Archivio Autore: Palau Giovannetti Pietro - Pagina 9

Imperia, arrestato il presidente del Tribunale

Imperia, arrestato il presidente del Tribunale

Secondo i giudici, ha favorito nei suoi giudizi alcuni uomini ritenuti vicini alla ‘ndrangheta. L’indagine, coordinata dai magistrati di Torino, va avanti da alcuni mesi. A gennaio, era già finito in carcere il suo autista, considerato l’intermediario

Gianfranco Boccalatte, presidente del Tribunale di Imperia, da mesi al centro di un’inchiesta per corruzione

Denaro in cambio di favori carcerari. E un accusa gravissima (corruzione in atti di giudiziari) che oggi ha portato agli arresti domiciliari Gianfranco Boccalatte, 67 anni, presidente del Tribunale di Imperia. Per la procura, l’alto magistrato ha incassato mazzette da uomini vicini alla ‘ndrangheta. E in cambio, stando all’accusa, si è dato da fare per alleggerire la detenzione a carico di personaggi sui quali pesa l’ombra delle cosche.

La Procura di Torino ha ottenuto riscontri solidi contro il giudice ligure e contro altre persone indagate, raggiunte oggi da misure cautelari. In mattinata sono stati arrestati due pregiudicati di origini calabresi, Nicola Sansalone, 49 anni, indagato per millantato credito, e Leonardo Michele Andreacchio, 61 anni, accusato di corruzione. Un altro provvedimento cautelare è stato recapitato in carcere, alle Vallette di Torino, a Giuseppe Fasolo, 48 anni, autista del giudice. Fasolo è stato arrestato il 20 gennaio scorso per corruzione in atti giudiziari e millantato credito. Contro di loro esistono “gravi indizi di colpevolezza”, indizi che gettano luce sulle infiltrazioni malavitose nel territorio e nelle istituzioni liguri.

Proprio sulla criminalità organizzata nel Ponente stava indagando il procuratore di Sanremo Roberto Cavallone quando, da una serie di intercettazioni telefoniche e ambientali, emerse il nome di Boccalatte. Dall’ascolto di alcuni pregiudicati erano emersi dei legami con Fasolo, che affermava di avere buoni agganci con i giudici del Tribunale di sorveglianza di Genova proprio grazie al magistrato di Imperia. E non solo. C’erano stati anche altri contatti diretti con lo stesso Boccalatte, che avrebbe potuto fare qualcosa per migliorare le condizioni di detenzione di alcuni malavitosi. In molte occasioni era l’autista a fare da intermediario per le richieste di alcuni pregiudicati, comunicate al giudice durante i tragitti in macchina.

Alla scoperta di questi fatti gli atti sono stati trasmessi alla Procura di Torino, competente per le indagini sui magistrati liguri. Boccalatte è stato interrogato dal procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli e dai sostituti Giancarlo Avenati Bassi e Marco Gianoglio il 20 gennaio scorso, giorno in cui avrebbe dovuto presiedere cinque udienze di sorveglianza. Poi è stato interrogato di nuovo nei giorni seguenti, così da potere mettere a confronto la sua versione con quella di Fasolo. Nel frattempo gli inquirenti hanno anche voluto far luce su molte decisioni del presidente del Tribunale di Imperia, non solo in merito alle misure cautelari verso i pregiudicati, ma anche sulle sentenze pronunciate in processi civili (fallimenti, questioni ereditarie) che riguardano alcuni malavitosi e le loro famiglie.

Dalle dichiarazioni degli indagati e dalle intercettazioni sono emersi i “gravi indizi di colpevolezza”, rende noto Caselli in un comunicato. Boccalatte, Fasolo e Sansalone avrebbero fatto capire a un detenuto di avere delle buone entrature con un magistrato del tribunale di sorveglianza di Genova, promettendogli la detenzione domiciliare in cambio di soldi. Un altro episodio simile è contestato ancora a Fasolo e Sansalone. Andreacchio avrebbe invece promesso a Boccalatte del denaro nel caso in cui il giudice avesse adottato un provvedimento di sorveglianza favorevole.

Il Consiglio superiore della Magistratura ha già sanzionato il giudice il 14 aprile scorso decidendo per il suo trasferimento d’ufficio alla Corte d’appello di Firenze su richiesta della Procura generale della Corte di Cassazione. Invece Fasolo, che in quanto autista di un magistrato è dipendente del Ministero di Giustizia, non era mai stato allontanato dopo una condanna per ricettazione.

Per i magistrati torinesi Andreacchio e Sansalone non sono gli unici ad aver beneficiato dei favori di Boccalatte e per questo motivo l’inchiesta andrà ancora avanti.

 

da: ilfattto.it

 

Ruby Gate's Day Sit-in 31-05-11 Palazzo Giustizia Milano

PARTECIPIAMO IN MASSA AL «RUBYGATE’S DAY SIT-IN» !

PER MANDARE A CASA NANO
PIDUISTA E BIANCANEVE MORATTI!

Scendiamo avanti ad ogni Tribunale in ogni parte d’Italia per fare sentire la nostra voce, difendere la legalità e la libertà di espressione del pensiero. A fianco della parte sana della magistratura per affermare il principio di  uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e il diritto ad una giustizia effettiva libera dai poteri occulti e dalle massomafie. Per rendere onore a Falcone, Borsellino e a tutti coloro i quali hanno donato le loro vite per recidere lo stretto connubio tra mafia, massoneria e istituzioni, quale collante del controllo politico-economico-mafioso del territorio.

Movimento per la Giustizia Robin Hood – Avvocati senza Frontiere

www.associazioni.milano/robinhood.it

www.avvocatisenzafrontiere.it

www.lavocedirobinhood.it

 

 

Per denunciare le vere ingiustizie e chiudere una volta per sempre con questa classe politica corrotta e massomafiosa, smascherando i veri giudici collusi e asserviti agli interessi delle cricche, come quelli che nei giorni scorsi hanno assolto Dell’Utri e il boss mafioso Vincenzo Virga ‘perché il fatto non sussiste‘, dopo quattro giudizi di merito e due di legittimità, tanto che il difensore della vittima dell’estorsione, “sconvolto per il verdetto”, ha annunciato che si rivolgerà per la terza volta alla Cassazione.

 

Per affermare che la Società civile ha ormai compreso che dalla fine del novecento la criminalità moderna non è più solo mafiosa, ma politica, economica, istituzionalizzata, collegata all’alta finanza, ai servizi segreti, alla massoneria internazionale, ai circoli esclusivi del potere, alle multinazionali del crimine, che hanno saputo usare le leggi della politica e dell’economia, prive di regole etiche, assoggettando governi e popoli, a cui impongono la loro subcultura dell’ideale del profitto e dell’associazionismo a delinquere di stampo lobbystico, produttivi solo di morte, distruzione, miseria, sfruttamento, riduzione in schiavitù e assenza di libertà.

 

INVITO A TUTTI COLORO CHE NON POTRANNO VENIRE A MILANO

 

1. ORGANIZZATEVI!

Siete in tanti a non poter essere con noi a Milano, fisicamente. Se siete in altre città organizzate iniziative collegate davanti ai vari Tribunali d’Italia: flash mob, sit-in o quant’altro il vostro senso civico e la vostra fantasia suggeriscano. Chiediamo solo che siano pacifiche e condotte in forma civile, come risposta alla gretta arroganza del potere e alla logica dello scontro che cercano di imporci.

2. RICHIEDETECI LE MAGLIETTE

Con la scritta “Io lavoro tu Ruby” e il logo di Robin Hood, da indossare il giorno del sit-in ! Chiunque potrà anche farle stampare scaricando dal ns. sito il file a breve  in rete su FACEBOOK;

3. INVIATECI

Un riscontro della vostra esperienza, che sia una fotografia di voi con la maglietta o il semplice logo o di un flash mob o un resoconto.  I vostri volti e il vostro sostegno sono il simbolo di una voce ancora viva e vitale, che questo regime di malaffare non riuscirà mai a spegnere né nessuna autoassoluzione potrà mai convincere! L’evento è taggato su facebook e twitter alla pagina di Avvocati Senza
Frontiere.

 

Vi preghiamo dar conferma della Vostra adesione: adesione Facebook.com

Per conoscere le ns. attività: www.avvocatisenzafrontiere.itwww.associazioni.milano/robinhood

Scarica e diffondi il video dell’aggressione della Digos  al Presidente dell’Associazione Robin Hood davanti al Tribunale di Milano per far capire quale sia il vero volto del potere in Italia : link Youtube.com

Pietro Palau Giovannetti_ _Il contestatore_ Vergognatevi buffoni!! [www.keepvid.com]

 

 

ENNESIMO CRIMINE GIUDIZIARIO: CHIUDIAMO TUTTI I LAGER DENOMINATI "OSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI"

Carceri: ‘Stop Opg’, morto per soffocamento giovane internato ad Aversa

Roma, 10 mag. (Adnkronos) – ”Ieri nell’Opg di Aversa si e’ consumata l’ennesima tragedia.

Un giovane quasi trentenne e’ morto per soffocamento”. E’ quanto si legge in una nota del comitato ‘Stop Opg’, per l’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari. ”Si aggiorna cosi’ -spiega la nota- il triste bollettino del 2011, che registra ben 4 decessi in poco piu’ di 4 mesi, tre dei quali per suicidio. Un dramma immerso in un silenzio disarmante”. ”Fatti come questo -sottolinea il comitato ‘Stop Opg’- per il contesto in cui avvengono e per le gravi ombre che gettano sulle istituzioni, non possono essere letti come tragiche fatalita’: gli Opg sono luoghi di morte, di sofferenza e di privazioni, e non e’ piu’ possibile rinviare interventi risolutivi. Il comitato StopOpg, nato da un folto cartello di associazioni e sindacati che operano nei settori della salute mentale e penitenziario, chiede semplicemente di applicare la legge e provvedere all’immediata chiusura di tutti i 6 Opg italiani”. ”Ma non basta: lo Stato italiano -si legge ancora nella nota del comitato- ha dimostrato tutta la sua inerzia, le istituzioni la loro inadeguatezza. Basti pensare che da quando con un apposito Dpcm e’ stata stabilita la chiusura delle strutture, il numero degli internati e’ inspiegabilmente lievitato, passando da meno di 1.300 internati del 2007 agli oltre 1.400 di oggi. Si assumano iniziative straordinarie, senza escludere la nomina di commissari ad acta che, a partire da Aversa, attraverso la definizione di una vera e propria road map, indichino tempi certi per la chiusura, dando solide garanzie sul reinserimento e il sostegno agli internati nel loro percorso di recupero”.

(10 maggio 2011 ore 15.50)

LIBERIAMO EVA POLLAK! TSO E RICOVERI GIUDIZIARI PSICHIATRICI=GIUSTIZIA CRIMINALE

 
LIBERIAMO EVA POLLAK!
TSO E RICOVERI GIUDIZIARI PSICHIATRICI=GIUSTIZIA CRIMINALE
di Pietro Palau Giovannetti (Presidente Avvocati senza Frontiere)
 
Ho avuto modo di conoscere personalmente la Dr.ssa Eva Pollak qualche mese fa Roma, insieme alla Sen. Francesca Scopelliti, moglie di Enzo Tortora, in occasione del 1° Convegno Nazionale sulla malagiustizia vissuta dai cittadini, promosso da un Comitato Spontaneo, patrocinato dalla Camera di Giustizia di Napoli, Camera di Giustizia Europea, Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora e Avvocati senza Frontiere.
Eva, oltre ad essere tra i promotori del Comitato Spontaneo di cittadini era tra i relatori, e posso dire che ha dimostrato grande lucidità e competenza nell’illustrare il suo grave caso, denunciando le sue difficoltà nei confronti dei magistrati di Pistoia che, a scopo ritorsivo, per metterla a tacere, l’hanno dichiarata totalmente incapace di intendere e volere.
Ma la furia della nuova inquisizione giudiziaria è andata ben oltre, assumendo che Eva sarebbe anche pericolosa alla società e delirante, ordinando il suo ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) e l’immediato trattamento sanitario obbligatorio (TSO) in base ad una perizia psichiatrica disposta, senza effettuare alcuna visita, dal Giudice di Pace di Pistoia, avv. Chiara Guazzelli.  
L’allarmante caso della Dr.ssa Eva Pollak, laureatasi a Firenze, che ci riporta ai tempi più bui del medio-evo e alle prassi dei regimi totalitari dell’Est nei confronti di dissidenti e intellettuali, non nasce da una sofferenza psichica o da atti anomali e sconsiderati, salvo non considerare “socialmente pericoloso” denunciare la corruzione giudiziaria… 
Nasce, bensì, da un banale processo per il preteso reato di diffamazione asseritamente commesso in danno di un dottore commercialista, più volte arrestato, e di un giudice tributario, oltre che del loro difensore, denunciati dalla Dr.ssa Pollak. 
L’insofferenza alle ripetute denunce di una persona perfettamente sana di mente ha così portato le istituzioni malate e incapaci di curarsi (loro si!) a sbarazzarsene, attraverso  uno strumentale ricovero coattivo in un OPG, noti lager, dove spesso si impazzisce veramente e si muore, come il povero Francesco Mastrogiovanni e tanti altri casi da noi denunciati.
Che si tratti dell’ennesimo abuso giudiziario, aggravato dalla violenza istituzionale della carcerazione e della psichiatrizzazione, oltre che da quanto personalmente denunciato dalla vittima di tali disumani e persecutori trattamenti, lo testimoniano le stesse fasi da cui è scandita l’allucinante odissea della Dr.ssa Eva Pollak.   
Nel 2009, il Questore di Pistoia emise arbitrariamente un «foglio di via», ritenendo Eva responsabile di una serie di reati ideologici, a carico di magistrati di Pistoia, per i quali non risultava neppure iscritta nel Registro degli indagati o le relative denunce erano state archiviate dalla Procura di Genova per manifesta infondatezza delle notizie di reato.
La manovra del Questore, come denuncia la stessa Eva, sarebbe servita ad impedirle di accedere agli uffici giudiziari pistoiesi e di consentirle di continuare a difendersi nei molteplici processi pendenti avanti il locale tribunale.
In data 23.9.10, Eva è arrestata dai Carabinieri di Pistoia che l’accusano di non avere autorizzazione per accedere a Pistoia e partecipare all’udienza. L’illegale arresto viene confermato anche se Eva ne era in possesso (P.M. Dell’Anno – GIP Zanobini).
Non paghi di ciò, secondo una tecnica diffusa nei confronti dei dissidenti, Eva viene anche accusata falsamente di aver usato violenza in danno dei carabinieri, mentre fu solo lei a subirla, come dimostra il certificato medico che riporta varie contusioni.
Il mio ricovero denuncia Eva serve anche allo Stato Italiano che così non dovrà spiegare alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo il perché delle reiterate violazioni dei suoi diritti fondamentali.
Il metodo usato nei miei confronti, prosegue Eva, ricalca esattamente quello dei nazisti, conosciuto come programma «Aktion T4», studiato per sterminare le persone scomode. “Sono una madre di famiglia. Nel mio paese d’origine ero agente della guardia di finanza. Nei 20 anni di “pazzia” che mi è stata attribuita, mi sono laureata in economia e commercio a Firenze, ho completato corsi professionali di prestigio, ho lavorato presso una società multinazionale, e fino al 2008, ero scrutatrice nei seggi elettorali.
Ora la mia famiglia è stata ridotta alla fame, privata di lavoro, casa e di qualsiasi mezzo di sopravvivenza e oltre tutto mi sono state pure tolte la mia stessa dignità e libertà.
Lascio un figlio completamente da solo, con gravi problemi di salute il quale, nella mia assenza, sarà sfrattato dall’amministrazione comunale da me reiteratamente denunciata. Sono venuta in Italia 32 anni fa, seguendo mio marito italiano, ma non avrei mai creduto che potessi venire defraudata di tutto, senza trovare alcuna tutela da parte della magistratura a cui mi ero fiduciosamente affidata per la tutela dei miei più elementari diritti, venendo invece perseguita e trattata senza alcuna umanità.
Il Giudice di Pace di Pistoia, ha creato un precedente giudiziario terribile: ogni persona accusata del reato di diffamazione può finire in OPG dove finiscono i peggiori delinquenti, basta che il giudice la consideri pericolosa e colpita di patologia mentale,”.
Chi avrà la pazienza, conclude nel toccante appello, di leggere la sua storia è pregato di diffonderla sui blog e in Rete perché solo così potremo indurre i poteri corrotti che ci governano all’autoriforma.
“Ringrazio pubblicamente a TUTTI quelli che mi hanno appoggiata e sostenuta in questo momento molto particolare. I magistrati hanno in mano una perizia che mi considera pericolosa anche per me stessa che giustificherebbe qualsiasi omicidio che potrebbe essere mascherato e fatto passare per “suicidio”. Dichiaro PUBBLICAMENTE che NON ho alcuna intenzione di SUICIDARMI né di ora né nel futuro”.
Il dramma di Eva si sta consumando nel totale silenzio dei media e delle Istituzioni a cui da anni sono state rivolti ripetuti appelli e denunce (tra cui la Commissione di Giustizia della Camera e del Senato).
Per contatti:

I NOSTRI FIGLI PORTATI VIA DA UN GIUDICE: UN BUSINESS DA PIU' DI UN MILIARDO D EURO

Sono 15.624 i minorenni collocati in case-famiglia. 16.767 quelli dati in affido familiare.

UN BUSINESS DA PIU’ DI UN MILIARDO D EURO…

Sono 15.624 i minorenni collocati in case-famiglia. Sono 16.767 quelli dati in affido familiare  
Barbara e Patrizia si sono ritrovate il 2 ottobre del 2009, in una mattinata di pioggia. Barbara, 54 anni, vive in Toscana: ha mento affilato e parole decise. Patrizia, 35 anni, ha la stessa forma del viso e uguale risolutezza. Madre e figlia non immaginavano di assomigliare tanto l’una all’altra. Non si vedevano dal 1976: dal giorno in cui Patrizia venne tolta a Barbara per essere chiusa in un istituto e poi data in adozione. Si sono riabbracciate dopo 33 anni. Per scoprire di essere unite da quel mento affilato e da un’unica sorte. Perché anche a Patrizia hanno portato via un figlio: Davide, di sette anni. “Gliel’hanno sottratto ingiustamente, come successe a me” dice Barbara.
Nel soggiorno di una villa spersa nella campagna veneta, guarda la sua figlia naturale con un misto di rabbia e di dolcezza: “Questa volta, almeno, combatteremo insieme” le promette. Legate dallo stesso destino. Il destino che, dicono gli ultimi dati ufficiali, oggi travolge più di 32 mila minorenni. Il più delle volte allontanati dalle famiglie per motivi giustificati, come gli abusi sessuali, i maltrattamenti o l’indigenza.
Altre per ragioni fumose e impalpabili. Negli ultimi dieci anni il loro numero è aumentato del 29,3 per cento. Più della metà finisce in affidamento temporaneo ad altre famiglie. Il resto in quelli che prima erano chiamati istituti, ma dal 2001 sono stati più formalmente ribattezzati servizi residenziali: oltre un migliaio di comunità che ospitano 15.624 ragazzini.
Un numero enorme, che costa allo Stato mezzo miliardo di euro all’anno solo in rette giornaliere. Ma la cifra, calcolano vari esperti di giustizia minorile, andrebbe più che raddoppiata. Oggi, però, è tutto il sistema a essere sistematicamente messo in discussione. Battagliere associazioni e libri-verità parlano di “bambini rubati dalla giustizia”. Raccontano di assistenti sociali troppo interventisti, di psicologi disattenti, di una magistratura flemmatica, di interessi economici. E di errori giudiziari sempre più frequenti. Come quello in cui sono incappati due fratellini di Basiglio, ricco paesino alle porte di Milano. Il più grande ha 14 anni, la sorella dieci. Il 14 marzo 2008 la polizia locale li preleva da casa e li porta in due comunità protette.
A scuola, una maestra ha trovato un disegno che li descrive mentre fanno sesso insieme. Viene attribuito alla bambina. È invece l’atroce scherzo di una compagna di classe. È stata lei a fare quell’allusiva vignetta: lo conferma il perito grafico del tribunale, che però viene nominato solo dopo 41 giorni. Anche a causa di questo inspiegabile ritardo i ragazzini trascorrono più di due mesi in comunità. Mesi di angosce: il più grande, per la sofferenza, perde 9 chili (qui intervista VIDEO integrale). L’avvocato che si è battuto per fare affiorare la verità è un sardo con baffoni e occhi neri: Antonello Martinez. Vive anche lui a Basiglio, in una casa poco distante da quella dei fratellini. Per due mesi il legale si danna l’anima: fino a quando i bambini non tornano dai genitori con molte scuse.
E fino a ottobre, quando la procura di Milano non chiede il rinvio a giudizio per la preside della scuola, due maestre, uno psicologo e un’assistente sociale del comune. L’accusa è “falsa testimonianza “. L’udienza preliminare è fissata per il 21 gennaio.
Un disegno malinterpretato, esattamente come quello che nel 1995 avvia la macchina giudiziaria nel caso di Angela L.: la sua storia è raccontata nel libro, pubblicato dalla Rizzoli, Rapita dalla giustizia. Il padre di Angela viene accusato di abusi sessuali: un falso da cui la Cassazione lo scagionerà completamente nel 2001. Ma la figlia, di appena sei anni, prima viene reclusa in due centri d’affido temporaneo per quasi 36 mesi; poi è data in adozione a un’altra famiglia. Angela tornerà dai genitori solo nel maggio 2006: a quasi 18 anni, ben dieci dopo il suo “rapimento legalizzato “. Uno sbaglio tragico e clamoroso.
Tanto che la Corte europea per i diritti dell’uomo nell’ottobre 2008 ha condannato lo Stato italiano a risarcire la famiglia: 80 mila euro per un “buco esistenziale” durato un decennio.
Della denuncia di casi come quelli di Angela L. e di Basiglio l’avvocato Martinez ha fatto una battaglia. Da quando si è occupato dei due fratellini, ha ricevuto più di 700 segnalazioni: madri e padri disperati, disposti a tutto pur di riavere indietro i loro figli. È diventato presidente dell’associazione Cresco a casa: “Tutti” accusa “denunciano lo stesso scandalo. I nostri figli sono nelle mani degli assistenti sociali. Scrivono: “I genitori non sono idonei”. Poi mandano la relazione a un magistrato che, senza troppe verifiche, adotta un provvedimento provvisorio. Quello definitivo arriva, quando tutto va bene, anni dopo. Ma i bambini intanto sono usciti di casa”.
Il caso di Basiglio è illuminante: alle 9 di mattina il dirigente scolastico avverte i servizi sociali, che inviano un telefax al tribunale dei minorenni di Milano. Passa solo qualche ora: il giudice dispone che i bambini vengano allontanati dalla famiglia. Di sera, la polizia locale esegue. Per inciso, nessuno aveva mai chiesto spiegazioni: né ai ragazzini né ai genitori.
Martinez si infervora, è seduto in una saletta del suo studio di Milano: divani di pelle e boiserie alle pareti. “Questi sono veri sequestri di Stato” prosegue concitato. E attacca: “Ogni giorno vengono portati via 80 bambini. Li chiudono in un centro protetto per anni, e costano allo Stato in media 200 euro al giorno”.
Una cifra che farebbe lievitare considerevolmente la spesa ufficiale per l’accoglienza, stimata in mezzo miliardo di euro. Basta fare due calcoli: 200 euro al giorno fanno un totale di 73 mila euro all’anno per ogni minorenne. Che moltiplicati per i 15.624 ospiti dei centri significa oltre 1,1 miliardi di euro: più del doppio di quanto riveli la cifra in mano ai ministeri, probabilmente troppo prudente.
La gente comincia a essere diffidente. Ci accusano di avere convenienze economiche. Attacchi assurdi: che interesse potremmo mai avere a collocare un bimbo in una struttura piuttosto che in un’altra?”. Povero ammette che qualche caso di disonestà ci può essere, “come in tutte le professioni”: “Ma noi siamo dipendenti pubblici” aggiunge. “Il nostro lavoro è sempre subordinato a quello della magistratura, e quindi anche alle sue eventuali lentezze”.
Per indagare su questa presunta indolenza bisogna entrare nel tribunale dei minorenni di Roma, il più grande d’Italia. Da aprile è presieduto da un magistrato d’esperienza: Melita Cavallo.
Nei corridoi del palazzo sul lungotevere che ospita gli uffici si narra del suo interventismo. Appena insediata, Cavallo scopre che un collega ha 1.600 fascicoli arretrati: se ne intesta la metà e “consiglia” al collega il pensionamento. “La permanenza nelle casefamiglia è eccessivamente lunga” dice la presidente. “Un tempo ragionevole è un anno, non cinque, come avviene adesso. Noi magistrati stiamo diventando i notai dello sfacelo dei minori: solo quando sono stati distrutti psicologicamente li diamo in adozione”. Cavallo insiste, parla di “assistenzialismo spinto”: “Si spendono un sacco di soldi” continua. “Faccio un esempio: tre fratelli rimasti in comunità cinque anni sono costati 800 mila euro. Non era meglio, allora, dare un alloggio o un lavoro al padre? Avremmo salvato una famiglia. Invece abbiamo negato l’infanzia ai figli. E oggi i genitori sono più divisi di prima”. Anche le verifiche preliminari spesso sono deficitarie, ammette il magistrato: “Alla prima decisione si arriva con pochi elementi in mano. C’è quasi un rifiuto ad averne altri. Perché i giudici ormai sono molto condizionati e sempre più prudenti“. O, al contrario, troppo interventisti.
La Cassazione ha appena confermato l’”ammonimento” già inflitto a un sostituto procuratore del tribunale dei minorenni di Roma dal Consiglio superiore della magistratura. Nel dicembre del 2006, il pm aveva ordinato che i carabinieri prelevassero due bambini da casa della madre, per portarli in quella del padre. Adesso però i giudici della suprema corte scrivono: “L’interpretazione delle norme non può costituire un alibi per tenere comportamenti anarchici “.
Insomma, quell’allontanamento è stato “un provvedimento abnorme “, per la Cassazione.
Cavallo non commenta, ma aggiunge: “Purtroppo è diventata tesi diffusa che togliamo i bambini ai poveri per darli ai ricchi“. Questa tesi, in realtà, è sempre più frequentemente sconfessata dai fatti: anche molte famiglie abbienti finiscono nel girone degli allontanamenti. Lidia Reghini di Pontremoli, 51 anni, discende da un nobile casato toscano e vive a Roma. Ha una ragazzina di 13 anni, che ha studiato nei migliori collegi della capitale. È stata affidata a un istituto religioso nell’aprile del 2008. “Per i giudici l’ho voluta mettere contro suo padre, il mio ex convivente, che era stato arrestato per spaccio di cocaina” racconta. Dopo avere deciso l’allontanamento della madre, il tribunale dei minorenni manda gli atti alla procura ordinaria: ipotizza che la madre, con “una condotta criminosa”, abbia inflitto sofferenze psichiche alla figlia. Un’accusa abnorme.
Archiviata dal giudice nel maggio 2008, su richiesta dello stesso pubblico ministero. Ora la donna ha denunciato l’assistente sociale che aveva seguito il suo caso: la procura di Roma ha aperto un’indagine. “Mia figlia chiede solo di tornare a casa. Vuole fare una vita normale, come quella di prima ” spiega, mentre si alza dal divano a fiori verdi del soggiorno per preparare un tè. “Ogni giorno mi domando come mai sono finita in questo gorgo: non esiste alcun motivo, se non l’accanimento personale. O un interesse economico”.
Che esistano o meno tornaconti, una cosa è certa: tenere un bambino in una “comunità protetta” costa molto. E non assicura quella stabilità affettiva che potrebbe offrire una famiglia.
Anche per questo motivo il governo sta cercando in ogni modo di incentivare l’affido familiare. “Porterebbe un grande risparmio economico e soprattutto maggiore benessere per i minori” dice Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare. “La soluzione ideale sarebbe chiudere le comunità e collocare temporaneamente tutti i minori in altre famiglie: cosa che oggi è impensabile”.
Un’utopia, appunto. “Il problema è che sono pochi i genitori disponibili” dice il pediatra veronese Marco Mazzi, presidente dell’Associazione famiglie per l’accoglienza: “Su dieci richieste d’affido, riusciamo a dare risposta solo a due”. Una scelta fatta da poche coppie, e di buonissima volontà: ricevono qualche centinaio di euro al mese per un bambino che comunque alla fine non potranno mai tenere con sé.
“E bisogna garantire anche i contatti con i veri genitori, che devono vedere i minorenni periodicamente” chiarisce Mazzi. Le cose, però, spesso vanno diversamente.
Valentina Timofiy, un’ucraina bionda arrivata in Italia come badante, da più di tre anni non vede la figlia dodicenne. È stata affidata “provvisoriamente ” a una famiglia di Genova: per scoprirlo ha dovuto assoldare un investigatore privato. Nonostante molte lacrime e mille telefonate, non le hanno mai voluto dare informazioni.
Timofiy, 41 anni, oggi vive a Tortona
, in provincia di Alessandria, assieme al suo nuovo compagno. La casa è piena di ninnoli e di foto della figlia. “Le hanno fatto il lavaggio del cervello ” accusa.
La donna ha la sofferenza stampata sul volto. “L’ultima volta che l’ho vista mi ha domandato: “Mamma, perché mi hai dimenticata?”. Le ho spiegato che io penso a lei ogni minuto della giornata. Ma che mi vietano d’incontrarla“.
Timofiy comincia a piangere. Ha anche tentato di buttarsi da una finestra, ma è stata salvata dal convivente. Ormai vive senza la figlia da quattro anni. Alla fine di ottobre il tribunale dei minorenni di Milano ha deciso… di non decidere: l’ennesimo provvedimento temporaneo. I giudici hanno interrogato anche la coordinatrice del servizio sociale degli stranieri di Milano: “La signora è una madre attenta, in grado di occuparsi della figlia” ha assicurato. “Ma non è stata mai aiutata né sostenuta dai servizi sociali”. Così il tribunale ha stabilito: la madre deve riprendere a incontrare la figlia.
Quella figlia che in tre anni ha visto soltanto una volta, qualche settimana fa. Nascosta nella sua auto, è riuscita a scorgere una ragazzina con i capelli e gli occhi neri: usciva da scuola e dava la mano a una madre. Che però non era lei.
Chi finisce in queste comunità? Mancando dati nazionali, si può fare riferimento a quelli della Lombardia: per il 34 per cento sono ragazzi dai 15 ai 17 anni; il 28,1 per cento ha dagli 11 ai 14 anni; il 19,4 dai 6 ai 10 anni. Le percentuali sono simili in Veneto, dove i minori fuori famiglia sono quasi 1.700. L’età media è quindi piuttosto alta. Anche perché la permanenza in queste strutture è lunga: a Milano il 53 per cento ci resta più di due anni. Questo significa che centinaia di migliaia di euro vengono spesi per ogni ragazzino. Ciò che accade alla fine di questi allontanamenti forzati è sorprendente: in Piemonte, per esempio, quasi la metà torna a casa.
C’è un altro dato che inquieta: quasi il 77 per cento dei minori viene allontanato per “metodi educativi non idonei” e per l’”impossibilità di seguire i figli”. “Motivi soggettivi, non reali come i maltrattamenti o l’abbandono ” denuncia Gian Luca Vignale, consigliere regionale del Pdl. Il Piemonte, chiarisce, spende 35 milioni di euro all’anno per mantenere 1.179 minorenni nelle comunità. “Mentre solo un terzo di questi soldi viene stanziato per sostegni alle famiglie” considera Vignale. Il costo delle rette spesso soffoca i magri bilanci dei comuni, che a volte arrivano a chiedere un contributo ai genitori cui sono tolti i figli.
Negli anni Novanta, alla famiglia di Angela L. venne recapitata una richiesta d’indennizzo di 60 milioni di lire per i 16 mesi trascorsi dalla bambina nel centro di affido: l’equivalente di quasi 2 mila euro al mese.
Un paradosso in cui è incappata pure Antonella Causin, che vive a Santa Maria di Sala, nel Veneziano. Nello studio del suo avvocato, Luciano Faraon, sventola indignata una lettera che le è stata inviata la scorsa settimana.
I suoi figli, di 12 e 8 anni, vivono dal febbraio del 2007 in due diverse case-famiglia. Il comune ora le chiede “il pagamento delle spese per la permanenza nelle strutture “. “Vogliono la mia busta paga” spiega la donna, 44 anni, sgranando gli occhi azzurri. “Devo pure dargli soldi per avermi rovinato la vita”. Le peripezie della donna cominciano nel 2005. Si separa dal convivente, chiede l’affidamento dei figli. Viene sentita dagli psicologi: racconta che l’uomo, un maresciallo della Guardia di finanza, è finito in strani giri. È violento, distratto.
Non le credono: per i consulenti tecnici è soltanto “una madre esasperata “. Così i ragazzini sono dati al padre. Dopo dieci mesi, però, le accuse della donna diventano reali: l’ex compagno viene arrestato per spaccio di droga. “Da quel momento è cominciato l’inferno” racconta Causin. “Il maschio ha cambiato quattro famiglie e due scuole in pochi mesi. Come fosse un pacco postale”. Anche i genitori della donna avevano dato la loro disponibilità a occuparsi dei nipoti. “Invece li hanno sempre tenuti lontano da loro” racconta la signora. “Addirittura li hanno accusati di un avvicinamento indebito: ma erano andati in chiesa per la prima comunione del più grande”. La storia dimostra quanto a volte sia lenta la giustizia minorile
 
In Italia, più di 32mila bambini vengono chiusi nelle comunità o dati in affido In Italia, più di 32mila bambini vengono chiusi nelle comunità o dati in affido.Il tribunale di Venezia ha disposto l’allontanamento dei due bambini nel dicembre del 2005, con un provvedimento provvisorio. Quattro anni dopo non solo non è stata presa alcuna decisione definitiva, ma la macchina giudiziaria è ripartita. L’avvocato della signora Causin ha denunciato i consulenti del tribunale: il legale sostiene che avrebbero falsificato i test e le dichiarazioni della donna. Il giudice ha nominato una nuova psicologa. Che in sei mesi ha incontrato la donna e il suo ex compagno appena quattro volte. Le critiche a periti tecnici, assistenti sociali e magistrati sono sempre più dure. Il criminologo Luca Steffenoni sui casi di malagiustizia minorile ha appena scritto un libro, Presunto colpevole (editore Chiarelettere).
“I tribunali hanno appaltato tutto all’esterno” sostiene. “Il processo è uscito dall’alveo delle prove, per trasformarsi in approfondimento psicologico. Gli assistenti sociali hanno diritto di vita e di morte sulle persone. Basta uno screzio tra due coniugi per far nascere patologie incurabili, che legittimano la sottrazione dei figli”. Accuse cui ribatte Graziella Povero, assistente sociale di Torino e presidente dell’Asnas, storica associazione di categoria: “C’è un’aggressione continua alle nostre decisioni. Dicono che rubiamo i bambini.  
Antonio Rossitto

Venerdì 13 Novembre 2009

Vedi anche:

http://blog.panorama.it/italia/2009/11/13/i-nostri-figli-portati-via-da-un-giudice/

SCARCERAZIONE IZZO. MALAGIUSTIZIA ASSASSINA: CONDANNA EUROPEA

   
di Davide Giacalone   
Mercoledì 16 Dicembre 2009 12:52
Che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanni l’Italia non fa notizia, avviene spesso. Ma la condanna per la scarcerazione di Angelo Izzo, il massacratore del Circeo, costata la vita a due donne, è di quelle che strappano un grido di rabbia e vergogna. Se il dibattito sulla giustizia, sulla necessità di riforme profonde, volesse avere un andamento serio, se volesse occuparsi di quel che riguarda tutti, senza sconti per nessuno, dovrebbe ripartire proprio da qui, da questa condanna. Che ora, a noi cittadini, costa anche 45 mila euro di danni morali, che paghiamo, prelevandoli dalle casse statali, alla famiglia delle vittime. Troppi, se si calcola che la responsablità non è delle leggi, ma di chi le ha male amministrate. Troppo pochi, se si riferiscono a due vite, violentemente recise.

 

Siamo stati condannati, noi italiani, noi Italia, per avere violato il “diritto alla vita”, sancito dall’articolo due della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Come abbiamo fatto? Leggete appresso, ed indignatevi, per favore. Abbiamo violato il diritto alla vita di quelle due donne perché avevamo in custodia, presso le patrie galere, un condannato all’ergastolo, già dimostratosi uomo violento. Un torturatore. Le nostre leggi stabiliscono che anche il peggiore dei delinquenti può redimersi. E’ giusto. Lo riconosce anche la Corte, che non contesta affatto quella legge, non contesta l’ipotesi che un detenuto possa avere la semilibertà, anche se condannato per omicidio. Contesta il modo in cui è avvenuto: è stata non applicata, ma violata la legge.

Il detenuto Izzo godeva della semilibertà, anche se ne aveva già tradito le regole e, pertanto, doveva essergli revocata. Ma i giudici di Palermo lo misero in libertà nonostante le violazioni. Ed i giudici di Campobasso non informarono il tribunale di sorveglianza di ulteriori, gravi infrazioni. Quindi, un po’ perché i giudici agirono con leggerezza, un po’ perché omisero di fare il loro dovere, trasmettendo a chi di dovere informazioni vitali (in senso letterale), è andata a finire che il detenuto Izzo era in libertà pur non avendone diritto. In questo modo lo Stato ha violato l’articolo due, che non solo prevede l’obbligo di non procurare la morte, ma anche quello di prendere le misure necessarie per preservare la vita.

La malagiustizia è costata la vita a due donne, e, ora, costa la condanna a noi tutti. Poniamoci ancora una domanda, per darci una risposta raccapricciante: perché i familiari sono ricorsi a Strasburgo? Risposta: perché, come ha ricordato la Corte di Strasburgo, nei confronti dei magistrati di Palermo fu avviata un’azione disciplinare, ma non ci fu nessuna sanzione, neanche amministrativa, e nei confronti di quelli di Campobasso fu la famiglia delle vittime ad avviare un’azione penale, ma fu archiviata.

Chi uccise è tornato ad uccidere, ma secondo la nostra giustizia nessuno ne è responsabile. Fra irresponsabilità e caos burocratico, fra approssimazione e arroganza autoprotettiva, la giustizia muore. Ma di queste cose non si parla, quando si discute di riforme, forse perché riguardano tutti e non solo qualcuno. Di questo non si tiene conto, quando ci si lamenta per l’immagine dell’Italia nel mondo, forse perché si presta poco alle inutili polemiche.

Da qui, allora, si dovrebbe ripartire, azzerando speculazioni e corporativismi, cercando di restituire un senso alla giustizia.

http://www.nondiamocideltu.it/davide-giacalone/84-malagiustizia-assassina.html

'NDRANGHETA: OPERAZIONE CONTRO COSCA NEL REGGINO, 40 ARRESTI

 
(ANSA) – REGGIO CALABRIA, 3 MAG – Un’operazione della polizia é in corso nel reggino per l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 40 presunti affiliati alla cosca Mazzaferro di Marina di Gioiosa Ionica. All’operazione partecipa personale della squadra mobile di Reggio Calabria, del Commissariato di Siderno e dello Sco di Roma. Associazione per delinquere di tipo mafioso è una delle accuse contestate agli indagati.
– Il sindaco e tre assessori della giunta di Marina di Gioiosa Ionica, nel Reggino, sono stati arrestati dalla polizia nell’ambito dell’operazione contro la cosca Mazzaferro. Il sindaco, Rocco Femia, che guida un’amministrazione espressione di una lista civica, e gli assessori sono accusati di associazione mafiosa.
– Secondo quanto emerso dall’inchiesta, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria, in occasione delle elezioni comunali che si sono svolte nell’aprile del 2009, la cosca Mazzaferro avrebbe sostenuto la candidatura di Femia che poi è stato eletto. Successivamente alla sua elezione, l’Amministrazione avrebbe fatto in modo di affidare una serie di appalti pubblici a soggetti riconducibili alla cosca. (ANSA).

MAGISTRATURA CONCORSI TRUCCATI: CONTROLLATI DA MAFIA GIUDIZIARIA & CAMORRA?

Forse è solo una delle tante strane anomalie all’italiana forse un fenomeno di campanilismo forse un più allarmante segnale del capillare controllo delle mafie sui futuri assetti della magistratura per evitare il fastidioso inconveniente di magistrati non allineati agli interessi delle massomafie 

Napoli capitale della Camorra è anche capitale dei promossi: su 343 ammessi agli orali 180 sono di Napoli, 110 siciliani, tanti romani. 

Ad esempio le Corti d’appello di Torino e Firenze hanno sfornato un numero di magistrati pari a 0 (zero), Milano 2.

Come mai?

Sul sito del ministero della giustizia, è stata diffusa la lista ufficiale degli ammessi agli orali del concorso in magistratura a 350 posti, indetto con d.m. del 15 dicembre 2009. Dall’elenco, se non abbiamo contato male, si apprende che sono 343 gli aspiranti che dovranno affrontare le prossime prove orali. I dati definitivi, pertanto, sono i seguenti:

Candidati partecipanti: 4.840
Candidati consegnanti: 3.072
Candidati corretti: 3.072
Candidati ammessi agli orali: 343
Candidati bocciati: 2.744
Candidati da correggere: 0
Percentuale degli ammessi agli orali: 11,17%

343 ammessi agli orali a fronte di 350 posti disponibili e messi a concorso. Questo è il dato ultimativo che emerge dalle operazioni correzione iniziate nella prima settimana di agosto dello scorso anno. La commissione ha impiegato 8 mesi per correggere gli elaborati di 3.072 aspiranti consegnati e siccome ognuno di loro ha scritto tre temi, alla fine sono stati 9.216 i lavori sottoposti al vaglio dei commissari. Come da tradizione, non tutti i posti a concorso sono stati coperti: quale che sarà l’esito delle prove orali, dalle quali, comunque, esce sempre un certo numero di bocciati, oggi possiamo dire che almeno una decina di posti resteranno scoperti, segnando se non un fallimento, un mancato raggiungimento dell’obiettivo principale della selezione, che era quello di assumere 350 nuovi magistrati per sanare le gravi carenze di organico tra i giudici. Non male, però, la percentuale degli ammessi: 11,17%, quando nelle ultime settimane la tendenza sembrava essersi consolidata intorno al dato provvisorio del 10,8-10,9%, sfiorando uno storico 11,00%. Sfumature, ma comunque, la presa di cognizione di una tendenza, che a fronte delle necessità di ammodernamento del procedimento di selezione di nuovi magistrati, non si riesce ad attenuare. Perchè non vengono coperti tutti i posti messi a concorso? A questa domanda abbiamo cercato di rispondere più volte, negli articoli dedicati all’argomento.

Non è forse che la commissione è composta in maggior parte da magistrati e professori partenopei?

Persecuzione politica, poliziesca e giudiziaria in danno dei difensori dei diritti umani Roberto Malini e Dario Picciau

Persecuzione  politica, poliziesca e giudiziaria in danno dei difensori dei diritti umani Roberto Malini e Dario Picciau. Ad affermarlo è il Report 2010 dell’Osservatorio per la protezione dei difensori dei diritti umani (Observatory for the Protection of Human Rights Defenders) con sede a Parigi.
Parigi, 22 aprile 2011. Il Rapporto 2010 dell’Osservatorio internazionale per la protezione dei difensori dei diritti umani, redatto congiuntamente dall’International Federation for Human Rights e dall’International Organisation Against Torture è stato pubblicato. Il prossimo Rapporto sarà pubblicato nel mese di settembre 2011.
Il Rapporto, che è nato nel 2008, registra i problemi che i difensori dei diritti umani sono costretti ad affrontare in tutto il mondo mondo.
 
Il Rapporto dell’Osservatorio consiste in un quadro annuale dettagliato per zone geopolitiche dei casi più rilevanti in àmbito internazionale di persecuzione, violenza, azioni legali che i difensori dei diritti umani subiscono nel loro lavoro umanitario.
La sezione dedicata all’Europa rileva per l’Italia il caso di persecuzione  politica, poliziesca e giudiziaria che riguarda i difensori dei diritti umani Roberto Malini e Dario Picciau, co-presidenti del Gruppo EveryOne. L’Osservatorio si occupa attualmente anche dei successivi episodi di repressione e intimidazione che hanno colpito gli stessi operatori umanitari e il terzo co-presidente di EveryOne, Matteo Pegoraro. Ai casi relativo ai co-presidenti di EveryOne, perseguitati per il loro lavoro a tutela del popolo Rom e delle altre minoranze, ha fatto seguito recentemente un episodio che ha colpito l’attivista franco-canadese Georges Alexandre, sempre del Gruppo EveryOne, fermato dalla polizia, sottoposto a perquisizione del furgone e a un interminabile interrogatorio a causa della sua opera umanitaria a sostegno dei profughi che sbarcano a Lampedusa.
Qui si può leggere il Rapporto 2010: http://www.fidh.org/IMG/pdf/2010/OBS2009UK-full.pdf al quale sono allegate le analisi sull’Europa, in francese e inglese, relative al 2009 e 2010 (pagg. 1-20 per il 2010 e 1-15 per il 2009).
Nella foto, da sinistra: Matteo Pegoraro, Roberto Malini, Dario Picciau
Gruppo EveryOne
+39 331 3585406 :: +39 393 4010237 

Andrea Gagliardoni ucciso a 23 anni prima dal lavoro eppoi dalla giustizia

Colpevole di essere morto!

Andrea Gagliardoni ha questa colpa. È morto a 23 anni il 20 giugno del 2006, alle 6.10 del mattino, durante il suo turno di lavoro presso l’Asoplast di Ortezzano (Fermo). La sua testa è stata schiacciata da una macchina tampografica; un congegno che produce, in modo seriale e preciso, marchi o scritte ad inchiostro su superfici varie, in un certo senso è l’evoluzione moderna del ben più noto timbro.

La macchina utilizzata da Andrea serviva per fissare l’inchiostro sui frontalini che dovevano essere stampati e posti sulle lavatrici Ariston. Erano due anni che lavora in quell’azienda, due anni passati a percorrere 80 km di strada per guadagnare 900 euro, due anni passati ad usare quel macchinario. Non era uno sprovveduto Andrea, conosceva bene il suo lavoro, sapeva che quella macchina aveva dei difetti, per giunta segnalati ripetutamente.

Quel giorno Andrea si era alzato alle 04.00 del mattino, aveva chiesto un cambio turno. Alle 05.00 del 20 giugno del 2006, fa partire la macchina, poco più di un’ora dopo si accorge che le stampe sono imprecise ed irregolari, decide di controllare e posiziona la macchina in stand by, blocca quindi la lavorazione, si china sul piano di lavoro per controllare gli inchiostri, questione di istanti, di pochissimi secondi, la macchina riparte autonomamente e in quell’attimo maledetto un ragazzo di ventitré anni muore. Il cranio è stato schiacciato da un tampone siliconico dal peso di 8 tonnellate.

Due gli imputati per omicidio colposo; Giuseppe Bonifazi e Mario Guglielmi. Il primo era Amministratore Delegato dell’Asoplast, responsabile di non aver rispettato le norme di sicurezza sul lavoro, non solo per quanto concerne il controllo delle attrezzatture, ma anche in virtù della disattivazione dei sistemi di sicurezza, attuata per velocizzare la produzione. Questo è il primo punto su cui riflettere; il profitto guida scelte e decisioni, permette di sacrificare tutto, anche la sicurezza dei propri lavoratori.

Guglielmi, invece, era l’Amministratore Delegato della ditta Mag System Srl con sede in Schio. Il reato a lui contestato riguardava la produzione stessa della macchina, non conforme ai requisiti essenziali di sicurezza previsti dall’allegato 1 del D.P.R. 459/96, delle norme UNI. Le parti hanno optato per il patteggiamento e la pena commisurata è stata di 8 mesi con la condizionale. Sentenza definitiva.

Questo è stato il valore che la Giustizia ha dato alla vita spezzata di Andrea.

Andrea diventa così un altro nome nelle liste delle morti bianche, un altro dato che fa impennare le curve delle annuali statistiche, un’altra storia che fa oscillare dal piedistallo imprenditore e uomini di Stato con le loro belle riflessioni sulla sicurezza sui posti di lavoro. Il tempo poi cancella il nome di Andrea dai giornali, trasformandolo in un morto invisibile, una di quelle morti che scuotono le coscienze, per un attimo, per un giorno, per una settimana forse e poi, poi cade il silenzio, da cui ci si sveglia solo quando sentiamo parlare di un altro Andrea, e di nuovo scene di piazza, servizi giornalistici, dita puntate, ma poi di nuovo silenzio.

Morire di lavoro è normale oggi, è eccezionale assistere a sentenze giudiziarie esemplari contro il Potere. 

Giudicare; un mestiere complicato, “arbitro in terra del bene e del male”, cantava De Andrè, e proprio per questo enorme valore essa deve essere innanzitutto deterrente dei reati e non il contrario come ha ben sottolineato Graziella Marota, mamma di Andrea.

Mamma Graziella, una persona le cui parole hanno il valore aggiunto di chi non parla a sproposito, di chi conosce il tunnel di un dolore che si poteva evitare, di un dolore rinnovato da una sentenza irrisoria. Una donna che oggi lotta in prima linea contro questa piaga sociale delle morti bianche.

Ma non è tutto. C’è una sentenza definitiva sulla morte di Andrea, ma la sua storia non si può archiviare così! Non è possibile, perché il suo dramma e quello della sua famiglia nascondono un retroscena ancora più amaro.

Andrea ha commesso l’errore di morire.

Andrea non doveva morire per svariate motivi, tutto era evitabile, ma soprattutto non doveva morire perché così ha recato troppo disturbo alla burocrazia locale. Da quasi 5 anni la famiglia attende ancora di dare una degna sepoltura ad Andrea, da ben 4 anni una madre chiede assiduamente al proprio Sindaco di permetterle di avere una tomba su cui piangere il proprio figlio. 5 anni! Dal 2006 al 2011 Andrea non ha avuto e non ha ancora una tomba definitiva.

Quando il 20 giugno del 2006 Andrea muore, lo shock è devastante. La famiglia non possedeva un loculo nel cimitero, nessuno va in Comune a richiederlo, perché, fondamentalmente, la situazione drammatica aveva posto in secondo piano tutto il resto ed è un’amica di famiglia (la signora Germana Cantatore) che si mobilita fornendo temporaneamente una proprio nicchia. Doveva essere una sistemazione provvisoria. E nessuno sottolinea, tanto meno il Comune stesso, al momento del rilascio delle autorizzazioni alla sepoltura, le conseguenze di questo prestito.

La mamma di Andrea, dopo i primi momenti bui, inizia a rivolgersi al Comune per richiedere un loculo definitivo in nome del figlio. Inizialmente le viene risposto che causa carenza degli stessi sarebbe stata costretta ad attendere le edificazioni di nuovi. Fino all’estate del 2009 tutto tace, dopodiché, spinta anche dalla necessità di restituire la tomba alla Sig.ra Cantatore, decide di inviare una richiesta scritta al Comune, e nella risposta si legge che: “la possibilità di avere un loculo presso il nostro cimitero avviene contestualmente al decesso…l’usufruire del prestito del loculo stesso, è stata una libera scelta della famiglia pertanto, affinché la signora Cantatore ne rientri in possesso, se ne dovrà attendere la scomparsa e non prima.” In poche parole la legittima proprietaria rientrerà in possesso del loculo al momento della sua morte e solo allora Andrea potrà essere traslato. Per la famiglia Gagliardoni tutto ciò è insostenibile, perché la signora Cantatore non ha parenti ed al momento della sua morte dovrebbe occuparsi di tutto la signora Graziella, che contemporaneamente dovrebbe anche traslare il proprio figlio.

Ora perché non riequilibrare la situazione in anticipo e dare almeno una lieve pace spirituale a questa famiglia? Non c’è un motivo valido che si frappone a questa richiesta.

Mario Andrenacci, Sindaco di Porto Salt’Elpidio (FM), ai microfoni della trasmissione Mi Manda Raitre, appare integerrimo ed inflessibile alle richieste della sua concittadina, non una piega dinnanzi alla disperazione della Signora Marota, o alle domande ed affermazioni di biasimo del conduttore Vianello, e tanto meno il disappunto del pubblico in sala lo scuote. Si aggrappa al principio dell’uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge, all’esistenza di deroghe comunali ed alla necessità di non effettuare favoritismi per preservare l’ordine della comunità. Teme forse che tutti i suoi cittadini il giorno dopo si sveglino con il pallino di spostare i propri cari da una parte all’altra del cimitero?

Quasi ammirevole questa coerenza, penso in un primo momento. Basta molto poco poi per capire che questa rigidità è ridicola ed inappropriata, perché nel Comune esistono 200 loculi liberi, perché le regole emesse dal Consiglio Comunali sono successive alla morte di Andrea e prive oltretutto di validità, come da più fonti giuridiche è stato ribadito, per altro anche durante la trasmissione dal Prof. Claudio Franchini (docente di diritto Pubblico ed Amministrativo presso l’Università di Tor Vergata).

Ma ancora oggi manifestazione e richieste non hanno portato a nulla! La dignità, il rispetto per le persone si frantumano dinnanzi alla burocrazia e a leggi assurde, questo è accettabile?

La vita di Andrea si è fermata per inappetenze di chi doveva garantirgli un lavoro sicuro, ma forse avrebbe dovuto chieder il permesso di morire per garantirsi un ennesimo diritto negato; quello della sepoltura.

 LETTERA DI UNA MADRE PER UN FIGLIO CHE NON C’E’ PIU’

Andrea aveva 23 anni quando, il 20 giugno 2006, è rimasto con il cranio schiacciato da una macchina tampografica non a norma. Andrea voleva imparare a suonare la tromba, come se la chitarra da sola gli andasse stretta. Perché a quell’età la taglia dei desideri si allarga e non stai più nei tuoi panni dalla voglia di metterti alla prova, conoscere, guardare avanti. Da li a quattro giorni pure la metratura della sua vita sarebbe lievitata di colpo: dalla sua camera da ragazzo, in casa dei genitori, a un mini appartamento, acquistato dai suoi con un mutuo, a metà strada tra Porto Sant’Elpidio e la fabbrica Asoplast di Ortezzano, dove aveva trovato lavoro come precario per 900 euro al mese. Andrea voleva imparare a suonare la tromba, ma non ha fatto in tempo: una tromba che, rimasta la dov’era in camera sua, suona un silenzio assordante. E neppure l’appartamento è riuscito ad abitare: doveva entrare nella nuova casa sabato 24 giugno 2006, se ne è andato il 20 giugno di 3 anni fa. Oggi Andrea avrebbe 26 anni ma è morto in fabbrica alle sei e dieci dell’ultimo mattino di primavera. E suonerebbe ancora la chitarra con i Nervous Breakdwn e non darebbe il suo nome a una borsa di studio. Sarebbe la gioia di sua mamma Graziella e non la ragione della sua battaglia da neo cavaliere della Repubblica, per cultura sulla sicurezza. Una battaglia finita con una sconfitta dolorosa: nel nome del figlio e a nome dei tanti caduti sul lavoro, senza giustizia: Umbria-Oli, Molfetta, Thyssenkrupp, Mineo….Sono solo le stazioni più raccontate di una via Crucis quotidiana, che per un po’ chiama a raccolta l’indignazione italiana, che poi guarda altrove. Le morti si fanno sentire, ma le sentenze molto meno, quando passano sotto silenzio anche per una sorta di disagio nell’accettarle e comunicarle. I responsabili di questa orrenda morte sono stati condannati a otto mesi di condizionale con la sospensione della pena, anche se il Procuratore generale del tribunale di Fermo aveva parlato «di un chiaro segnale perché questi reati vengano repressi con la massima severità». Andrea è stato ucciso per la seconda volta. La tragedia è finita nel dimenticatoio, con alcune frasi fatte e disfatte, tipo non deve più accadere, basta con queste stragi, lavoreremo per migliorare la sicurezza. Parole piene di buone intenzioni, che lo spillo della smemoratezza buca in un momento. Parole al vento! Alla fine anche Andrea si è perso tra i morti da stabilimento e da cantiere: martiri del lavoro che fanno notizia il tempo di commuovere, che non promuovono ronde per la sicurezza, spesso rimossi pure nei processi. Tragedie quotidianamente dimenticate da un Paese ignavo e incurante. La tromba silente di Andrea a suonare la sua ritirata. Questo è quanto accade a tutti i morti sul lavoro; di loro restano solo dolore e angoscia dei familiari ma giustamente questo non fa notizia : una mamma che piange tutti i giorni, che guarda sempre la porta di casa aspettando che il suo Andrea rientri perché spera che tutta la sofferenza che sta vivendo sia solo un brutto sogno….. Ma tutto ciò non importa a nessuno!!!!!!!!!!!!Questa è la tragica realtà, di chi rimane e si rende conto di essere emarginato e dimenticato da tutti.

Graziella Marota

(mamma di Andrea Gagliardoni)