Sono 15.624 i minorenni collocati in case-famiglia. 16.767 quelli dati in affido familiare.
UN BUSINESS DA PIU’ DI UN MILIARDO D EURO…
Barbara e Patrizia si sono ritrovate il 2 ottobre del 2009, in una mattinata di pioggia. Barbara, 54 anni, vive in Toscana: ha mento affilato e parole decise. Patrizia, 35 anni, ha la stessa forma del viso e uguale risolutezza. Madre e figlia non immaginavano di assomigliare tanto l’una all’altra. Non si vedevano dal 1976: dal giorno in cui Patrizia venne tolta a Barbara per essere chiusa in un istituto e poi data in adozione. Si sono riabbracciate dopo 33 anni. Per scoprire di essere unite da quel mento affilato e da un’unica sorte. Perché anche a Patrizia hanno portato via un figlio: Davide, di sette anni. “Gliel’hanno sottratto ingiustamente, come successe a me” dice Barbara.
Nel soggiorno di una villa spersa nella campagna veneta, guarda la sua figlia naturale con un misto di rabbia e di dolcezza: “Questa volta, almeno, combatteremo insieme” le promette. Legate dallo stesso destino. Il destino che, dicono gli ultimi dati ufficiali, oggi travolge più di 32 mila minorenni. Il più delle volte allontanati dalle famiglie per motivi giustificati, come gli abusi sessuali, i maltrattamenti o l’indigenza.
Altre per ragioni fumose e impalpabili. Negli ultimi dieci anni il loro numero è aumentato del 29,3 per cento. Più della metà finisce in affidamento temporaneo ad altre famiglie. Il resto in quelli che prima erano chiamati istituti, ma dal 2001 sono stati più formalmente ribattezzati servizi residenziali: oltre un migliaio di comunità che ospitano 15.624 ragazzini.
Un numero enorme, che
costa allo Stato mezzo miliardo di euro all’anno solo in rette giornaliere. Ma la cifra, calcolano vari esperti di giustizia minorile,
andrebbe più che raddoppiata. Oggi, però, è tutto il sistema a essere sistematicamente messo in discussione. Battagliere associazioni e
libri-verità parlano di
“bambini rubati dalla giustizia”. Raccontano di
assistenti sociali troppo interventisti, di psicologi disattenti, di una
magistratura flemmatica, di interessi economici. E di errori giudiziari sempre più frequenti. Come quello in cui sono incappati due
fratellini di Basiglio, ricco paesino alle porte di Milano. Il più grande ha 14 anni, la sorella dieci.
Il 14 marzo 2008 la polizia locale li preleva da casa e li porta in due comunità protette.
A scuola, una maestra ha trovato
un disegno che li descrive mentre fanno sesso insieme. Viene attribuito alla bambina. È invece l’atroce scherzo di una
compagna di classe. È stata lei a fare quell’allusiva vignetta: lo conferma il
perito grafico del tribunale, che però viene nominato solo dopo 41 giorni. Anche a causa di questo inspiegabile ritardo i ragazzini trascorrono più di due mesi in comunità.
Mesi di angosce: il più grande, per la sofferenza, perde 9 chili (qui intervista
VIDEO integrale). L’avvocato che si è battuto per fare affiorare la verità è un sardo con baffoni e occhi neri:
Antonello Martinez. Vive anche lui a Basiglio, in una casa poco distante da quella dei fratellini. Per due mesi il legale si danna l’anima: fino a quando i bambini non tornano dai genitori con molte scuse.
E fino a ottobre, quando la procura di Milano non chiede il rinvio a giudizio per la preside della scuola, due maestre, uno psicologo e un’assistente sociale del comune. L’accusa è “falsa testimonianza “. L’udienza preliminare è fissata per il 21 gennaio.
Un disegno malinterpretato, esattamente come quello che nel 1995 avvia la macchina giudiziaria
nel caso di Angela L.: la sua storia è raccontata nel libro, pubblicato dalla Rizzoli,
Rapita dalla giustizia. Il padre di Angela viene accusato di abusi sessuali:
un falso da cui la Cassazione lo scagionerà completamente nel 2001. Ma la figlia, di appena sei anni, prima viene reclusa in due centri d’affido temporaneo per quasi 36 mesi; poi è data in adozione a un’altra famiglia.
Angela tornerà dai genitori solo nel maggio 2006: a quasi 18 anni, ben
dieci dopo il suo “rapimento legalizzato “. Uno sbaglio tragico e clamoroso.
Tanto che la
Corte europea per i diritti dell’uomo nell’ottobre 2008 ha condannato lo Stato italiano a risarcire la famiglia: 80 mila euro per un “buco esistenziale” durato un decennio.
Della denuncia di casi come quelli di Angela L. e di Basiglio l’avvocato
Martinez ha fatto una battaglia. Da quando si è occupato dei due fratellini, ha ricevuto più di 700 segnalazioni: madri e padri disperati, disposti a tutto pur di riavere indietro i loro figli.
È diventato presidente dell’associazione Cresco a casa: “Tutti” accusa “denunciano lo stesso scandalo. I nostri figli sono nelle mani degli assistenti sociali. Scrivono: “I genitori non sono idonei”. Poi
mandano la relazione a un magistrato che, senza troppe verifiche, adotta un provvedimento provvisorio. Quello definitivo arriva, quando tutto va bene, anni dopo. Ma i bambini intanto sono usciti di casa”.
Il caso di Basiglio è illuminante: alle 9 di mattina il dirigente scolastico avverte i servizi sociali, che inviano un telefax al tribunale dei minorenni di Milano. Passa solo qualche ora: il giudice dispone che i bambini vengano allontanati dalla famiglia. Di sera, la polizia locale esegue. Per inciso, nessuno aveva mai chiesto spiegazioni: né ai ragazzini né ai genitori.
Martinez si infervora, è seduto in una saletta del suo studio di Milano: divani di pelle e boiserie alle pareti. “Questi sono veri sequestri di Stato” prosegue concitato. E attacca: “Ogni giorno vengono portati via 80 bambini. Li chiudono in un centro protetto per anni, e costano allo Stato in media 200 euro al giorno”.
Una cifra che farebbe lievitare considerevolmente la spesa ufficiale per l’accoglienza, stimata in mezzo miliardo di euro. Basta fare due calcoli: 200 euro al giorno fanno un totale di 73 mila euro all’anno per ogni minorenne. Che moltiplicati per i 15.624 ospiti dei centri significa oltre 1,1 miliardi di euro: più del doppio di quanto riveli la cifra in mano ai ministeri, probabilmente troppo prudente.
La gente comincia a essere diffidente. Ci accusano di avere convenienze economiche. Attacchi assurdi: che interesse potremmo mai avere a collocare un bimbo in una struttura piuttosto che in un’altra?”. Povero ammette che qualche caso di disonestà ci può essere, “come in tutte le professioni”: “Ma noi siamo dipendenti pubblici” aggiunge. “Il nostro lavoro è sempre subordinato a quello della magistratura, e quindi anche alle sue eventuali lentezze”.
Per indagare su questa presunta indolenza bisogna entrare nel
tribunale dei minorenni di Roma, il più grande d’Italia. Da aprile è presieduto da un magistrato d’esperienza:
Melita Cavallo.
Nei corridoi del palazzo sul lungotevere che ospita gli uffici si narra del suo interventismo. Appena insediata,
Cavallo scopre che un collega ha 1.600 fascicoli arretrati: se ne intesta la metà e “consiglia” al collega il pensionamento. “La permanenza nelle casefamiglia è eccessivamente lunga” dice la presidente. “Un tempo ragionevole è un anno, non cinque, come avviene adesso.
Noi magistrati stiamo diventando i notai dello sfacelo dei minori: solo quando sono stati distrutti psicologicamente li diamo in adozione”. Cavallo insiste, parla di “assistenzialismo spinto”: “Si spendono un sacco di soldi” continua.
“Faccio un esempio: tre fratelli rimasti in comunità cinque anni sono costati 800 mila euro. Non era meglio, allora, dare un alloggio o un lavoro al padre? Avremmo salvato una famiglia. Invece abbiamo negato l’infanzia ai figli. E oggi i genitori sono più divisi di prima”. Anche le verifiche preliminari spesso sono deficitarie, ammette il magistrato: “Alla prima decisione si arriva con pochi elementi in mano. C’è quasi un rifiuto ad averne altri. P
erché i giudici ormai sono molto condizionati e sempre più prudenti“. O, al contrario, troppo interventisti.
La
Cassazione ha appena confermato l’”ammonimento” già inflitto a un sostituto procuratore del tribunale dei minorenni di Roma dal Consiglio superiore della magistratura. Nel dicembre del 2006, il pm aveva ordinato che i carabinieri prelevassero due bambini da casa della madre, per portarli in quella del padre. Adesso però i giudici della suprema corte scrivono: “L’interpretazione delle norme non può costituire un alibi per tenere comportamenti anarchici “.
Insomma, quell’allontanamento è stato “un provvedimento abnorme “, per la Cassazione.
Cavallo non commenta, ma aggiunge: “Purtroppo è diventata tesi diffusa che togliamo i bambini ai poveri per darli ai ricchi“. Questa tesi, in realtà, è sempre più frequentemente sconfessata dai fatti: anche molte famiglie abbienti finiscono nel girone degli allontanamenti. Lidia Reghini di Pontremoli, 51 anni, discende da un nobile casato toscano e vive a Roma. Ha una ragazzina di 13 anni, che ha studiato nei migliori collegi della capitale. È stata affidata a un istituto religioso nell’aprile del 2008. “Per i giudici l’ho voluta mettere contro suo padre, il mio ex convivente, che era stato arrestato per spaccio di cocaina” racconta. Dopo avere deciso l’allontanamento della madre, il tribunale dei minorenni manda gli atti alla procura ordinaria: ipotizza che la madre, con “una condotta criminosa”, abbia inflitto sofferenze psichiche alla figlia. Un’accusa abnorme.
Archiviata dal giudice nel maggio 2008, su richiesta dello stesso pubblico ministero. Ora la donna ha denunciato l’assistente sociale che aveva seguito il suo caso: la procura di Roma ha aperto un’indagine. “Mia figlia chiede solo di tornare a casa. Vuole fare una vita normale, come quella di prima ” spiega, mentre si alza dal divano a fiori verdi del soggiorno per preparare un tè. “Ogni giorno mi domando come mai sono finita in questo gorgo: non esiste alcun motivo, se non l’accanimento personale. O un interesse economico”.
Che esistano o meno tornaconti, una cosa è certa: tenere un bambino in una “comunità protetta” costa molto. E non assicura quella stabilità affettiva che potrebbe offrire una famiglia.
Anche per questo motivo
il governo sta cercando in ogni modo di incentivare l’affido familiare. “Porterebbe un grande risparmio economico e soprattutto maggiore benessere per i minori”
dice Eugenia Roccella,
sottosegretario al Welfare. “La soluzione ideale sarebbe chiudere le comunità e collocare temporaneamente tutti i minori in altre famiglie: cosa che oggi è impensabile”.
Un’utopia, appunto. “Il problema è che sono pochi i genitori disponibili” dice il pediatra veronese
Marco Mazzi, presidente dell’Associazione famiglie per l’accoglienza: “Su dieci richieste d’affido, riusciamo a dare risposta solo a due”. Una scelta fatta da poche coppie, e di buonissima volontà: ricevono qualche centinaio di euro al mese per un bambino che comunque alla fine non potranno mai tenere con sé.
“E
bisogna garantire anche i contatti con i veri genitori, che devono vedere i minorenni periodicamente” chiarisce Mazzi. Le cose, però, spesso vanno diversamente.
Valentina Timofiy, un’ucraina bionda arrivata in Italia come badante, da più di tre anni non vede la figlia dodicenne. È stata affidata “provvisoriamente ” a una famiglia di Genova: per scoprirlo ha dovuto assoldare un investigatore privato. Nonostante molte lacrime e mille telefonate, non le hanno mai voluto dare informazioni.
Timofiy, 41 anni, oggi vive a Tortona, in provincia di Alessandria, assieme al suo nuovo compagno. La casa è piena di ninnoli e di foto della figlia. “Le hanno fatto il lavaggio del cervello ” accusa.
La donna ha la sofferenza stampata sul volto. “L’ultima volta che l’ho vista mi ha domandato: “Mamma, perché mi hai dimenticata?”. Le ho spiegato che io penso a lei ogni minuto della giornata. Ma che mi vietano d’incontrarla“.
Timofiy comincia a piangere. Ha anche tentato di buttarsi da una finestra, ma è stata salvata dal convivente. Ormai vive senza la figlia da quattro anni. Alla fine di ottobre il tribunale dei minorenni di Milano ha deciso… di non decidere: l’ennesimo provvedimento temporaneo. I giudici hanno interrogato anche la coordinatrice del servizio sociale degli stranieri di Milano: “La signora è una madre attenta, in grado di occuparsi della figlia” ha assicurato. “Ma non è stata mai aiutata né sostenuta dai servizi sociali”. Così il tribunale ha stabilito: la madre deve riprendere a incontrare la figlia.
Quella figlia che in tre anni ha visto soltanto una volta, qualche settimana fa. Nascosta nella sua auto, è riuscita a scorgere una ragazzina con i capelli e gli occhi neri: usciva da scuola e dava la mano a una madre. Che però non era lei.
Chi finisce in queste comunità? Mancando dati nazionali, si può fare riferimento a quelli della Lombardia: per il 34 per cento sono ragazzi dai 15 ai 17 anni; il 28,1 per cento ha dagli 11 ai 14 anni; il 19,4 dai 6 ai 10 anni. Le percentuali sono simili in Veneto, dove i minori fuori famiglia sono quasi 1.700. L’età media è quindi piuttosto alta. Anche perché la permanenza in queste strutture è lunga: a Milano il 53 per cento ci resta più di due anni. Questo significa che centinaia di migliaia di euro vengono spesi per ogni ragazzino. Ciò che accade alla fine di questi allontanamenti forzati è sorprendente: in Piemonte, per esempio, quasi la metà torna a casa.
C’è un altro dato che inquieta: quasi il
77 per cento dei minori viene allontanato per “metodi educativi non idonei” e per l’”impossibilità di seguire i figli”. “Motivi soggettivi, non reali come i maltrattamenti o l’abbandono ” denuncia
Gian Luca Vignale, consigliere regionale del Pdl. Il Piemonte, chiarisce, spende 35 milioni di euro all’anno per mantenere 1.179 minorenni nelle comunità. “Mentre solo un terzo di questi soldi viene stanziato per sostegni alle famiglie” considera Vignale.
Il costo delle rette spesso soffoca i magri bilanci dei comuni, che a volte arrivano a chiedere un contributo ai genitori cui sono tolti i figli.
Negli anni Novanta, alla famiglia di Angela L. venne recapitata una
richiesta d’indennizzo di 60 milioni di lire per i 16 mesi trascorsi dalla bambina nel centro di affido: l’equivalente di quasi 2 mila euro al mese.
Un paradosso in cui è incappata pure Antonella Causin, che vive a Santa Maria di Sala, nel Veneziano. Nello studio del suo avvocato, Luciano Faraon, sventola indignata una lettera che le è stata inviata la scorsa settimana.
I suoi figli, di 12 e 8 anni, vivono dal febbraio del 2007 in due diverse case-famiglia. Il comune ora le chiede “il pagamento delle spese per la permanenza nelle strutture “. “Vogliono la mia busta paga” spiega la donna, 44 anni, sgranando gli occhi azzurri. “Devo pure dargli soldi per avermi rovinato la vita”. Le peripezie della donna cominciano nel 2005. Si separa dal convivente, chiede l’affidamento dei figli. Viene sentita dagli psicologi: racconta che l’uomo, un maresciallo della Guardia di finanza, è finito in strani giri. È violento, distratto.
Non le credono: per i consulenti tecnici è soltanto “una madre esasperata “. Così i ragazzini sono dati al padre. Dopo dieci mesi, però, le accuse della donna diventano reali: l’ex compagno viene arrestato per spaccio di droga. “Da quel momento è cominciato l’inferno” racconta Causin. “Il maschio ha cambiato quattro famiglie e due scuole in pochi mesi. Come fosse un pacco postale”. Anche i genitori della donna avevano dato la loro disponibilità a occuparsi dei nipoti. “Invece li hanno sempre tenuti lontano da loro” racconta la signora. “Addirittura li hanno accusati di un avvicinamento indebito: ma erano andati in chiesa per la prima comunione del più grande”. La storia dimostra quanto a volte sia lenta la giustizia minorile.
In Italia, più di 32mila bambini vengono chiusi nelle comunità o dati in affido.Il
tribunale di Venezia ha disposto l’allontanamento dei due bambini nel dicembre del 2005, con un provvedimento provvisorio. Quattro anni dopo non solo non è stata presa alcuna decisione definitiva, ma la macchina giudiziaria è ripartita.
L’avvocato della signora Causin ha denunciato i consulenti del tribunale: il legale sostiene che avrebbero falsificato i test e le dichiarazioni della donna. Il giudice ha nominato una nuova psicologa. Che in sei mesi ha incontrato la donna e il suo ex compagno appena quattro volte.
Le critiche a periti tecnici, assistenti sociali e magistrati sono sempre più dure. Il criminologo
Luca Steffenoni sui casi di malagiustizia minorile ha appena scritto un libro,
Presunto colpevole (editore Chiarelettere).
“I tribunali hanno appaltato tutto all’esterno” sostiene. “Il processo è uscito dall’alveo delle prove, per trasformarsi in approfondimento psicologico. Gli assistenti sociali hanno diritto di vita e di morte sulle persone.
Basta uno screzio tra due coniugi per far nascere patologie incurabili, che legittimano la sottrazione dei figli”. Accuse cui ribatte
Graziella Povero, assistente sociale di Torino e presidente dell’
Asnas, storica associazione di categoria: “C’è un’aggressione continua alle nostre decisioni. Dicono che rubiamo i bambini.
Antonio Rossitto
Venerdì 13 Novembre 2009