In calce la sintesi del caso giudiziario a cura dello Staff di Avvocati senza Frontiere.
La mia storia (Autobiografia di Sabina Bondini).
Nell’età dello sviluppo ho avuto una malformazione al seno di carattere estetico: un’asimmetria mammaria.
Il ginecologo mi consigliò di farmi visitare da un chirurgo estetico, il quale mi avrebbe potuta seguire durante l’adolescenza ed intervenire, se fosse stato il caso, alla fine dello sviluppo.
Nel 1985, avevo 15 anni, mi rivolsi al Dott. Poppi, primario del reparto di chirurgia estetica dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Il Dott. Poppi, al contrario del ginecologo, propose, invece, di operarmi subito, senza mettermi al corrente di cosa esattamente mi avrebbe fatto: del dolore fisico che avrei provato, delle cicatrici permanenti e delle possibili complicazioni.
Anzi, mi parlò di un “interventino” e mi descrisse risultati ottimali: “La prossima estate andrai al mare in topless!”.
Nel 1986 subii il primo intervento chirurgico in anestesia totale: avevo 16 anni.
Ci furono subito delle complicazioni, per rimediare alle quali il Dott. Poppi, nel giro di 2 anni, mi operò altre 4 volte, sempre in anestesia totale. Nonostante i ripetuti interventi, non riuscì a rimediare al danno iniziale ed il risultato fu ogni volta peggiore: mi sono ritrovata con lo stesso problema di diversità di volume tra i due seni, grosse cicatrici (la più grande è di 32 cm), corpi estranei dimenticati dentro e, addirittura, sono stata protagonista di un film dell’orrore, svegliandomi in sala operatoria durante l’intervento, vivendo così un “awarness”.
Alla fine di questi due anni di martirio, avevo allora 18 anni, decisi che non mi sarei più fatta mettere sotto i ferri dal Dott. Poppi.
Non volevo più sentir parlare di interventi chirurgici, al costo di restare con un seno inguardabile per tutta la vita.
Purtroppo, però, a causa del corpo estraneo, il problema diventò più serio: stavolta c’era di mezzo la salute e non l’estetica.
Per questo, nel corso degli anni, subii altri 5 interventi, tutti con anestesia totale, sempre per rimediare agli errori iniziali del dott. Poppi.
Nel 1988 ho denunciato il Dott. Poppi e l’ospedale Sant’Orsola di Bologna per il dolore fisico e psicologico che avevo subito e per i ripetuti errori. Ero giovane, figlia di gente comune e non avevo nè le conoscenze, nè la disponibilita finanziaria per permettermi un avvocato “onesto” che prendesse veramente le mie parti. Ero obbligata a propormi come una cliente che paga solo a cose concluse e non deve essere il loro cliente ideale visto che sono passati 17 anni e il processo non si è ancora concluso.
Il primo avvocato a cui mi sono rivolta, dopo qualche mese, mi propose di accettare la modica cifra di 10.000.000 delle vecchie lire. Ho subito pensato che voleva prendersi gioco di me. Oggi la mia salute non é più in pericolo anche se so che questa storia non é ancora finita perché, prima o poi, dovrò cambiare la protesi. Inoltre, le cicatrici sono troppo grandi e non esiste nessun intervento di chirurgia plastica che possa rimediarle, quindi, ho dovuto imparare a conviverci.
Anche se periti, avvocati, dottori e chirurghi mi hanno sempre dato ragione, la mia causa contro l’ospedale ed il dott. Poppi non si è ancora conclusa. A questo punto voglio riassumere sinteticamente i fatti più salienti: 10 interventi di chirurgia estetica fino ad oggi tutti sotto anestesia totale, e ben 17 anni di causa solo presso il Tribunale di Bologna.
La sentenza di primo grado é stata pronunciata il 13 Settembre 2004, il giudice ha condannato il dott. Poppi e l’ospedale Sant’Orsola a pagarmi la somma di appena € 52.410,00, ma hanno fatto appello, chiedendo la sospensione della condanna, e non si sa, ancora, quanto tempo ancora potrà durare. La prima udienza veniva rinviata al dicembre 2005. Seppure è pacifico che il medico sia colpevole, non vogliono pagare, con la scusa del palleggiamento di responsabilità tra USL, ASL, Regione Emilia Romagna e Unipol Assicurazioni, ognuno di loro ha i suoi motivi per i quali deve pagare l’altro e, intanto, passano gli anni.
La Corte d’Appello di Bologna, sezione II civile (Ordinanza del 14 gennaio 2005) scandalosamente asseconda queste manovre e sospende la sentenza di primo grado che, invece, doveva essere provvisoriamente esecutiva, tutelando le presunte ragioni degli enti pubblici che giocano “a scarica barile” su chi debba ereogare il risarcimento, invece che privilegiare i miei diritti di comune cittadina vittima della malasanità.
Così io, intanto, continuo ad aspettare.
La modesta cifra, prevista come risarcimento, peraltro, non ripagherebbe comunque quella rabbia che provo ogni volta che torno a casa dopo l’ennesimo intervento chirurgico, guardando allo specchio il mio corpo sempre più martoriato, quella sensazione di avere fatto da cavia, quel senso d’impotenza e di frustrazione per la fiducia tradita.
Sentimenti forti questi, negativi, difficili da superare. Ferite psicologiche che hanno marcato indelebilmente la mia vita e l’anima. Ora voglio gridare al mondo intero che bisogna informarsi bene quando un medico chirurgo ci propone un intervento o una cura di qualsiasi genere: quali i risultati, quali le conseguenze e le possibili complicazioni.
Mi piacerebbe che ci fosse tra medico e paziente un rapporto più umano, di rispetto e d’informazione.
Chirurgo estetico e psicologo dovrebbero lavorare insieme per stabilire se le motivazioni all’origine della richiesta del paziente sono esclusivamente estetiche o psicologiche.
La chirurgia estetica non va presa alla leggera: non abbiate timore di chiedere, di dubitare e di richiedere un’altra volta.
All’udienza del 2005, la Corte d’Appello, sezione seconda, oltre a congelare il risarcimento danni, rinvia la decisione della causa al 12 marzo 2010. Ben 5 anni dopo! (R.G.A. N. 2437/04 – Consigliere Relatore dott. Fischietti).
La mia unica fortuna è quella di rivolgermi ad Avvocati senza Frontiere che denuncia la mia vicenda come caso emblamatico di malagiustizia e malasanità anche alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Vengo intervistata a Parigi dove vivo da alcuni anni da una troupe di Rai 1, nell’ambito di un programma sugli errori medici e la chirurgia plastica. Nelle more, la Corte d’Appello di Ancona condanna lo Stato Italiano ai sensi della cd. “Legge Pinto” per la lungaggine del procedimento, riconoscendomi un equo indennizzo di € 17.000,00 oltre spese legali: in proporzione quasi di più della modesta somma virtualmente attribuitami dal Tribunale di Bologna per tutti i gravi danni fisici, morali e patrimoniali da me patiti in oltre 17 anni di continui interventi chirurgici e di incessante calvario giudiziario.
A seguito di tale pesante condanna la Corte d’Appello II sezione civile di Bologna anticipa a sorpresa l’udienza di trattazione di qualche anno e condanna la Regione Emilia Romagna in solido con il Dott. Poppi Vittorio al risarcimento dei danni nella misura già determinata dalla sentenza di primo grado pari ad € 52.410,22, oltre interessi, detraendo però (a titolo di sconto) la somma di € 12.911,42, in precedenza liquidata quale danno materiale per gli interventi successivi e compensando singolarmente le spese del grado di giudizio, così gravando iniquamente la mia persona di un pesante importo che sono stata costretta a pagare al legale che mi aveva in precedenza “difesa”, senza contestare la lungaggine del procedimento poi denunciata da Avvocati senza Frontiere. Avendo tale somma assorbito buona parte del magro risarcimento danno riconosciutomi sono stata ovviamente costretta mio malgrado ad impugnare in Cassazione la sentenza della Corte d’Appello di Bologna n. 1988/08, grazie al provvidenziale sostegno della Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood e all’intervento della rete di assistenza legale di Avvocati senza Frontiere. Vorrei far conoscere questa storia “istruttiva” al maggior numero di persone.
Sabina Bondini
STORIA DI UNA DUPLICE VIOLENZA. PRIMA IL BISTURI DEL CHIRURGO POI QUELLA DELLA GIUSTIZIA MASSONICA DELLA CORTE D’APPELLO CHE PER PROTEGGERE UN “BARONE” SI ACCANISCE CONTRO UNA GIOVANE SEDICENNE DETURPATA A VITA, REVOCANDO LA PROVVISORIA ESECUTORIETA’ DELLA CONDANNA DI PRIMO GRADO. A cura dello Staff di Avvocati senza Frontiere.
Ecco la storia. Sabina nel periodo dell’adolescenza decide di sottoporsi ad un intervento di chirurgia plastica apparentemente banale per correggere un’asimmetria mammaria, che, data la sua giovane età, nonostante le provocasse un certo disagio psicologico, qualunque chirurgo scrupoloso le avrebbe sconsigliato.
Per l’intervento si affida al dr. Poppi dell’Azienda Ospedaliera di Bologna che la rassicura, affermando trattarsi di un “facile intervento” e nel quale ripone quindi, fiduciosa, tutte le sue speranze. Purtroppo il “facile intervento” va male con il risultato di rendere ancora più evidente il difetto congenito al quale, come se non bastasse, si aggiungono vistose cicatrici causate dal bisturi.
Sabina è così costretta a sottoporsi a numerosi nuovi interventi che l’ormai famoso chirurgo si offre di praticargli nel tentativo di rimediare anche solo in parte all’originario intervento che l’aveva gravemente deturpata. Ma il Dr. Poppi, invece di porre rimedio continua a peggiorare maldestramente la situazione. L’imperizia giunge al punto di “dimenticare” corpi estranei all’interno della zona operata…
Disperata, la giovane ragazza decise di appellarsi alla giustizia denunciando nel 1988 il Dr. Poppi e l’Azienda Ospedaliera di Bologna per danni fisici e morali causati dai maldestri interventi.
In primo grado la causa viene dilatoriamente trascinata per svariati anni, in quanto vengono sollevate una serie di defatiganti eccezioni dalla difesa del chirurgo, circa gli altri soggetti che debbono essere chiamati in causa per rispondere in solido dei danni. L’incertezza è artatamente alimentata dall’estinzione delle vecchie U.S.L. sostituite dalle odierne A.S.L.. Il giudice, dando prova di buon senso, ritiene comunque infine che la domanda dell’attrice, la cui attesa era già stata sufficientemente penosa, non dovesse essere ulteriormente pregiudicata dalle incertezze legislative e giurisprudenziali su cui i convenuti cercavano di speculare per ritardare la definizione del giudizio e palleggiarsi le responsabilità. E’ così che, dando giustamente credito alle perizie medico-legali, il primo Giudice accerta la civile responsabilità del dottor Poppi per imperizia colposa, condannandolo in solido con l’Azienda ospedaliera S. Orsola di Bologna a pagare a titolo di risarcimento dei danni subiti da Sabina, € 52.410,00= (somma la cui entità è peraltro ridicola rispetto al danno permanente subito e al risarcimento effettivamente spettante). Sennonché, seppure i 52.410 euro liquidati dal giudice risultassero assolutamente inconsistenti rispetto alla gravità del danno subito da una ragazzina sedicenne deturpata a vita, il chirurgo che ne ha distrutto la vita, non pago, propone appello, per motivi presumibilmente più di prestigio professionale che economici, in quanto la modesta somma liquidata dovrebbe venire versata dall’assicurazione e non di tasca del chirurgo.
In appello. Ciò che risulta veramente scandaloso e che non può essere lasciato passare sotto silenzio è il comportamento dei giudici della Corte di Appello di Bologna i quali con l’ordinanza del 14 gennaio 2005 si spingono a sospendere cautelarmente, inaudita altera parte, sino all’udienza di trattazione, l’esecutorietà della sentenza di primo grado, sul mero presupposto che Sabina aveva come suo diritto ingiunto il pagamento di quanto gli spettava per legge ai soggetti condannati in primo grado, che si palleggiavano la responsabilità su chi dovesse risarcire il danno, nonostante l’esecutività della sentenza impugnata.
L’abuso in atti di ufficio commesso dai giudici bolognesi che hanno spudoratamente inteso favorire la parte più forte non può non suscitare perplessità anche ad osservatori inesperti di diritto. Infatti, la sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza è una misura eccezionale che, ai sensi degli artt. 283 e 351 c.p.c., può essere disposta solo in caso sussistano gravi motivi e un danno irreparabile nei confronti di colui che subisce l’esecuzione, in rapporto al vantaggio della parte vincitrice. Nella specie, non vi è chi non veda che non sussista alcun pregiudizio irreparabile né per il medico che nulla doveva pagare di tasca propria né per la A.S.L. nè tantomeno per l’assicurazione tenuta a rispondere dei danni, mentre l’unico vero pregiudizio è quello di Sabina che oltre al danno di non ricevere quei pochi soldi che gli servono per curarsi subisce anche la beffa di una falsa giustizia che funziona alla rovescia, tutelando more solito gli interessi dei più forti invece che quelli dei deboli e delle vittime dell’incuria degli Ospedali.
Inoltre altro presupposto per la sospensione della esecutorietà della sentenza di primo grado è il cosiddetto fumus boni iuris, cioè la parvenza che l’appello possa ritenersi fondato e portare ad una pronuncia favorevole al debitore esecutato.
Nel caso in esame occorre ricordare che il dottor Poppi, ormai pensionato, con una carriera illustre alle spalle, fa pensare che non fosse completamente sprovvisto di fondi. Inoltre la sentenza di primo grado condannava in solido il medico direttamente responsabile e l’Azienda ospedaliera di Bologna, che era munita di una solida copertura assicurativa con la Unipol Spa. Conseguentemente, il dottor Poppi non sarebbe stato in ogni caso costretto a pagare personalmente, ma avrebbe potuto far pesare l’onere del peraltro magro risarcimento dei danni sulla compagnia assicuratrice Unipol, pure infatti chiamata in causa a garanzia. L’Ordinanza della Corte bolognese, al di là del parziale felice epilogo della causa, dopo la condanna ai sensi della cd. Legge Pinto, già sopra narrato da Sabina, non trova dunque alcuna giustificazione ed è vano cercare di far luce sulla decisione per mezzo della motivazione che rimanda laconicamente senza offrire alcun specifico elemento ai gravi motivi d’urgenza, di cui all’art. 283 c.p.c. Dulcis in fundo per capire a quali mani sia affidata la giustizia bolognese, governata dalla cd. loggia illuminata dei “professori”, la data di discussione della causa iscritta a ruolo nel 2004 viene fissata al 12 MARZO 2010. Cioè a distanza di ben 6 anni…!!! (R.G.A. N. 2437/04 C. App. Bologna – Relatore dott. Fischietti). L’unica urgenza ravvisata dalla Corte d’Appello era evidentemente quella di sospendere l’esecutorietà della sentenza di primo grado, frettolosamente disposta, addirittura, “inaudita altera parte”, eppoi, infine, quella di ridurre di circa 1/4 la misura del risarcimento e di compensare integralmente le spese del grado, forse per punire Sabina e i suoi legali di avere denunciato la lungaggine del procedimento alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e fatto condannare lo Stato Italiano? VERGOGNA!