere in Cassazione, ma l’ormai pensionato Di Lorenzo non ha più un avvocato: il suo terzo legale gli ha dato il benservito dopo che, ritenendolo involontario responsabile di alcuni errori, l’ex dipendente statale aveva denunciato pure lui all’Ordine. Tenta così di contattare altri avvocati, ma gli viene risposto che per il terzo grado occorrono molti soldi. E lui non ne ha. incatenato davanti al tribunale Da allora ha provato a smuovere le acque con una denuncia in Procura e poi con alcune lettere alla presidenza della Repubblica, a quella del Consiglio e al Csm, che hanno sortito silenzi o risposte di cortesia. La casa dove vive, nel frattempo è stata pignorata. La controparte che reclama i 45 mila euro dovuti per legge ha chiesto l’esecuzione forzata e lunedì in via Manzoni busserà il consulente tecnico d’ufficio per un sopralluogo finalizzato «alle operazioni di perizia». Lui, il signor Francesco, pensionato con a carico due figli adulti senza lavoro, facendo violenza al suo pudore e alla sua dignità di funzionario di Stato, ieri ha portato la sua storia fuori dal tribunale, dove s’è incatenato esibendo il cartello «La giustizia ci ha tolto la vita». Il presidente del tribunale Ezio Siniscalchi è sceso per confortarlo, mentre il carabiniere di piantone, con una delicatezza impacciata per la commozione, non riusciva a far altro che manifestargli la sua solidarietà e a ringraziarlo per i toni educati della protesta. 19 anni per una sentenza Lui, intanto, raccontava dei torti che ritiene di aver subito e dello scandalo dei 19 anni che la giustizia civile ci ha impiegato per sfornare la decisione su un tipo di questione molto comune e apparentemente non complicatissima. E di quei tre milioni di lire che, mannaggia, se li avesse pagati subito… Ma in quel lontano ’88 – quando il Muro di Berlino era cemento e non solo storia e quando il Quartetto Cetra ancora teneva concerti – quella cifra per il signor Di Lorenzo era una questione di principio. Mai si sarebbe immaginato che quei soldi erano l’anticipo di un mare di guai. Ieri chiedeva soltanto come può salvare la sua casa. Legato a un cancello e in compagnia della sua disperazione: perché quella non gliela può p
ignorare nessuno.

da “Eco di Bergamo”, del 05-03-2009

http://www.mauronovelli.it/COG.EU/B%20Gius%205-3-09.htm#4254-26785332

SUL CONCORSO TRUCCATO PER ASPIRANTI MAGISTRATI DI MILANO-RHO

Spettabile Redazione,

Colgo l’occasione per ringraziarVi di aver pubblicato il brillante servizio sul concorso truccato per aspiranti magistrati di Milano-Rho, a cui anch’io ho partecipato, restando vivamente deluso e amareggiato per la totale assenza di serietà e controlli.

Vorrei a riguardo aggiungere la descrizione di due eventi strettamente connessi ai fatti da Voi ben ampiamente denunciati.

In un’intervista ad Italia Oggi del 24/11/2008, la dott.ssa Celentano accusò i candidati di non aver protestato con gli organi deputati al controllo ed alla vigilanza. Quanto affermato non è corrispondente al vero, atteso che prima della dettatura della traccia di diritto amministrativo del giorno 19/11/2008 (durante i famosi fatti)  io ed altri sette candidati fummo ricevuti dal Presidente della commissione Fumo per esporre i fatti accaduti. Con molta cortesia il presidente verbalizzò di proprio pugno le nostre dichiarazioni, chiedendo conferma al Comandante della Polizia Penitenziaria presente, il quale accertò la veridicità di quanto da noi affermato. Il verbale reca la sua firma, quella del segretario, del dirigente dell’uff. concorsi e degli otto candidati ricevuti. L’ottenimento di tali, ormai famose, verbalizzazioni è stato oggetto di diverse richieste scritte da parte mia sia alla IX° Commissione del C.S.M., che all’Ufficio III° Concorsi presso il Ministero della Giustizia, con la finalità di ricevere tale verbale, giusta possibilità di accesso prevista dalla l.241/90 e successive. Gli organi menzionati dopo aver lungamente tergiversato sull’oggetto delle mie istanze, alimentando un improprio equivoco; finalmente con provvedimento del 21/01/2010 hanno negato l’accesso agli atti (e quindi al documento) con una motivazione a dir poco fantasiosa. Hanno rilevato la mancanza del mio diritto in quanto non appartenevo alla “lista” degli espulsi. Quanto affermato smentisce le parole senza riscontro del dirigente dell’Ufficio Concorsi. In particolare sono circa tre mesi che sto attendendo la pronuncia del TAR Lazio adito  riunitosi in camera di consiglio il 28 aprile per deliberare una ordinanza di esibizione o negazione, senza trovare ancora alcun riscontro.

Questo vorrà pur significare qualcosa?

In secondo luogo lo stesso dirigente nel comunicarmi la decisione mi ha, credo impropriamente o con secondo fine inviato una comunicazione del CSM indirizzata al Ministro Alfano, cosa che ancora adesso stento a comprendere. Infatti mi sfugge il perché un Ministro debba essere investito del rapporto epistolare intercorrente tra il sottoscritto e l’Ufficio Concorsi.

La dott.ssa Celentano ha anche affermato, nella citata intervista, che l’ingresso del materiale illecito rinvenuto era il frutto dell’enorme quantità di volumi da verificare da parte del personale addetto. Quest’affermazione sembra una risposta a dir poco dilettantesca, in quanto il personale deputato al controllo è ben istruito ed addestrato sul come svolgere il proprio lavoro correttamente. Se non lo fosse vorrebbe significare una grave carenza organizzativa che ricadrebbe interamente in capo allo stesso ufficio concorsi. Pertanto è difficile pensare a qualche mera distrazione da parte di soggetti che da anni svolgono questo ruolo.

FT (lettera firmata da aspirante magistrato)

T.S.O., AFFARI E GIUSTIZIA. I CASI MARIANI E CROSIGNANI

IL RACKET CHE INTERDISCE.

Sane di mente o psichicamente disturbate?  Lucide testimoni di gravissimi atti criminali avvallati dalla magistratura o instabili mitomani da sottoporre contro la loro volontà a trattamenti sanitari obbligatori?
A porre il dubbio due storie, pubblicate sul mensile Casablanca. Protagoniste due donne. Di età, città, vissuti diversi, ma con un unico filo conduttore: due cause di “interdizione”, avvallate dal Tribunale di Milano che si inseriscono in vicende per nulla chiare. Avendo conosciuto personalmente sia le vittime che i magistrati civili e penali interessati ai relativi casi ci sentiamo di spezzare una lancia in favore delle prime protagoniste dell’allucinante odissea psichiatrico-giudiziaria.

Secondo il codice civile si può richiedere l’interdizione quando una persona maggiorenne si trova in situazione di abituale infermità di mente. Si applica dunque in casi di incapacità legale a compiere atti giuridici.

Una sentenza del tribunale che dichiara l’interdizione dispone da parte del giudice tutelare la nomina di un tutore, scelto di preferenza tra: il coniuge che non sia separato, il padre, la madre, un figlio maggiorenne o la persona designata con testamento dal genitore superstite, con il compito di rappresentare legalmente l’interdetto e di amministrarne il patrimonio.

E qui il terreno inizia ad essere insidioso: abituale infermità di mente? Per abituale infermità di mente, la giurisprudenza non intende solo l’esistenza di una tipica malattia mentale, ma anche la semplice presenza i un’alterazione nelle facoltà mentali, tale da dar luogo ad un’incapacità totale o parziale di provvedere ai propri interessi.

Piera Crosignani è la prima vittima di una delle due storie ai limiti di ordinaria follia. Le cronache locali della toscana parlano di lei. La vicenda è clamorosa, non fosse altro per i 150 miliardi di lire che fanno da sfondo o, più propriamente, da protagonisti. A fine anni novanta, la signora è un’anziana ereditiera. Suo nonno materno nonchè ricco industriale del settore siderurgico, le lascia un tesoro valutato circa 150 miliardi. «Sono in un incubo senza via di uscita – ripeterà in quegli anni l’ereditiera -, anche se ho contattato un amico di vecchia data, medico, ora ministro (Umberto Veronesi, ndr) e spero che qualcosa per me possa cambiare. Intanto sono stata sbattuta fuori dalla casa dove ho abitato per cinquanta anni e tutti i miei beni sono stati assegnati ad un tutore».  L’incubo di cui parla inizia il 9 giugno 1999, quando, con una sentenza del tribunale di Milano (pubblico Ministero Ada Rizzi, giudice tutelare Ines Marini – nomi da tenere presente, perché torneranno nella seconda storia), viene stabilita l’interdizione della Crosignani su richiesta dell’ex marito, un diplomatico di nazionalità austriaca. Ecco il punto: il marito va in tribunale e dice che la sua ricchissima moglie non ci sta con la testa, un giudice chiede una perizia; una udienza, una contro-perizia e il giudice decide. Tutto in venti minuti. E decide che sì, la signora Piera si trova in situazione di abituale infermità di mente, anzi, dirà la sentenza, «affetta da delirio paranoico». Il patrimonio naturalmente passa di mano, dalle sue a quelle dei tutori che si sono avvicendati [una in particolare, l’avvocato Cinzia Sarni è la moglie del magistrato di Cassazione Ersilio Secchi componente della Corte di appello di Milano (n.d.r. personaggio già tristemente noto ad altre vittime seguite dall’Associazione che dovrebbe venire trasferito per incompatibilità non potendo esercitare nello  stretto distretto dove opera la moglie] e che – stando alle accuse formulate dalla donna e da chi la assiste – non si dimostreranno all’altezza di gestirlo con prudenza e oculatezza, anzi! Pur non potendo ancora affermarlo con certezza, l’ammanco patrimoniale subito nel giro di pochi anni potrebbe arrivare fino a 35 milioni di euro. La Crosignani, da ricchissima che era, rimane senza nulla. Si trasferisce nella provincia lucchese dove amici l’accolgono e la sostengono.

La paranoica Piera, maturità classica, quattro lingue parlate correntemente, studi alla Sorbona e a Cambridge, legge Sofocle e Ibsen quando incontra lo psichiatra Gian Luca Biagini all’Asl 2 di Lucca. E Biagini contesta da subito la perizia ammessa dal tribunale di Milano: «Piera Crosignani – affermerà – è perfettamente lucida, dotata di capacità critiche non comuni, sostenuta da un elevato patrimonio culturale. E’ del tutto esente da turbe psichiche. Ha esposto con accorati accenti fatti della sua vita. Nei colloqui non ho riscontrato elementi psicopatologici di sorta». Ma allora non è matta ne paranoica? Per Biagini «E’ sana di mente, sanissima, ed è un miracolo che il suo cervello sia uscito indenne da questa sconvolgente esperienza».
E lo psichiatra di Lucca va oltre: spedisce un esposto al Ministero della Giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura oltre che segnalare all’Ordine dei medici di Milano il comportamento del perito del tribunale e la validità della perizia a suo dire inspiegabile. Silenzio e ancora silenzio. Si susseguiranno perizie su perizie, finchè la Crosignani, matta per legge da anni, viene riabilitata da una revoca della sentenza di interdizione accolta nel giugno 2005. Della serie: “ci scusi tanto, ci siamo sbagliati!”. La signora Piera Crosignani è sanissima. Happy end? Neanche per sogno.
Il giudice tutelare del tribunale di Lucca impedisce alla signora di ritornare in possesso delle sue proprietà. Sana sì, ma che non tocchi il suo patrimonio (per quello ci sono i tutori, sempre). Delle due l’una: se la Crosignani proprio non è matta, allora il suo delirio paranoico diagnosticato può anche essere, al contrario, una lucida consapevolezza di essere divenuta vittima di una organizzazione truffaldina.
Ancora sette anni fa raccontava a Il Giornale del 17 settembre 2000 come il sospetto di non essersi imbattuta in un banale errore professionale di un perito frettoloso o inesperto le fu chiaro sfogliando Famiglia Cristiana. Il settimanale riportava, in un’inchiesta dal titolo piuttosto eloquente «Soli e assediati. Le truffe agli anziani», le parole di un magistrato milanese «su piani orditi per impossessarsi dei beni di anziani soli e abbienti, di notai manigoldi, di avvocati conniventi». Peccato che quel magistrato milanese che denuncia i piani truffaldini e professionisti senza scrupolo un mese e mezzo prima abbia firmato la sua interdizione e messa nero su bianco la sua infermità mentale!

«Su, ma molto su, sanno benissimo come stanno le cose – ha pochi dubbi in proposito la signora Piera – e io che ho sessantanove anni lo so che ci vuol poco a far passare per mentecatto un vecchio indifeso. Gli avvoltoi vanno al catasto, controllano chi ha delle proprietà. E lì si decide a chi tocca. E’ un racket!».

Facciamo il punto: per mettere su un ipotetico raggiro ci vuole un’organizzazione criminale, delle complicità nelle istituzioni giudiziarie e delle connivenze nelle professioni mediche e psichiatriche. Si individua una persona economicamente dotata ma in difficoltà, per l’età o – vedremo – per contingenze diverse; si utilizzano eventuali spazi discrezionali necessariamente esistenti nella normativa per interdirsi viene di fatto in possesso del patrimonio potendone disporre tramite il tutore o l’amministratore di sostegno a vantaggio proprio (vedasi svendite a prestanome o a complici di immobili a prezzi decisamente inferiori ai prezzi di mercato). E il gioco è fatto. la vittima.

Ecco il dubbio, ecco il sospetto, l’ipotesi di reato: un istituto giuridico dai principi e presupposti sacrosanti, introdotto a tutela di chi sia incapace davvero di compiere atti giuridici e per permettere a parenti, o persone vicine, di curarne gli interessi, utilizzato per scopi criminali.

Dubbio doveroso e sospetto legittimo che, per chi viene dichiarato matto per legge, diventano certezza di un raggiro, truffa in piena regola, dramma che si trascina negli anni in un susseguirsi di risvolti kafkiani. Il tutto in un rassegnato quanto complice silenzio.

A rendere il sospetto una certezza, ci ha pensato poi lo stesso marito della Crosignani, che dopo averla fatta interdire, si pente, e rivela di aver ricevuto forti pressioni per il suo operato poco limpido. In quanti hanno tratto beneficio da questa operazione?

A non avere dubbio alcuno sull’esistenza di un vero racket delle interdizioni e a denunciarlo pubblicamente e in ogni sede è Claudia Mariani, un’altra vittima di quel meccanismo perverso e criminale che ha rovinato l’esistenza di Piera Crosignani e di chissà quanti come loro.

La incontriamo in un bar della periferia milanese, accompagnata da Gian Luca Biagini, lo psichiatra di Lucca che ha combattuto per anni al fianco di Piera Crosignani. Forte e combattiva, nonostante il logoramento di 12 anni di persecuzioni giudiziarie, la Mariani è pronta a riversare come un fiume in piena la sua vicenda, a evidenziare paragrafi, righe, parole di documenti, perizie, esposti, denunce che escono dalle copie dei fascicoli aperti sul tavolino. «E’ tutto qui: qui ci sono i nomi, i collegamenti, tutte le prove».

Laureata in filosofia con orientamento psicologico, lucidissima e agguerrita, pronta a ripercorrere ancora una volta quei dodici anni che iniziano con la denuncia di un traffico illecito, passano per processi, minacce di morte,
divorzio, lutti familiari e, non una, ma ben quattro procedimenti di interdizione. Biagini, davanti alla tazzina di caffè, annuisce, conferma, puntualizza sempre con lo sguardo benevolo rivolto verso la sua, malgrado tutto, paziente che alza e abbassa gli occhiali mentre sfoglia il raccoglitore.

Ripercorrere gli ultimi dodici anni della sua vita vuol dire consultare un migliaio di pagine fra denunce, perizie, memoriali, documentazione legale, atti processuali. Il caso fu oggetto anche di 2 interrogazioni parlamentari.

Ma partiamo dall’inizio: nel 1989 Claudia sposa Sergio Bassanese, istriano di origine e residente in provincia di Alessandria. Insieme costituiscono durante il 1992 la B.M. International, socio accomandatario lui, accomandante lei. La società, dedita alla compravendita di autoveicoli, si rivela agli occhi della Mariani sempre di più una copertura di illeciti traffici internazionali di veicoli rubati. Le richieste al marito di spiegazioni circa il giro di affari in nero che man mano scopre transitare su conti correnti anche a lei intestati ricevono come risposta minacce e intimidazioni in un crescendo sempre più esplicito e violento.

E il giro d’affari nascosto dietro la B.M. e oggetto dunque di totale evasione fiscale si rivelerà – secondo le sue ricostruzioni – di un importo compreso fra i due e i quattro miliardi di lire mensili, con un guadagno netto da parte del marito di non meno di cento milioni al mese. Non poco per una persona che si dichiarerà poco più che nullatenente.

Basta e avanza per superare paure e inquietudini per le minacce. Claudia non vuol rendersi indirettamente complice degli illeciti del marito e informa Autorità pubbliche e magistratura di quanto scoperto, continuando, su loro indicazione, a raccogliere informazioni utili. E le informazioni documentali Claudia le porta copiose alla competente Procura di Tortona; ma l’inchiesta non prosegue, rallenta, si insabbia, e si ferma. Di più: il procuratore capo Aldo Cuva, che da lì a pochi mesi verrà radiato dalla magistratura per essere accusato di aver manomesso i verbali d’interrogatorio nell’inchiesta sui drammatici fatti dei sassi dal cavalcavia di Tortona, «cercò – dirà la Mariani – di farmi passare per pazza e colpevole, impedendo in tutti i modi il proseguimento delle indagini».
Emblematico a questo proposito un documento, di cui siamo in possesso, redatto a mano dal dottor Cuva su carta intestata della Procura indirizzato al comandante della Guardia di Finanza di Tortona con il quale si suggerisce di «farsi carico… di elementi di giudizio utili, eventualmente, sotto il profilo della calunnia».

Sembrano ora trovare conferma, nei fatti, le tante minacce rivolte dal marito e rintracciabili nelle numerose denunce depositate dalla Mariani negli anni: «Non immagini neppure chi sta dietro a sto giro!!! Abbiamo amici magistrati, finanzieri, poliziotti che lavorano per noi. Ti distruggiamo fino a farti interdire e internare in un manicomio. E quando sei lì dentro ti distruggiamo fisicamente e cerebralmente».

L’aria di questa città diventa per Claudia asfissiante e insopportabile. Il Bassanese chiede la separazione ma nega, in quanto nullatenente, ogni tipo di sostentamento alla moglie.

Mentre gli organi di stampa locali e le varie associazioni a difesa del cittadino iniziano ad occuparsi di questa strana vicenda, Claudia torna a Milano dalla madre anziana e malata, nella speranza di trovare, chissà, il giudice a Berlino nel tribunale di mani pulite. Ma per lei l’appuntamento con quel giudice non è stato ancora fissato.

Trasferitasi a Milano si fa pressante la condizione della madre, l’allora ottantenne Cesarina Fumagalli già affetta da patologie psichiche che peggiorano di giorno in giorno. La mamma si trascura, squallide le condizioni igieniche e personali, non paga le bollette, accumula debiti su debiti nonostante un sostanzioso conto corrente personale che si aggira intorno ai cinquecento milioni di lire. E la figlia provvede alle spese di volta in volta.

Si rivolge dunque alle strutture sanitarie per chiedere il Trattamento Sanitario Obbligatorio (il Tso è un provvedimento amministrativo che dispone che una persona sia sottoposta a cure psichiatriche contro la sua volontà, normalmente attraverso il ricovero presso un reparto di psichiatria) nella speranza che possa essere finalmente curata. Dati gli ormai numerosi decreti ingiuntivi e azioni di sequestro a carico della Fumagalli e la sua incapacità di provvedere a se stessa, alla propria salute e ai propri beni, la Mariani richiede al Tribunale di Milano l’interdizione della madre.

E qui i fatti si susseguiranno con una sequenza travolgente che ha dell’incredibile: il Tso viene revocato e la Mariani si ritrova una imputazione per sequestro di persona da parte del PM Ada Rizzi (la ricordate? La stessa della storia Crosignani); il giudice non ammette prima, per disporla poi, la perizia medico legale; ammette che sì, la Fumagalli «soffre di disturbi ansioso-depressivi già da parecchi anni, cade in uno stato confusionale, ora rigido, ora passionale» ma non ne trae alcuna conseguenza d’ordine medico psichiatrico.

Ma non basta: ora il caso Mariani si riannoda indissolubilmente con il caso Crosignani. Perché manca ancora il colpo di scena: non solo la domanda di interdizione per la madre è stata rigettata ma è ora la stessa Mariani che si dovrà difendere da una richiesta di interdizione. Ad avallare la causa c’è ancora lei, il PM Ada Rizzi. E a proporla, assistita dall’avvocato Calogero Lanzafame, la stessa Fumagalli.

Per Claudia e per quanto riportato nelle denunce depositate poi dalla stessa Cesarina Fumagalli «l’avvocato la minacciava, continuava a chiederle soldi in nero, le faceva firmare documenti senza spiegarle il contenuto, le negava l’accesso ai documenti relativi alla sue cose». Nel 1997 la dottoressa Mariani, sollecitata anche dai giudici tutelari della madre, denuncia Lanzafame per circonvenzione e reati connessi e presenta un ricorso urgente per la limitazione della capacità di agire della madre. Ma denuncia e ricorso, assegnate come sempre alla Rizzi, vengono naturalmente respinte.

Seguono negli anni: denunce e controdenunce; perizie e controperizie (saranno addirittura 12); istanze e controistanze; citazioni in giudizio, richieste di avocazioni, richieste di sequestri cautelari, archiviazioni in un via vai di fascicoli che appaiono e scompaiono interessando tutti i piani di Procura, Tribunale e Corte d’Appello di Milano.

Siamo nel 2000 quando il sostituto procuratore Gherardo Colombo, consultata la memoria presentata dalla Mariani, inoltra con urgenza per competenza alla Procura di Brescia i procedimenti aperti.

Mentre quella Claudia Mariani che chiede l’interdizione della madre malata, presenta alla procura di Brescia, su suggerimento del presidente di corte d’Appello Seriani e del sostituto Colombo, una denuncia per abuso d’ufficio contro il PM Rizzi. Di rimando, la Rizzi cita in giudizio la denunciante Mariani per richiederne l’interdizione, in quanto affetta principalmente da «querulomania».

Sì. E’ una querulomane! Che più o meno è un malato psichico con atteggiamento lamentoso protratto che nasce dalla persuasione reale o immaginaria di aver subito un torto. Persuasione reale o immaginaria? Ma c’è una bella differenza! I reati del marito, il racket delle automobili, le minacce, le percosse, le denunce insabbiate a Tortona, la persecuzione giudiziaria della Rizzi, i corridoi di centri medici e tribunali percorsi fino alla nausea, sono reali o immaginari? Sono pezzi di uno stesso disegno retto «dalla criminalità organizzata – sostiene la Mariani supportata ormai da associazioni, professionisti e magistrati – e da potenti organizzazioni occulte» o sono il frutto della creativa fantasia di una querulomane?

Mentre Brescia dice che la denuncia alla Rizzi è da archiviare, Milano da parte sua non accoglie la richiesta perché fosse designato altro magistrato a svolgere le funzioni di pubblica accusa nei procedimenti riguardanti la Mariani per – usando un termine forense – ragioni di obiettiva inimicizia.

Il 4 aprile 2007 presso il Tribunale di Milano all’udienza in appello per il giudizio di interdizione intentato contro la dottoressa Claudia Mariani dal pm Ada Rizzi, la corte ha preso atto della perizia del tutto favorevole redatta dal Consulente tecnico d’ufficio dottor Vittorio Boni. Sì, ha vinto lei. Il rendez-vous con il giudice a Berlino Claudia l’ha avuto. E’ ufficialmente sana di mente. Come lo è la Crosignani.

Dire che non sia stato facile pare davvero inappropriato! Anzi! Mancano però ancora troppi fili da riannodare, troppe vicende da chiudere. Andiamo a ritroso:

– Inchiesta giacente presso il Tribunale di Tortona: dodici anni sono più che sufficienti, per chi avesse preso parte al presunto racket delle auto rubate, per occultare ogni prova, ogni traccia, ogni piccola evidenza. L’ultima traccia che abbiamo dell’inchiesta risale al duemila. Pierluigi Vigna, ai tempi Procuratore nazionale Antimafia, dispone che i fascicoli passino da Tortona alla Dia di Torino dove, dicono, non ci sarebbero elementi per procedere. Basta come risposta a chi ha avuto il coraggio di denunciare tali reati, subendone – come abbiamo documentato – minacce di ogni sorta, fino a una possibile persecuzione giudiziaria.

– Processo per sequestro di persona a seguito della richiesta del TSO per la madre presso il Tribunale di Milano: la Mariani, pur contestando non pochi atti illegittimi da parte del pm Rizzi, è stata giudicata colpevole e le è stata inflitta una pena di due anni. La sentenza del processo di Appello ha confermato la colpevolezza pur con la sospensione della pena. All’inizio di quest’anno la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza.

– Caso Cesarina Fumagalli: in questo caso la parola fine non viene scritta da una sentenza ma dalla morte della signora nel 2003 Poco prima fu la Fumagalli a chiedere alla figlia di accompagnarla allo studio di Lanzafame per consegnare una revoca di mandato. Revoca che, pur spedita per raccomandata dopo il rifiuto dell’avvocato di ricevere congiuntamente la Fumagalli e la Mariani, venne disattesa da Lanzafame che ha continuato ben oltre a rappresentare la sua ex assistita.

Questo quanto è stato possibile ricostruire. Rimangono, però, troppe domande che aspettano una risposta:

Gli immobili svenduti del patrimonio Crosignani a chi sono andati?
C’è un collegamento fra le minacce dell’ex marito della Mariani e il seguente calvario giudiziario?
C’è davvero un racket che annovera avvocati, giudici e pubblici ministeri, psicologi asserviti o conniventi con poteri criminali?

Ma soprattutto: quante storie, quanti casi Crosignani o Mariani, aspettano di essere raccontati?

di Antonella Serafini

Questa inchiesta è stata pubblicata sul mensile dell’Associazione Antimafia Casablanca, che rischia di chiudere per “dimenticanze” dello Stato, e perchè forse l’antimafia è concepita solo se si parla di coppole e lupara.

http://www.censurati.it/2007/08/05/il-racket-che-interdice/

Giudice fannullone da 5 anni assolto perché la moglie l'ha lasciato.

Da Milano a Brescia giustizia alla rovescia. E’ la storia di Giuseppe Maria Blumetti, giudice civile del Tribunale di Milano. Tutto ha inizio, più o meno, una diecina di anni fa, quando sulla sua scrivania finisce una causa di separazione, apparentemente non diversa dalle tante che ogni anno affluiscono presso il locale tribunale . Il magistrato era chiamato a stabilire sulla base di una perizia il valore di alcuni beni attribuiti da una precedente sentenza al coniuge separato che la di lui moglie aveva fatto sparire. In altre parole, l’attore non potendo mettere le mani su quei beni, chiedeva di poterne almeno monetizzare il prezzo. Nel 2001, inizia la causa per l’accertamento del valore. Nel 2003, viene depositata la perizia (che fissa la cifra di 230 mila euro). Poi, il buio. Ma una norma come ben sanno molti avvocati e  malcapitati utenti che hanno cause spesso spinose presso il locale tribunale. Il giudice avrebbe dovuto depositare entro 30 giorni la sua decisione. Ma siccome siamo a Milano, dove tutto accade, quei trenta giorni possono diventare anche svariati anni, senza che nessuna autorità censuri il giudice. Ci sono casi in cui la sentenza non è mai arrivata. Il difensore sollecita ovviamente risposta dai superiori del magistrato, ma senza soritre alcun risultato. Fino a quando il legale non decide nel 2008, dopo 5 anni di attesa, di presentare un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura (che avrebbe sospeso la toga dalle funzioni) e una denuncia penale. E così il giudice «lumaca» finisce a processo. Quel che accade davanti al collegio della I sezione del tribunale di Brescia, però, ha il sapore del grottesco. La prima udienza, infatti, è anche l’ultima. Al pubblico ministero e all’avvocato di parte civile, che si attendevano un’udienza «filtro» per iniziare a discutere del caso, viene comunicato che la vicenda va affrontata senza perdere altro tempo, che si procede all’immediata discussione, che ci sarà la camera di consiglio e la sentenza. È il 18 marzo 2010. Il giudice-imputato spiega al collegio che la ragioni di quel ritardo erano dovute al suo stato di prostrazione psichica (e a riprova porta due perizie), e che le sue difficoltà l’avevano portato a trascurare qualcosa come 300 fascicoli che gli erano stati affidati. Non esattamente un’attenuante. Avrebbe potuto prendersi un periodo di malattia, un’aspettativa, ammettere di non essere in grado di fare fronte al carico di lavoro e passare la mano a qualche collega. Avrebbe potuto – extrema ratio – persino dimettersi. E invece no. Ha accumulato ritardi su ritardi. E pace a chi chiede alla giustizia di essere – se non rapida – almeno decente. Il Tribunale, però, l’ha assolto per mancanza dell’elemento psicologico del reato. Cioè non c’è il dolo, e – soprattutto – l’imputato era afflitto da una condizione che gli impediva sì di assolvere le sue funzioni, ma non di vedersi accreditato lo stipendio ogni mese, per dodici mesi, nei cinque anni in cui non ha fatto nulla. Ma se non poteva lavorare, per quale ragione non l’ha responsabilmente ammesso prima di mettere un’altra zavorra al sistema? Tant’è, assolto. Subito. Nel giro di una mattinata. In due ore. E poi si dice che non esiste il processo breve.

http://www.ilgiornale.it/interni/giudice_depresso_puo_fare_fannullone/14-04-2010/articolo-id=437541-page=0-comments=1

A proposito del concorso in magistratura di Rho

Ho molto apprezzato il vostro articolo sul concorso a 500 posti per magistrato ordinario. Sono uno dei partecipanti e da quasi 2 anni invio mail a giornali, ma nessuno vuol dare risalto a quanto accaduto a milano. Dovete sapere che noi abbiamo fatto l’accesso agli atti ed abbiamo scoperto che i temi idonei sono fatti malissimo. C’è gente che parla di cose che non c’entrano nulla con la traccia. ad. esempio nel tema di amministrativo c’è un vincitore che ha parlato di pubblico impiego, fra l’altro concludendo che in materia di pubblico impiego vi è la giurisdizione di merito del Tar. a parte il fatto che non c’entra niente con la traccia che chiedeva dei contratti di servizio, ma comunque è un errore tremendo anche se la traccia fosse stata sul pubblico impiego. Sono pieni di errori e segni di riconoscimento palesissimi. c’è uno che nel tema di amministrativo si mette a parlare di patteggiamento!!! Dateci una mano perchè è assurdo che la cosa finisca così… io ho studiato 8 anni esclusivamente per questo concorso. ho preso 12 a civile e 15 a penale, ma non mi hanno promosso il tema di amministrativo che era fatto molto meglio di quello di quasi tutti gli idonei. Aiutateci in questa battaglia…
grazie

Fernando Gallone