Archivio Autore: Palau Giovannetti Pietro - Pagina 31

UNA VITA DA CANCELLIERE DI TRIBUNALE PER FINIRE SFRATTATO DAI GIUDICI

UNA VITA DA CANCELLIERE DI TRIBUNALE PER FINIRE SFRATTATO DAI GIUDICI

“L’uomo, sofferente di diabete, negli anni ’90 aveva chiesto un prestito di 60 milioni e gli usurai gli hanno portato via tutto. Ora è su una strada” (Manuela D’Alessandro, Libero, p. 33, 29/6/04).

Così titola l’unico quotidiano italiano che ha parlato del caso, seppure la storia di Francesco Santomanco sia un caso eclatante e paradigmatico di malagiustizia, trattandosi di una persona anziana e malata, vittima dell’usura, che è stata buttata fuori con la forza pubblica dalla sua abitazione, legato brutalmente con le cinghie alla barella, perché non voleva uscire dalla casa in cui aveva vissuto tutta la vita.

Ciò nel poco nobile scopo di dare esecuzione all’illegittima vendita giudiziaria che aveva visto aggiudicare l’appartamento di sua proprietà, a quotazione del tutto vile, ad una società immobiliare che opera, con probabili illecite aderenze nel Tribunale di Milano, all’ombra del cosiddetto cartello della “compagnia della morte”.

Una parabola kafkiana, scrive Manuela D’Alessandro, di un uomo che ha speso una vita per la giustizia e che dalla giustizia “rischia ora di venire risucchiato in un buco nero”.

“Nella storia del cancelliere vi sono due mostri e un eroe. In ordine di comparizione: l’usura, la magistratura – quando sembra fare di tutto per dimenticare la sua funzione precipua di organo decidente – e (l’Associazione) di Avvocati senza Frontiere”.

“Sorprendentemente, nessuno dei sei giudici dei due tribunali coinvolti, quello milanese e quello bresciano, ha sospeso l’esecuzione dello sfratto coatto. Eppure sussistevano almeno due valide ragioni per farlo. Santomanco è stato riconosciuto dalla stessa magistratura vittima dell’usura… Inoltre soffre di diabete in forma avanzata… La riprova di ciò sono le modalità con cui è stato buttato fuori di casa: legato a doppia cinghia su una barella e con la maschera a ossigeno sul volto. Quello che sconcerta, aggiunge Palau, è come si sia giunti a questo epilogo drammatico.

Nell’ultimo anno io e i legali dell’Associazione abbiamo presentato venti ricorsi per bloccare l’esecuzione dello sfratto. I giudici, senza mai entrare nel merito dei fatti e negare le nostre ragioni, si sono rimpallati la questione da una scrivania all’altra per decidere di chi fosse la competenza.

Così gli usurai hanno potuto portare a termine lo spoglio dell’immobile dove viveva Santomanco”.

Difficilmente la stampa dà notizia di questi ordinari abusi nei confronti delle persone inermi, in quanto mettono in luce il male profondo della nostra società e delle Istituzioni, incapaci di tutelare i deboli, poiché protese a difendere gli interessi dei potenti.

Dell’allucinante odissea giudiziaria di Francesco Santomanco, Dirigente della Cancelleria della 3° sezione civile della Corte d’Appello di Milano, da oltre due anni non ne ha parlato più nessuno, nonostante sia la storia di un uomo onesto che ha denunciato i suoi aguzzini e gli stessi giudici che hanno permesso lo spoglio violento della sua abitazione.

Ciò grazie all’assoluta inerzia della magistratura bresciana e della Prefettura di Milano, a cui si è vanamente rivolto, ai sensi della Legge antiusura, denunciando la vasta “collusione ambientale”, che coinvolge, in generale, le Istituzioni, a seguito della quale si è visto brutalmente gettare in mezzo alla strada, seppure ultrasessantacinquenne, affetto da gravi patologie e privo di altra dimora.

La selvaggia esecuzione è, infatti, avvenuta con il beneplacito del Presidente del Tribunale di Milano, dr. Cardaci e di un gruppo di giudici civili (D’Orsi, Massenz, Canu, Massari, Ferrero, Zevola, D’Ambrosio, Fabiani), che hanno fanno quadrato per difendere una vendita illegittima e l’errore (o il dolo) del giudice che l’ha disposta, senza tenere conto dell’origine usuraria ed estorsiva dei crediti posti a base della stessa e dell’irrisorietà del prezzo di stima.

In buona sostanza, i giudici si sono deliberatamente “palleggiati” per ben un anno gli oltre 20 ricorsi in opposizione all’esecuzione di rilascio forzoso, omettendo di provvedere sulle reiterate istanze di sospensione dello sfratto, presentate dal difensore, così consentendo di portare ad estreme conseguenze il disegno criminoso dei gruppi usurari, tanto da provocare l’apertura di un procedimento penale avanti alla Procura di Brescia per “abuso continuato in atti d’ufficio, falso ideologico e favoreggiamento, finalizzati all’estorsione”.

Procedimento che vede, peraltro, anche, l’inerzia del P.M. di Brescia che non ha, neppure, provveduto a distanza di mesi, sull’istanza di sequestro penale e conservativo dell’immobile.

Inerzia che caratterizza anche la Procura Generale della Cassazione e i Ministeri dell’Interno e della Giustizia, a cui si è, invano, richiesto di intervenire per ristabilire la legalità e fare luce sullo oscuro ambiente delle vendite giudiziarie del Tribunale di Milano, notoriamente controllato dalla c.d. “compagnia della morte”, per cui furono arrestati un gruppo di avvocati e cancellieri, senza, peraltro, intaccare il livello più alto e le complicità dei magistrati (La Repubblica, “La Scommessa del Tribunale di Milano”, 11.11.2003).

LA STORIA.

L’incredibile storia di ordinaria ingiustizia, per chi conosce il reale funzionamento delle aste giudiziarie e il clima di oscure connivenze istituzionali in cui versa la giustizia italiana, nasce a seguito di un prestito di Lire 60.000.000 e successive pretese aventi palese natura usuraria ed estorsiva, da parte di società finanziarie e soggetti privati con influenti aderenze nel sottobosco affaristico-giudiziario, per cui il nostro malcapitato di turno è stato ingiustamente sottoposto al duplice pignoramento, sia della propria abitazione che di un secondo immobile di famiglia, entrambi molto appetibili, in quanto siti in zona centrale di Milano, che sono stati ovviamente stimati a valore infimo, onde potere pilotare l’acquisto su società immobiliari e soggetti vicini al torbido ambiente delle aste giudiziarie, come detto, notoriamente controllate dalla famigerata “compagnia della morte”.

La somma iniziale di Lire 60.000.000, seppure restituita con tassi sempre crescenti, è via via lievitata fino a quasi Lire 900.000.000, costringendo la vittima a firmare cambiali, ipoteche ed obbligazioni di ogni sorta, senza che esistesse alcuna ulteriore dazione di danaro o nuovo “prestito”, con la conseguente evidente natura usuraria ed estorsiva delle maggiori esorbitanti somme poi pretese in sede di pignoramento immobiliare, a seguito del quale è stata disposta la vendita dei due immobili, nonostante plurime opposizioni, istanze di riduzione del pignoramento e denunce.

Mentre il debito saliva così vertiginosamente alle stelle la famigerata “compagnia della morte”, grazie alle diffuse complicità tra giudici, notai e periti della 3^ sezione del Tribunale di Milano, riusciva a fare scendere, al di sotto di qualsiasi immaginabile valutazione di mercato, la stima dei due immobili, siti in pieno centro di Milano (euro 1500 al mq.!).

Con il risultato di riuscire a derubare “in forma legale” il malcapitato soggetto passivo, che, oltre all’usura, diviene vittima anche di un’estorsione paragiudiziaria, avallata dai magistrati. Ciò nonostante, ad avviso dei giudici denunciati che si sono dichiarati incompetenti a decidere, non esisterebbero motivi per sospendere l’illegittima procedura esecutiva.

Per capacitarsi dell’abnormità di tale negazione di tutela basta ricordare che il Giudice dr.ssa Massenz ha iniquamente negato la riduzione del pignoramento e una nuova stima, nonostante trattasi di due immobili, entrambi di alto pregio e valore commerciale, per cui la vendita di uno solo al reale valore di mercato sarebbe stata sufficiente a coprire l’intera pretesa creditoria.

Infatti, il perito, geom. Lapomarda, denunciato per falsa perizia, ha valutato appena Euro 1500 al mq. i due immobili, quando dai bollettini della CCIAA e da stime più oggettive e non mendaci, da noi prodotte, risultano valori in zona di almeno 6000 Euro per mq. Una discrepanza talmente vistosa che non poteva esimere i giudici da maggiori approfondimenti e dalla richiesta rinnovazione della stima, posto che, a 1500 Euro al mq., ormai, non si trovano case da comprare, neppure nelle estreme periferie urbane.

In tale contesto, il sig. Santomanco ha proposto, come detto, una serie di opposizioni ex art. 615 e 617 c.p.c. con impugnazione di falso della CTU di stima e del decreto di trasferimento degli immobili, chiedendo l’intervento del P.M. di Brescia, territorialmente competente ex art. 11 c.p.p., in relazione ai reati ipotizzati di falsa perizia, usura, frode processuale, abuso continuato in atti d’ufficio e falso ideologico, finalizzati all’estorsione, anche a carico dei giudicanti che risultassero responsabili di concorso e/o favoreggiamento.

Onde meglio spiegare i gravi abusi ed omissioni in cui sono incorsi il Presidente del Tribunale dr. Cardaci e i vari giudici, via via incaricati, va detto che gli stessi, pur senza mai negare le gravi ragioni del sig. Santomanco ad ottenere la sospensione dello sfratto, ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., hanno fatto il “giuoco delle tre tavole” (questa vince e questa perde), palleggiandosi per un anno, tra Giudice dell’opposizione all’esecuzione (615) e Giudice dell’opposizione agli atti esecutivi (617), i vari ricorsi proposti, al fine precipuo di paralizzare qualsiasi opposizione e ragione, onde consentire alle controparti di portare a termine lo spoglio violento degli immobili.

In proposito, si noti bene che tale distinzione di diritto, dal punto di vista pratico è solo apparente, in quanto si tratta di funzioni racchiuse nello stesso ufficio giudiziario e spesso nella persona del medesimo giudice che, nella specie, togliendosi il cappello, come nei giuochi di prestigio, si qualificava, a seconda della bisogna, o nell’una o nell’altra veste.

Infatti, dapprima, il Presidente del Tribunale di Milano, dr. Cardaci e la dr.ssa Gabriella D’Orsi, Presidente della 3° sezione esecuzioni immobiliare (già indagata a Brescia per avere favorito l’acquisto all’asta, a prezzo irrisorio, di un appartamento in favore della figlia), assegnavano al Giudice della “opposizione agli atti esecutivi” (617) le svariate “opposizioni all’esecuzione”, proposte ai sensi dell’art. 615 c.p.c., i quali senza entrare nel merito e negare la fondatezza delle ragioni addotte, dichiaravano competente a decidere il giudice dell’opposizione all’esecuzione (615), pur senza, tuttavia, mai rimettere gli atti a tale giudice funzionalmente competente.

Infine, dopo avere denunciato tali espedienti, falsità ideologiche e gravi omissioni alla Procura di Brescia, nonchè il ritardo con cui era stata disposta l’assegnazione dei ricorsi ex art. 615 c.p.c., il giudice teoricamente funzionalmente competente, dr.ssa D’Ambrosio, concludeva nel caso del primo immobile di Via Menotti (aggiudicato da una società immobiliare) che “ormai lo sfratto aveva avuto luogo”, mentre nel caso dell’immobile di Via Bellotti che la competenza a decidere sull’invocata sospensione del rilascio coattivo sarebbe stata (sic!) del “giudice dell’opposizione agli atti esecutivi”…! Proprio come nel giuoco delle tre tavole.

Peccato che a perdere questa volta siano i cittadini onesti e l’immagine stessa della giustizia che ormai tutti possiamo capire sia priva di credibilità e prospettive se non si cambia direzione (Fonti: atti procedimenti P.M. di Milano, dr. Spataro, R.G.N.R. 14114/03/21, nonché R.G.N.R. 1036/04 P.M. Brescia).

IL DRAMMATICO BRUTALE EPILOGO.

Dalla notte del 24 giugno 2004 l’anziano malato cancelliere ultrasessantacinquenne vittima dell’usura trovava rifugio e dimora al Dormitorio pubblico di Viale Ortles, con i vestiti lacerati e una prognosi di gg. 5 per le varie lesioni inflittegli, a seguito del brutale sfratto con la forza pubblica, che nessun giudice ha voluto sorprendentemente sospendere, anche per breve tempo, nonostante la pendenza di diversi procedimenti e le gravi ragioni addotte, che traggono origine da una preordinata azione estorsiva e dalla sottostima della sua abitazione, alienata a valori infimi.

In particolare, va denunciato che l’esecuzione ha avuto luogo con modalità violente, nonostante le sue gravi condizioni di salute, attestate dal medico della A.S.L. presente e dai sanitari che lo avevano giorni prima dimesso dall’ospedale Fatebenefratelli, ordinandogli un periodo di cure domiciliari e assoluto riposo per almeno tre mesi.

Da ultimo, occorre segnalare la sparizione e mancata registrazione della denuncia penale contro l’Ufficiale Giudiziario, gli agenti di P.S., i barellieri e lo stesso medico della A.S.L. che hanno dato causa, con i loro accondiscendenti e colpevoli comportamenti, allo spoglio violento dell’abitazione del sig. Francesco Santomanco, in cui lo stesso Presidente di “Avvocati senza Frontiere” ha riportato delle lesioni e subito un fermo illegale di 10 ore, pur essendosi semplicemente opposto verbalmente al tentativo (pure illegale) di sequestrare la macchina fotografica di un professionista free lance che lavorava per le Agenzie stampa, il quale aveva ripreso gli atti di violenza subiti dal Sig. Santomanco che, pur respirando faticosamente con la bombola di ossigeno, era stato afferrato per le braccia e le gambe, trascinato e legato a forza sulla barella, nonostante avesse rifiutato il ricovero coatto, denunciando che nessun cittadino può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario contro la sua volontà (art. 32 c. 2 Cost.).

Anche in questo caso un diritto che, seppure enunciato dalla Costituzione Italiana (libertà di cura), non è stato garantito, né dalla Polizia di Stato, né dalla A.S.L., né dai barellieri della Misericordia Città di Milano (i quali, pur essendosi dapprima rifiutati, poi si sono lasciati convincere dalle intimidazioni ricevute), né tantomeno dalla Magistratura alla quale sono stati denunciati i gravi fatti.

In buona sostanza, la Polizia di Stato ha preferito avventarsi su un anziano infermo e sul fotografo, impossessandosi del rullino e mettendo le manette all’esponente di una Onlus, che reclamava il rispetto della legalità; le Autorità Sanitarie e gli stessi volontari della Ambulanza “Misericordia Città di Milano” hanno preferito, invece, lavarsene le mani, accondiscendendo a ciò che dapprima loro stessi avevano reputato illegittimo (il medico firmando il ricovero rifiutato dal paziente e i barellieri trascinandolo e legandolo a forza sulla barella); mentre i Magistrati aditi delle Procure di Milano e Brescia hanno preferito, i primi fare sparire la denuncia-querela 22.9.04 (tuttora priva di registrazione), e i secondi omettere di svolgere qualsiasi indagine nei confronti dei colleghi di Milano, affossando ogni procedimento (Denuncia-Querela del 22.9.04 Francesco Santomanco e Pietro Palau Giovannetti, Procura Repubblica presso il Tribunale di Milano – non registrata) .

UN’ALTRA ESECUZIONE SELVAGGIA DI ALER CONTRO DUE ANZIANI

UN’ALTRA ESECUZIONE SELVAGGIA DA PARTE DELL’ALER CONTRO DUE ANZIANI INVALIDI

 

Il caso dei coniugi Antonio Ferrari e Vilde Elda Bini, due vecchietti ultrasettanticinquenni invalidi e gravemente malati, che, anziché venire aiutati dalle istituzioni, si vedranno buttare in mezzo alla strada e spogliati della loro unica abitazione, dove sono vissuti per oltre 30 anni, nasce con il passaggio dalla gestione Gescal a quella dell’Istituto Autonomo Case Popolari (IACP), allorquando l’ex IACP e in seguito l’ALER pongono in essere una serie di condotte volte a conseguire un flusso ininterrotto di illeciti profitti (extra legem) nei confronti dei 9000 assegnatari di alloggi popolari della Lombardia, i quali godono del canone sociale a condizioni agevolate rispetto al mercato.

Il meccanismo è quello classico utilizzato dagli speculatori del settore immobiliare: da una parte gonfiare fraudolentemente le spese accessorie e dall’altra separare le richieste di pagamento del canone dell’abitazione da quello del box pertinenziale, per cui vengono via via pretese somme sempre maggiori, prima in base all’equo canone eppoi al libero mercato, ignorando le leggi previgenti in materia di canone sociale e pertinenzialità tra abitazione e box (per cui non può venire preteso un canone disgiunto nè tantomeno a valori di libero mercato), nonché le stesse numerose pronunce del Tribunale e della Corte di Appello di Milano, tutte favorevoli agli assegnatari, tra cui i coniugi Ferrari.

In tale contesto, dopo 25 anni di cause vittoriose, durante i quali Iacp e Aler hanno ciò nonostante continuato a pretendere indebitamente maggiori somme, dietro minaccia di sfratto e azioni ingiuntive, il caso perviene agli sportelli di Avvocati senza Frontiere circa sette anni fà, quando ormai si era dimenticata l’esistenza delle vittoriose sentenze che imponevano all’ex IACP l’applicazione del canone sociale, dovendosi ritenere il locale box, compreso nella superficie abitativa dell’alloggio principale, in base ai principi vigenti.
Ciò mentre l’ALER, che era subentrato allo IACP, non si accontentava più di pretendere il solo equo canone, anziché quello sociale, più favorevole, previsto dalla legge n. 392/78, bensì esigeva, sempre dietro minaccia di sfratto ed ingiunzioni coattive, il pagamento di canoni a valori di libero mercato, mai pattuiti, né accettati dagli assegnatari che, in gran parte si erano rifiutati di firmare i nuovi contratti vessatori.
A questo punto il Sig. Ferrari, unitamente ad altre 200 famiglie, patrocinate da Avvocati senza Frontiere, chiede al Tribunale di Milano di dare esecuzione alle sentenze vittoriose che in oltre 25 anni di cause avevano visto la piena soccombenza dello Iacp, inibendo all’Aler di pretendere somme maggiori da quelle stabilite contrattualmente.
Senonché, i vari giudici milanesi incaricati erigevano un vero e proprio muro protettivo, anche in sede penale, per consentite all’Aler di continuare ad esigere somme palesemente non dovute, negando ai ricorrenti qualsiasi forma di tutela cautelare immediata, volta ad inibire gli sfratti e le pretese di canoni extra legem, pur in assenza di sottostanti contratti di locazione, in base a quali l’ALER possa legittimamente fondare le proprie pretese, che appaiono quindi di natura estorsiva (il caso è più diffusamente spiegato in altre pagine web dedicate all’Aler).

E così che, mentre le cause di merito continuano a venire trascinate da svariati decenni, che giungiamo allo sfratto degli anziani coniugi Ferrari e Bini, per cui ieri i legali di Avvocati senza Frontiere hanno depositato l’ennesimo ricorso per la sospensione dell’esecuzione.

G8 GENOVA: CONDANNATI IN APPELLO I VERTICI DELLA POLIZIA

 

G8 GENOVA: CONDANNATI IN APPELLO I VERTICI DELLA POLIZIA.

Nella tarda serata di ieri e’ stata resa nota la sentenza che ribalta quella di primo grado per i disordini e l’irruzione della polizia alla scuola Diaz, nella notte tra il 20 e il 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova.
I giudici della Terza sezione della Corte d’Appello di Genova, dopo oltre undici ore di camera di consiglio, hanno infatti condannato venticinque imputati su ventisette a pene da tre anni e otto mesi fino a cinque anni, con l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni..
Sono stati ritenuti colpevoli anche i vertici della polizia, assolti nella sentenza di primo grado. Secondo i giudici, anche loro erano a conoscenza di quello che sarebbe accaduto nella scuola Diaz. Il capo dell’Anticrimine Francesco Gratteri e’ stato condannato a quattro anni, l’ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini a cinque, l’ex vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi (attualmente all’Agenzia per le informazioni e la sicurezza interna) a quattro anni, l’ex dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola (ora vicequestore vicario a Torino) a tre anni e otto mesi, l’ex vicecapo del Servizio centrale operativo Gilberto Caldarozzi a tre anni e otto mesi.
Molti dei funzionari condannati in appello hanno fatto carriera dal G8 di Genova del 2001 a oggi. E in quelle giornate presidente del Consiglio era sempre Silvio Berlusconi che ora dovra’ decidere se rimuovere dai loro attuali incarichi coloro che sono stati riconosciuti colpevoli e fornire una propria versione dei fatti risalenti a nove anni fa.
Le polemiche tornano a riguardare anche Giovanni De Gennaro, attualmente al vertice del Cesis, l’ufficio di coordinamento dei servizi segreti. All’epoca dei fatti del G8 di Genova, De Gennaro era capo della polizia. Nell’aprile 2008 era stato chiesto il suo rinvio a giudizio per istigazione alla falsa testimonianza proprio per i fatti Genova e in particolare per cio’ che era accaduto alla scuola Diaz. De Gennaro e’ stato poi assolto da questa accusa in una sentenza emessa nell’ottobre 2009.
Pio Macchiavello, il procuratore generale della Corte d’appello di Genova, aveva chiesto oltre 110 anni di reclusione per i ventisette imputati. Il magistrato ha usato parole molto dure nella requisitoria: ”Non si possono dimenticare le terribili ferite inferte a persone inermi, la premeditazione, i volti coperti, la falsificazione del verbale di arresto dei novantatre no-global, le bugie sulla loro presunta resistenza. Ne’ si puo’ dimenticare la sistematica e indiscriminata aggressione e l’attribuzione a tutti gli arrestati delle due molotov portate nella Diaz dagli stessi poliziotti”.
In primo grado erano stati condannati solo tredici imputati e ne erano stati assolti sedici, tutti i vertici della catena di comando della polizia che agiva a Genova nel luglio 2001.
In primo grado furono infatti assolti Francesco Gratteri, attualmente capo dell’Antiterrorismo, Giovanni Luperi; Gilberto Caldarozzi e Spartaco Mortola. Un inasprimento di pena – da tre anni a quattro anni – e’ stato previsto nella nuova sentenza per gli agenti che hanno materialmente picchiato i manifestanti che avevano deciso di stazionare nella scuola Diaz.
Per i funzionari che firmarono i verbali che davano la versione ufficiale dei fatti negando il pestaggio indifferenziato la Corte ha stabilito pene per tre anni e otto mesi ciascuno. Prosciolti, per intervenuta prescrizione, Michelangelo Fournier, il funzionario di polizia che aveva dichiarato, dicendosi pentito, che quanto avvenuto alla scuola Diaz assomigliava a ”macelleria messicana” e l’agente Luigi Fazio.
In aula, al momento della lettura delle sentenza, c’erano molti cittadini stranieri (tedeschi e inglesi in particolare) che nella notte del 20 luglio 2001 erano nella scuola Diaz: hanno applaudito a lungo il verdetto. Positivo il commento dell’ex senatrice Heidi Giuliani, mamma di Carlo, il ragazzo ucciso da un carabiniere nella stessa giornata del 20 luglio dei fatti alla scuola Diaz di nove anni fa: ”Avere una risposta di giustizia fa sempre piacere in questo paese”.
Soddisfatta pure Enrica Bartesaghi, presidente del comitato Verita’ e giustizia per Genova: ”E’ incredibile, non ci aspettavamo questa sentenza, si riapre uno spiraglio di fiducia. E’ stata riconosciuta la catena di comando. Tutti quelli che c’erano sono responsabili”. Soddisfazione anche da parte degli avvocati dei manifestanti. Secondo Stefano Bigliazzi, uno di questi: ”E’ stata confermata la nostra tesi che i vertici di polizia sono responsabili dell’operazione di quella notte”.

Da: ASCA

GENOVA: VIOLENZE DELLA POLIZIA

TORTURATA N° 81

Subiva minacce anche a sfondo sessuale da persone che stavano all’esterno “entro stasera vi scoperemo tutte”; subiva percosse al suo passaggio nel corridoio da parte di agenti; colpita con violenza con una manata alla nuca; costretta a firmare i verbali relativi al suo arresto, che la stessa non voleva firmare; mostrandole le foto dei suoi figli, prospettandole che se non avesse firmato non avrebbe potuto rivederli.

TORTURATO N° 11

Percosso con calci e pugni alla schiena e insultato, costretto a stare coricato a terra prono con gambe e braccia divaricate e testa contro il muro; ingiuriato con frasi, ritornelli ed epiteti a sfondo politico (“comunisti di merda” “vi ammazzeremo tutti”); percosso al passaggio nel corridoio e insultato anche con sputi; costretto a stare a carponi da un agente che gli ordinava di abbaiare come un cane, e di dire “Viva la polizia italiana”.

TORTURATA N° 21

Percossa nel corridoio durante l’accompagnamento ai bagni, le torcevano il braccio dietro la schiena nonché colpita con schiaffi e calci; insultata con epiteti rivolti a lei e alle altre donne presenti in cella: “troie, ebree , puttane”, ingiuriata con sputi al suo passaggio in corridoio; minacciata di essere stuprata con il manganello e di percosse; costretta a rimanere, senza plausibile ragione, numerose ore in piedi.

I giorni 27 e 29 gennaio 2005 a Genova, è cominciato il processo con l’udienza preliminare a carico di 47 funzionari ed agenti delle forze dell’ordine e del corpo delle Guardie Carcerarie, medici ed infermieri: 12 carabinieri, 14 agenti di polizia, 16 guardie penitenziarie, 5 tra medici e infermieri accusati delle violenze commesse ai danni degli arrestati e dei fermati, da venerdì 20 alla domenica 22 luglio 2001, nella caserma di Genova Bolzaneto.

Non essendo previsto nel nostro ordinamento uno specifico reato di tortura, la Procura della Repubblica ha chiesto il rinvio a giudizio per i reati di abuso d’ufficio, lesioni, percosse, ingiurie, violenza privata, abuso di autorità contro gli arrestati, minacce, falso, omissione di referto, favoreggiamento personale.

Nessuno dei presunti responsabili delle torture è stato nel frattempo rimosso o almeno sospeso dai propri incarichi.

link:Comitato Verità e Giustizia per Genova.

http://www.veritagiustizia.it

Sfrattati per soli 20,00 euro di "morosità"

Sfrattati per soli 20,00 euro di “morosità”

A quali giudici affidiamo i ns. diritti?

Un’altra sentenza destinata a fare discutere quella che il 3 marzo u.s. i giudici della terza sezione civile della Cassazione, Relatore Dr. Mario Finocchiaro, sono chiamati a pronunciare nella causa promossa dal Sig. Umberto Ippolito, un operaio in cassa integrazione, assistito da “Avvocati senza Frontiere”, contro la Cefalo Vecchio s.a.s., società immobiliare di proprietà di Roberto Mazzotta, Presidente di Banca Popolare di Milano, assistito dall’avv. Emanuele Cirillo, Presidente dell’Ordine Avvocati di Monza.

Siamo ormai abituati a sentirne di tutti i colori dai giudici della Cassazione, ma quanto, forse, resterà senza precedenti giuridici nella storia del diritto è che una famiglia di onesti lavoratori possa vedersi buttare in mezzo alla strada per appena quarantamila lire di differenza sul calcolo degli interessi di mora dell’affitto, con il beneplacito del Supremo organo di legittimità, il quale, pare, ritenga sussistere la gravità dell’inadempimento, tale da giustificare la risoluzione del contratto, ai sensi art. 1455 c.c. (art. 55 L. 392/78).

Così minacciano di andare le cose se il Collegio dovesse accogliere le poco accorte richieste del Relatore, Dr. Finocchiaro e del P.M. di udienza, Dr. Scardaccione, i quali il 3 marzo u.s. hanno richiesto il rigetto del ricorso, sostenendo, senza probabilmente avere letto attentamente gli atti, che la morosità consisteva in Lire 40.000.000, anziché in sole Lire 40.000, e che il ricorso non avrebbe contenuto (sic!) “motivi di diritto ma solo di fatto”.

La storia della famiglia del Sig. Ippolito risale agli anni ’80 e segue la fortuna del banchiere Mazzotta, già assurto alle cronache giudiziarie per fatti di corruzione, ai tempi di Tangentopoli, la cui società ha preteso ininterrottamente dagli inquilini degli immobili di sua proprietà canoni e spese condominiali gonfiati a dismisura, godendo di facili sfratti concessi “senza guardare troppo per il sottile” da taluni giudici del Tribunale di Monza e della Corte di Appello di Milano.

Giudici i quali, come accaduto giorni fa in Cassazione, hanno fatto di tutto e di più per cercare di disconoscere i diritti degli inquilini che hanno sempre contestato la sussistenza della pretesa morosità, chiedendo vanamente una perizia contabile sulle somme effettivamente dovute sia per canoni sia per spese.

Domande, mai, illegittimamente, esaminate nel merito dai giudici di prime cure, i quali, per di più, senza considerare che il Sig. Ippolito aveva pagato integralmente le somme indebitamente pretese, non hanno, neppure, tenuto conto di un macroscopico “errore” nel calcolo degli interessi di mora, valutati in lire 40.167 in più, rispetto al dovuto (è stato applicato il tasso del 10% anziché quello di legge, all’epoca vigente, del 5%).

Senza contare poi che, viceversa, è il Sig. Ippolito a risultare creditore di ben 70.000,00 Euro, per somme versate in eccedenza nell’arco degli ultimi vent’anni, come evidenziato da una Consulenza contabile disposta dal Tribunale di Monza in una parallela causa che accerta che non sono dovuti dagli inquilini i canoni e le spese nella misura indebitamente pretesa dalla società del Mazzotta.

Apparirebbe, quindi, del tutto sconcertante che la Cassazione oggi avallasse l’errore materiale di calcolo e di diritto in cui sono incorsi i giudici del Tribunale di Monza e della Corte di Appello di Milano, che non avrebbero certo potuto legittimamente dichiarare “grave” il preteso inadempimento di appena lire 40.167, anche laddove si volesse considerare effettivamente dovuta, contro realtà, tale differenza derivante da un errore di calcolo.

Errore che, nella specie, ove oggi venisse incautamente ripetuto dal Supremo Collegio, sarebbe veramente diabolico ed un vero e proprio stravolgimento delle norme giuridiche, tenuto conto che l’asserita risibile morosità di L. 40.167 si fonda, altresì, sull’omessa applicazione della legge sull’equo canone (artt. 45 e 79 L. 392/78) e delle procedure in materia di prove e di indebito arricchimento.

Infatti, le 40.167 lire di differenza non dipendono solo dal predetto errore di calcolo, ma, altresì, dall’erronea lettura del contratto di locazione, in base al quale il canone annuo previsto non era di L. 4.000.000, oltre le spese, come fraudolentemente asserito nell’intimazione di sfratto, convalidata dai giudici di prime cure, bensì di L. 2.800.000.

Con la conseguenza che le rate asseritamente scadute non erano di L. 1.265.276 cadauna, bensì di L. 890.000 cadauna e, quindi, che, a maggiore ragione, non sussisteva palesemente alcuna pretesa morosità e motivo di sfratto né, tantomeno, alcun residuo interesse di L 40.167 sul pagamento dei canoni di locazione, che erano sempre stati, per oltre 12 anni, regolarmente corrisposti, pur contestando le indebite maggiorazioni che hanno determinato, come sopradetto, un maggior credito del sig. Ippolito di ben Euro 70.000,00, che i giudici, scandalosamente, hanno ignorato, limitando la loro attenzione alla sola ridicola questione della pretesa morosità di ben 20 euro… (!) avanzata pretestuosamente dalla società del Dr. Mazzotta con evidente malafede e altre finalità.

Senza, poi, tenere conto, dulcis in fundo, dell’ulteriore errore – allarmante se si considera che è stato posto in essere da magistrati – che gli interessi sono stati calcolati nella misura del 10% e non già in quella minore di legge all’epoca vigente pari al 5% e, per di più, che gli aggiornamenti Istat applicati non operano sulle spese ma solo sui canoni e non in misura superiore al 75% della variazione annuale.

Fatti per i quali Avvocati senza Frontiere ed il Sig. Umberto Ippolito, ipotizzando malafede e dolo collusorio, da parte degli organi giudicanti, hanno già depositato un particolareggiato esposto alla Procura di Brescia per falso ideologico, abuso e interesse privato in atti d’ufficio, a carico dei primi giudici di Monza e Milano, auspicando di non doversi ripetere anche presso la Procura di Perugia, a carico dei giudici della Cassazione, cosa per cui hanno già notiziato il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ed il Presidente della 3° sezione civile, Dr. Nicastro, affinché assumano i più opportuni provvedimenti.

DI TOMMASO. UN’INTERA FAMIGLIA DISTRUTTA DAL CONNUBIO TRA MALASANITA’ E MALAGIUSTIZIA. APPELLO PER AIUTARE IL FIGLIO.

DI TOMMASO. UN’INTERA FAMIGLIA DISTRUTTA DAL CONNUBIO TRA MALASANITA’ E MALAGIUSTIZIA. APPELLO PER AIUTARE IL FIGLIO.

Il sig. Pietro Di Tommaso è morto due volte, prima per l’incuria dei medici, e poi per la complicità di tutti coloro che in seno alla magistratura ne coprono le gravi responsabilità per oscuri interessi e/o perversi vincoli corporativi. Connivenze e omissioni che qualche anno dopo hanno provocato la morte precoce anche della moglie, distrutta dal dolore e dall’impossibilità di trovare giustizia. Attraverso il figlio Daniele ne ricostruiamo la triste storia, lanciando un appello alle istituzioni e alle persone di buona volontà affinché gli sia resa al più presto giustizia e offerto un lavoro per potere sopravvivere.

Daniele infatti dopo la morte dei genitori ha subito un forte trauma, perdendo anche il lavoro di informatico e attualmente versa in condizioni assai precarie, anche sotto il profilo psicologico e dei meri mezzi di sussistenza economica. Tale grave situazione depressiva è aggravata dalla generale indifferenza delle istituzioni al suo caso, nei cui confronti non nutre più ormai alcuna fiducia, percependo una vera e propria ostilità da parte della magistratura, che ritiene responsabile di lentezze, inadempienze e collusioni. Ma vediamone la storia.

Nel febbraio 2001 il sig. Pietro Di Tommaso, di anni 62, padre di Daniele, accusava forti dolori al ginocchio per i quali il medico di base gli prescriveva la somministrazione di antibiotici. Poiché il dolore al ginocchio aumentava i familiari decidevano di recarsi al Pronto Soccorso dell’Ospedale S. Camillo, ove il paziente veniva sottoposto ad una risonanza magnetica, in esito alla quale i medici non riscontravano alcun problema e lo rispedivano a casa.

Ciò nonostante, il dolore continuava ad aumentare e così, dopo una visita di controllo, il sig. Pietro Di Tommaso veniva trasferito alla Clinica S. Vincenzo presso il reparto di Urologia. Qui, eseguite alcune analisi cliniche, era dimesso dopo pochi giorni. Le sue condizioni, però, ben lungi dal migliorare, addirittura peggioravano con comparsa di febbre molto alta e di una grave infezione, trascurata dai sanitari. Iniziava, così, la lunga e dolorosa odissea del povero sig. Di Tommaso che, nell’arco di pochi mesi, lo avrebbe condotto alla morte.

Nell’aprile 2001 veniva nuovamente ricoverato presso la Clinica S. Vincenzo, ove subiva, lo stesso giorno del ricovero, un primo intervento chirurgico per l’asportazione di una fistola, al quale seguiva, a distanza di pochi giorni, un secondo intervento e, di lì a poco, finanche un terzo per un grave e massiccio sanguinamento causato all’atto della rimozione del catetere e addirittura un quarto nel maggio, allorquando il paziente veniva dimesso, senza che si fosse risolto il problema dell’infezione (i medici che ebbero in cura il Di Tommaso sono Scorza Carlo, D’Elia Marco, Di Lorenzo Angelo, Gaffi Marco).

Ed è così che nel Giugno il malcapitato paziente subisce un ulteriore ricovero nella medesima clinica, da cui viene ancora frettolosamente congedato, seppure versi in condizioni precarie, senza neppure sottoporlo ad una visita specialistica di urologia (come risultante dalla cartella clinica n. 1112 del giugno 2001). Cosa ancora più inquietante e criminale, senza neppure prescrivergli una cura farmacologica che potesse tenere sotto controllo l’infezione in corso, come certificata dalla cartella clinica.

Nel luglio il povero Di Tomaso viene nuovamente ricoverato, uscendo poco dopo con l’applicazione di un catetere. Il successivo ottobre, ancorché fosse stata programmata la sostituzione del catetere, il medico curante non riesce ad applicare il nuovo. Trasferito al S. Camillo, viene vanamente eseguito analogo tentativo, a seguito del quale il Di Tommaso viene incredibilmente mandato a casa senza provvedere alla necessaria sostituzione del catetere, seppure per lui di importanza vitale. Infatti, pochi giorni dopo torna ad avvertire stati febbrili, iniziando ad urinare sangue dal taglio della ferita chirurgica improvvidamente provocatagli dall’asportazione della fistola.

Nonostante le rassicurazioni dei nuovi medici del S. Camillo, la situazione clinica non migliora. Quindi il Di Tommaso che accusava anche forti dolori alla spalla, persistendo i sintomi dell’infezione e della febbre, viene nuovamente ricoverato presso il reparto di Urologia dell’Ospedale S. Camillo ove, a causa della febbre alta, risultava impossibile l’intervento chirurgico per l’inserimento del catetere. Alcuni giorni dopo, nonostante la persistenza del quadro febbrile, i sanitari decidevano di sottoporre nuovamente il paziente ad un altro intervento chirurgico per “fistola uretro cutanea. Sepsi urinaria”.

A seguito della comparsa nell’immediato postoperatorio di “crisi respiratoria”, il Di Tommaso veniva trasferito al reparto rianimazione Marchiafava, ove subiva l’ennesimo intervento chirurgico, questa volta di tracheotomia. Dieci giorni dopo veniva trasferito alla rianimazione dell’Ospedale Spallanzani, ove le sue condizioni peggioravano progressivamente e, dopo due attacchi cardiaci, il sig. Di Tommaso decedeva il 21.12.2001 per “shock settico; insufficienza respiratoria; scompenso cardiocongestizio; fistola uretrocutanea perineale; insufficienza renale acuta”. Anziché avvisare i familiari del decesso, seppure questi fossero in attesa fuori dalla sala di rianimazione, i sanitari li mandavano a casa, informandoli solo qualche tempo dopo.

Superato lo smarrimento, i familiari incaricavano uno specialista in Medicina Legale, onde effettuare una consulenza volta ad accertare eventuali profili di responsabilità professionale nella condotta dei sanitari che avevano avuto in cura il povero sig. Pietro Di Tommaso. Consulenza dalla quale è emerso che il decesso “debba essere attribuito ad una serie di atti medici imperiti ed imprudenti”. Ed è a questo punto che, anziché trovare equa riparazione, comincia il calvario giudiziario dei famigliari e il secondo omicidio del padre di Daniele, ad opera della giustizia, che anni dopo comporterà anche la morte della madre, stanca di chiedere giustizia e bussare inutilmente alle porte delle tante istituzioni pubbliche e associazioni, tra cui il Tribunale dei diritti del malato.

Nel luglio 2002, l’allora legale della famiglia Di Tommaso depositava atto di denuncia-querela presso la Procura di Roma, ipotizzando il reato di omicidio colposo. Il procedimento veniva assegnato al P.M. dr.ssa Catia Summaria che, nel corso delle indagini preliminari, acquisiva la documentazione sanitaria e incaricava la dr.ssa Daniela Marchetti ed il prof. Stefano Margaritona di redigere una consulenza, ove veniva attestato che “nella condotta dei sanitari che hanno avuto in cura il Di Tommaso si possono individuare alcuni atti non conformi allo standard di diagnosi e trattamento accettati in casi consimili dalla letteratura scientifica”. Sulla base di tali conclusioni peritali, venivano notificati gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari ai quattro medici che avevano avuto in cura il sig. Di Tommaso.

Sennonché, del tutto inspiegabilmente, in seguito, i Periti modificavano il loro giudizio sulla sussistenza di responsabilità penali, giungendo alla conclusione opposta, e cioè che “si ritiene non vi siano fondati elementi per sostenere un ipotesi scientificamente valida di censura nell’operato dei sanitari che ebbero in cura Di Tommaso per il periodo che va dall’Aprile 2001 al decesso del paziente”.

Sulla scorta di tali nuove sconcertanti considerazioni, nel luglio 2004, il P.M. richiedeva disporsi l’archiviazione del caso, a cui veniva proposta immediata opposizione dai famigliari, ritenendo le conclusioni dei consulenti del P.M. fossero totalmente infondate e mendaci. Infatti, attraverso una propria perizia di parte, la famiglia Di Tommaso riusciva a dimostrare come i consulenti del P.M. avessero arbitrariamente ribaltato il loro giudizio, unicamente sulla base di false e indimostrate attestazioni degli indagati, senza che tali asserzioni trovassero alcun riscontro nella documentazione sanitaria in atti; anzi, come alcune di queste affermazioni si ponessero addirittura in contrasto con i dati clinici esistenti. Infatti, nella nuova mendace relazione dei periti del P.M. compare a sorpresa una presunta “complicanza diabetica”, prima mai nominata né esistita che a dire dei sanitari indagati avrebbe provocato il decesso del Sig. Di Tommaso, il quale invero non è mai stato affetto da tale patologia…!

In tale contesto, il legale della famiglia Di Tommaso, Avv. Maccioni Stefano, rinuncia senza alcuna motivazione al mandato, impedendo alla stessa di fare luce sull’operato di medici, periti, giudici e degli stessi avvocati delle parti, che sembra intendano coprirsi vicendevolmente, affossando le indagini e impedendo l’accertamento della verità.

Il 2 giugno 2005 per il dolore si spegne prematuramente anche la Sig.ra LORETI Romilde, che non riesce a darsi pace per la morte del marito, ucciso prima dall’incuria del sistema sanitario eppoi da quello della giustizia di parte. Daniele non si da per vinto e da solo continua a lottare per fare emergere la verità sulla morte del padre, causata dall’imperizia e negligenza dei sanitari. Lo sgomento per la prematura morte dei genitori lo porta a trovare la forza di scontrarsi con un sistema di potere cinico e corrotto di cui fanno parte periti, avvocati e magistrati senza scrupoli che hanno dato l’oggettiva impressione di intendere coprire con ogni mezzo le gravi responsabilità dei sanitari.

Nel dicembre 2005, dopo una seconda arbitraria richiesta di archiviazione, grazie all’esemplare coraggio e opposizione di Daniele, coadiuvato da Avvocati senza Frontiere, che ne ha pubblicato il caso, dopo ben quattro anni dai fatti è stato finalmente richiesto il rinvio a giudizio di tre sanitari del Presidio Ospedaliero Integrato Portuense (ora denominato POLICLINICO DI LIEGRO).

Ma, intanto, Daniele, scosso per la morte dei genitori, è rimasto disoccupato, dopo il licenziamento, non ce la fa più e chiede aiuto. E’ un bravo informatico. Chi potesse aiutarlo in qualsiasi forma potrà segnalarlo all’Associazione Movimento per la Giustizia Robin Hood, anche telefonicamente allo 02/890.72.122.

Purtroppo, il corso della giustizia si preannuncia ancora lungo e tortuoso, nonostante la richiesta di rinvio a giudizio e le conclusioni rassegnate nella nuova Perizia eseguita dal dott. RIZZOTTO, specialista in urologia, andrologia, e nefrologia, Direttore del Dipartimento di Chirurgia della A.s.l. di Viterbo e Primario all’Ospedale Belcolle di Viterbo, il quale tra l’altro afferma che: “il Di Tommaso è stato ricoverato inutilmente fino al 25 agosto 2001” e che… “Elementi di censura professionale per negligenza, imprudenza, imperizia, si possono riscontrare a carico dei sanitari che hanno avuto in cura il Di Tommaso durante i primi tre ricoveri, segnatamente il terzo. Da quel punto in poi il destino del DI TOMMASO era inesorabilmente segnato”.

Nonostante ciò, infatti, l’udienza preliminare del 1.12.05 è stata rinviata, senza discussione, al 19.1.06, perché uno degli imputati (D’Elia) ha prodotto certificazione, proveniente dalla stessa azienda ospedaliera ove esercita la sua professione medica, affermando che non poteva essere presente per “crisi gottosa acuta”. Inizia così la terza fase del calvario giudiziario di Daniele, costellata da una serie di ostruzionismi burocratici, cavilli, omissioni e ritardi, architettati ad arte, mediante uno stillicidio di intoppi ed eccezioni di nullità. All’udienza del 19.1.06 la parte offesa ed il P.M. chiedono il rinvio a giudizio dei medici, ma i legali degli imputati eccepiscono l’inutizzabilità delle indagini eseguite oltre i termini di legge, senza che il P.M. avesse richiesto proroghe, ivi compresa la relazione medico legale del dott. RIZZOTTO…

Ed è così che dopo 5 anni si ricomincia da capo con una nuova perizia per “stabilire le cause del decesso del Sig. Di Tommaso” e la nomina di un diverso perito, che non si capisce bene perché cambia, essendo forse sgradito il Dr. Rizzotto, il quale ebbe già a pronunciarsi sfavorevolmente agli imputati.

Nel frattempo, il P.M. Summaria dispone lo stralcio della posizione del Gaffi, quarto medico indagato, per poi cercare di archiviare più agevolmente il caso, sostenendo che la sua condotta, anche se connotata da presumibili profili di negligenza nell’aver posposto di 5 giorni il ricovero, non apparirebbe rilevante nella causazione della morte del Di Tommaso.

A seguito di ulteriore motivata opposizione, Il Giudice, Dott. CARINI, respinge la richiesta di archiviazione del P.M. e fissa udienza per il giorno 16.2.06, alla quale non si presenta nè il Gaffi nè il suo difensore, in quanto la notifica era stata eseguita oltre i termini di 10 giorni, ragione per cui la trattazione viene rinviata all’udienza del 6.4.06. Nel frattempo viene nominato il nuovo perito e il Giudice esclude la costituzione di parte civile del Movimento per la Giustizia Robin Hood che con l’assenso della parte lesa, quale Onlus riconosciuta che tutela diritti diffusi dei cittadini, chiedeva un risarcimento anche simbolico, tenuto conto del danno che tali comportamenti provocano alla collettività e alla immagine stessa delle istituzioni sanitarie.

Chi volesse aiutare Daniele potrà contattarlo direttamente allo 06-5400648 o al 328-4228786. Man mano, cercheremo di aggiornare il caso, raccontandone gli sviluppi processuali e denunciandone i tentativi di insabbiamento, per cui allo stato il procedimento si trova ancora in fase di indagine con una nuova consulenza medico-legale, affidata a nuovi periti, per stabilire, ad oltre cinque anni dai fatti, le responsabilità per la morte del sig. Di Tommaso…

 

TRIBUNALE DI TOLMEZZO MORTE SOSPETTA DI UN ALPINO

 

TRIBUNALE DI TOLMEZZO MORTE SOSPETTA DI UN ALPINO

ANGELO GARRO e ANNA CREMONA

Via Castel Morrone 5 – 20129 Milano

Telefax: 02.7389527 Cell. 338.9351886

E-mail: angelogarro@libero.it

http://www.alpinorobertogarro.it

Milano, 12 gennaio 2004

…… ………………………………………………………

Ad: Avvocati Senza Frontiere

<avvocatisenzafrontiere@hotmail.com> < movimentogiustizia@yahoo.it>

Io e mia moglie Anna, milanesi, siamo i genitori di un giovane militare di 19 anni, nostro unico figlio, deceduto con tre altri commilitoni, in circostanze misteriose e mai volute chiarire, durante il servizio di leva negli alpini, in Friuli, il 9 giugno 1998. Morte attribuita (riteniamo falsamente) ad un “incidente stradale”, ma, invero, avvenuta a seguito di un inspiegato scoppio e conseguente disintegrazione dell’auto (la circostanza è confermata a verbale) su cui nostro figlio viaggiava.

Anziché indagare sulle cause all’origine del preteso incidente stradale e dell’anomala esplosione che aveva provocato una strage di persone innocenti, la Procura di Tolmezzo si è da subito affrettata a richiedere del tutto ingiustificatamente l’archiviazione del caso, consentendo al conduttore bosniaco dell’autoarticolato investitore di sparire nel nulla. Come se vi fosse un interesse a coprire qualcosa o le responsabilità di qualcuno, dopo soli nove giorni il camion fu illegittimamente dissequestrato e rispedito in Austria, senza alcuna perizia (nonostante si trattasse di corpo di reato che avrebbe dovuto rimanere nella disponibilità degli organi inquirenti).

Singolarmente nessuno ha mai ritenuto interrogare n° 5 commilitoni testimoni oculari né tantomeno parlare della morte di un’anziana donna e svolgere la benché minima indagine sui fatti, mentre il P.M. dr. Enrico Cavalieri avoca a sé ogni nostra denuncia.

Nel frattempo viene smantellato e trasferito tutto lo Stato Maggiore della Caserma.

Ma andiamo con ordine.

La sera del 9 giugno 1998, ormai superato l’8° mese di naja, (naja che svolgeva con molto entusiasmo, tanto da firmare due giorni prima la “rafferma” quale V.F.B. volontario a per un altro anno), dopo averlo sentito al telefonino alle ore 22,30 come solevamo fare tutte le sere, cioè solo cinque minuti prima del Suo decesso; veniamo svegliati in piena notte da una telefonata in cui il Suo comandante col. Paolo Plazzotta ci annunciava la Sua morte e ci invitava per il mattino successivo a presentarci in caserma a Venzone in Friuli per il dovuto riconoscimento.

Riconoscimento che il mattino dopo in caserma ci fu impedito con una serie di giustificazioni che in seguito si rivelarono solo menzogne, impedendoci così anche di dare un ultimo addio al nostro unico figlio; ma il Comando di quella caserma andò oltre, quando alla nostra domanda: quando si svolgeranno i funerali? Ci fu risposto che, essendo le salme sotto magistratura i tempi sarebbero stati lunghi, tanto da convincerci a tornarcene a casa, e così fu per tutti i genitori presenti in quella circostanza, e in attesa di essere richiamati.

Invece il mattino successivo, e in assenza di tutti i genitori dei militari caduti, nel cortile della caserma, (e neanche in chiesa), si svolse la “cerimonia di commiato” come vollero chiamarla, dei quattro militari, dal Reggimento, dai commilitoni, dalla caserma.

Grandi assenti i genitori mai avvisati.

Ma non finì qui la serie di soprusi ingiustificabili avvenuti: Un filmato in nostro possesso ottenuto fortunosamente, documenta la cerimonia, le parole dette, e la partenza di quattro Carri Funebri con le quattro bare separatamente e singolarmente, per i luoghi d’origine dei militi fra cui nostro figlio; Milano, Modena, Parma e Taranto.

Purtroppo, a Milano, dove noi genitori, avvisati appena in tempo stavamo aspettando e nonostante le “scorte armate”, arrivò un volgare e anonimo furgoncino da mercato (truffa ai danni dello Stato) contenente due bare anonime avvolte nella bandiera Tricolore. Quindi consegnata la “nostra” bara, il furgoncino proseguì per Modena per un’altra “consegna”.

Ci sono voluti tre anni di proteste, di manifestazioni per le vie di Milano, una raccolta di 17mila firme, Interrogazioni Parlamentari presentate da tutti i partiti presenti in Parlamento, l’interessamento del Presidente del Senato Mancino e del Presidente della Camera Violante che incontrammo entrambi nei Loro uffici a Roma, due Mozioni del Consiglio Comunale di Milano votale all’unanimità, una Mozione del Consiglio Provinciale di Como, per ottenere finalmente la riesumazione della salma di nostro figlio onde poterne accertare finalmente la vera identità e sapere se fosse veramente tornato definitivamente a casa, o continuare a considerarlo un desaparecido avendo sempre sospettato e temuto uno scambio di salme fra i quattro militari che nessuno aveva mai visto dopo la morte. Ma dovemmo inoltre subire una serie di intimidazioni anche gravi da parte di alcuni alti ufficiali delle FF.AA. nel tentativo di dissuaderci dal continuare nella nostra battaglia per conoscere la verità. Nonostante tutto ciò, vincemmo! Ma a quale prezzo! E con quale risultato!

Il prosieguo della nostra vicenda è ancor più drammatico in quanto a riesumazione avvenuta e avendo fortunatamente ritrovato nostro figlio (per le altre tre famiglie i dubbi restano), abbiamo dovuto constatare e scoprire anche il “vilipendio a cadavere art. 410 c.p.” avendolo il Suo Comando gettato nella bara completamente nudo, sporco e scomposto (tutto è documentato con fotografie e Relazione Medico Legale rilasciata dall’Istituto di Medicina Legale di Milano e dalla magistratura milanese intervenuta per Rogatoria).

Una serie di denunce presentate alla Procura di Tolmezzo competente per territorio ottengono sempre l’immediata archiviazione senza indagini. Sono ormai quattro le denunce presentate e fra Avvisi di archiviazioni (spesso vergognose e assurde che siamo pronti ad esibire), Opposizioni all’archiviazione e quindi definitive Archiviazioni, nonché nuove denunce; tanto da rivolgerci alla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo (che ci rispose positivamente), infine, abbiamo finito con il denunciare anche questo magistrato al C.S.M. al Ministro della Giustizia (incontrandolo di persona), ecc. ecc. per la sua ostinata ed arrogante presunzione dimostrata rifiutandosi in cinque anni di incontrarci ed ascoltarci, rifiutando anche di incontrare il nostro ultimo legale. (Per le avversità incontrate siamo stati costretti a cambiare ben quattro Studi Legali…).

Ormai da troppo tempo ci chiediamo come sia stato possibile in un Paese così “civile” e così cattolico che avvenimenti così vergognosi possano accadere! E perché!?

Inoltre perché nessuno risponde mai ai nostri tanti appelli? (n° 19 al solo Capo dello Stato).

Noi delle risposte ce le siamo date, ma essendo solo supposizioni, non supportate da prove certe, vengono considerate solo inutili illazioni di due genitori sconvolti a cui è stato scippato l’unico figlio. Ma tanto è successo a noi!

E’ amaro constatare che, in tutta questa storia, dalla morte sospetta dei quattro militi, ai funerali non di stato e blindati all’interno della caserma Feruglio, al trasporto fraudolento e oltraggioso tacitamente approvato, dalla violata Consegna Militare inspiegabile ma non troppo, per arrivare al vilipendio di cadavere, questi Ragazzi al servizio dello Stato siano stati trattati al pari di carne senza valore, calpestandone ogni parvenza di rispetto per la dignità umana. Eppure il nostro Capo dello Stato, di questo Rispetto si riempie quotidianamente la bocca, dimostrando così di predicar bene, ma razzolar male; tanto come già detto, non si tratta dei suoi figli,ma figli dei suoi sudditi.

Rendendoci conto che quanto narrato sia già lungo, mi fermo qui per non annoiare, anche se la storia è più lunga e più complessa, fatta anche di estorsioni di denaro da parte di avvocati disonesti e di una infinità di domande senza risposte, come per esempio:

– Perché ci fu impedito di fare il dovuto riconoscimento a nostro figlio previsto per legge ed essendo presenti e darGli un ultimo addio?

– Perché mentirono dicendoci che tutti i militi erano completamente a pezzi?

– Perché non furono ricomposti cristianamente e dignitosamente?

– Perché non ci fu permesso di partecipare alle esequie militari in caserma?

– Perché non furono eseguite autopsie, perizie, e quanto altro?

– Perché fu fatto sparire il testimone chiave bosniaco?

– Perché le indagini si chiusero in soli cinque giorni?

– Perché non si indagò sullo scoppio dell’auto a benzina?

– Perché non si indagò nemmeno sull’Unabomber?

– Perché non si indagò in una possibile faida interna alla caserma (nonnismo)?

– Perché fummo “invitati” a dimenticare?

– Perché ogni nostra denuncia finisce sempre nelle mani dello stesso magistrato che ha dimostrato di esserci avverso archiviandoci sempre tutto?

– Perché si rifiuta da sempre di incontrarci? (lo stesso succede ai genitori di Ilaria Alpi)

– Perché abbiamo dovuto lottare per tre anni per sapere dove era veramente sepolto nostro figlio?

– Perché e cosa si vuole nascondere dietro queste morti?

– Ma soprattutto: chi mise la bomba sull’auto del Bergonzini?

In tal modo vengono ingannate e snobbate migliaia di famiglie colpite da questa catastrofe che è la morte di un proprio congiunto al servizio dello Stato, tanto che di altre storie simili di famiglie sparse per l’Italia abbiamo notizie certe, ma nessuno ne parla; Perché?

Riteniamo di poter affermare che lo Stato Italiano, gioca con carte truccate e bara verso i suoi cittadini che tanto ignari non sono, eppure Esso riesce ancora a gabbarli.

Ci rivolgiamo alla Vs. attenzione per denunciare ed informare la pubblica opinione dell’ingratitudine che il nostro Paese riserva ai suoi caduti; considerando che tale trattamento viene riservato anche ai caduti delle Forze dell’Ordine.

Conclusione: nessuna giustizia per chi muore al servizio dello Stato!

Distinti saluti

Angelo Garro e Anna Cremona

 

TRIBUNALE DI PORDENONE CASO CARNIER

 

TRIBUNALE DI PORDENONE
(Caso CARNIER)
USURA BANCARIA LEGALIZZATA DA GIUDICI E PREFETTURA

 

Un caso emblematico di profonda malagiustizia, quello del prof. Pietro Arrigo Carnier, noto e stimato storico che, anch’egli con la sua famiglia rischia nei prossimi giorni di febbraio 2004 di venire spogliato della propria unica abitazione e vedersi gettare in mezzo ad una strada alla veneranda età di 76 anni, a seguito di usura bancaria e di una procedura esecutiva illegittima.

Per chi non avesse avuto modo di leggere i molteplici articoli sul caso, apparsi sulla stampa locale, il Prof. Carnier si è trovato costretto a denunciare alla Procura di Bologna, vari giudici di Pordenone, tra cui i dott.ri Manzon, Zaccardi, Lazzaro ed altri, per l’ipotizzato favoreggiamento di alcuni Istituti di credito e concorso in usura, in relazione alla vendita all’asta della sua abitazione, che ritiene illegittima, in quanto effettuata nonostante la pendenza di una causa di opposizione alla vendita, ove vengono contestati i tassi anatocistici praticati dalle banche (con punte in taluni casi di oltre il 110%).

L’art. 569 c. 4^ c.p.c. prevede, infatti, che il Giudice non possa disporre l’asta, sino all’esito della sentenza che decide sull’opposizione alla vendita (all’epoca non ancora intervenuta, mentre l’asta era invece già stata abusivamente eseguita in data 26.2.03). Da qui la denuncia per abuso di ufficio e falso ideologico, finalizzati all’estorsione dell’immobile, alienato a soli 180.000 Euro, contro una stima di quasi Lire 1 miliardo.

La storia di ordinaria malagiustizia riguarda alcune banche Venete che, a seguito di un’erronea dichiarazione di protesto per appena 5.000.000 delle vecchie lire (che ha provocato la revoca di ogni affidamento bancario e lo strangolamento finanziario), hanno imposto di mettere all’asta l’abitazione degli anziani coniugi Carnier del valore di quasi un miliardo di lire!
A nulla è valso chiedere ripetutamente la sospensione della vendita e una Perizia Contabile, volta a stabilire la reale situazione debitoria, onde potere accedere alla conversione del pignoramento, facendo rilevare ai Giudici Manzon e Zaccardi, nonché al Presidente del Tribunale, dr. Lazzaro, con una serie di reclami, che risulta del tutto assurdo pretendere che il debitore estorto paghi crediti gravati da tassi usurari con punte del 110%, come attestato dallo Studio Murer, uno dei maggiori studi di revisori dei conti del Veneto, a cui la famiglia Carnier si è rivolta, che ha certificato che la somma pretesa va ridotta di ben Lire 365.247.460!

I Giudici incaricati (prima il Manzon, eppoi Zaccardi, dopo la ricusazione del primo), omettendo di ricalcolare gli interessi, hanno così avvallato le pretese usurarie delle banche e quest’ultimo non si è, neppure, voluto astenere, seppure a sua volta ricusato e denunciato alla Procura di Bologna (territorialmente competente per i reati commessi da Giudici del Veneto) per favoreggiamento, falso ideologico, concorso in usura, omissione e abuso continuato in atti di ufficio.

Scandalosamente, la locale Prefettura ha altresì negato alla famiglia Carnier i benefici previsti dalle recenti Leggi antiusura (proroga di 300 gg. dello sfratto e fondo di solidarietà), adducendo a pretesto contrariamente alle evidenze documentali e all’attestazione della Procura di Bologna che il Presidente del Tribunale di Pordenone, dr. Lazzaro, anch’egli indagato, avrebbe dato parere negativo, dichiarando (n.d.r.: falsamente) che il procedimento penale sarebbe stato (sic!) “archiviato”.

REPLICA AL PRESIDENTE LAZZARO DELLL’A.N.M. PORDENONESE E INVITO ALL’ASSOCIAZIONE MAGISTRATI AD UN PUBBLICO DIBATTITO SUL CASO CARNIER E ALTRI CONSIMILI

Sulla vicenda è intervenuto lo stesso Presidente del Tribunale di Pordenone, dr. Antonio Lazzaro e il Segretario della locale sottosezione dell’A.N.M. Rodolfo Piccin, che con una nota alla stampa, in relazione alle contestazioni mosse dai legali di “Avvocati senza Frontiere”, hanno sostenuto che il Tribunale “non sarebbe tenuto a conoscere come sia sorto il debito e perché non sia stato onorato”, concludendo che “il comportamento del giudice ricusato, dr. Enrico Manzon, sarebbe sempre stato equilibrato e che le denunce di Carnier sarebbero state archiviate dalla competente autorità giudiziaria di Bologna per la loro inconsistenza”.
A queste affermazioni risponde Avvocati Senza Frontiere, ricordando che le cose non stanno così e il Presidente del Tribunale di Pordenone ben avrebbe fatto a documentarsi meglio.
Il procedimento penale a carico del dr. Manzon e di altri giudici di Pordenone è infatti, tuttora subjudice, avanti alla Suprema Corte di Cassazione e non può, quindi, considerarsi tecnicamente “archiviato”.
Il dr. Lazzaro ben dovrebbe sapere che un conto è la richiesta di archiviazione e un altro è il provvedimento definitivo che ne statuisce il passaggio in giudicato.
Con l’ovvia conseguenza che i giudici Manzon, Zaccardi, Fontana, Moscato, Zoso, Botteri e Cobucci Riccio non avrebbero potuto continuare a giudicare (proteggendosi a vicenda) i vari ricorsi, reclami e ricusazioni proposte nei loro confronti, per manifesta incompatibilità e conflitto di interessi.
Va, infine, decisamente, confutato l’assunto della locale A.N.M., secondo cui il prof. Carnier “avrebbe impedito al giudice di prendere in considerazione la domanda di differimento dell’asta, non avendo provveduto al deposito del quinto ritenuto necessario”.
Il Giudice, infatti, come già detto, in pendenza di opposizione aveva l’ineludibile obbligo di sospendere la vendita, sino all’esito della causa, e disporre una Perizia contabile per stabilire le somme, effettivamente spettanti, sgravate dai tassi usurari, come previsto per legge e dalle note sentenze della Cassazione e Corte Costituzionale che vietano le clausole contrattuali nei contratti di conto corrente che prevedono la capitalizzazione trimestrale degli interessi, introducendo il principio del tasso bancario usurario.
In stridente contrasto con tali norme e principi di diritto il Tribunale di Pordenone ha invece pretestuosamente negato la Perizia contabile, demandando l’accertamento alla fase della distribuzione del ricavato, cioè a vendita eseguita, rendendo, pertanto, materialmente, impossibile alla famiglia dell’anziano professore di accedere alla procedura della conversione del pignoramento e conoscere l’esatta misura del quinto da versare.
Questi non possono certo ritenersi comportamenti equilibrati, come sostenuto dal Presidente del Tribunale di Pordenone che invitiamo con la locale A.N.M., se esiste in loro un minimo di onestà intellettuale, a un pubblico dibattito a TeleSerenissima sul tema e su altri casi eclatanti che ci sono stati segnalati, da parte di tanti legali e persone inermi che ritengono la giustizia più sensibile agli interessi delle banche che a quelli sacrosanti dei cittadini vittime dell’usura.

COME LA CASSAZIONE RIESCE AD ELUDERE LA LEGGE PINTO

 COME LA CASSAZIONE RIESCE AD ELUDERE LA LEGGE PINTO

Il Sig. B. L. della provincia di Udine, di professione agente di commercio, nel lontano 1982 si opponeva all’ingiunzione di pagamento dell’imposta locale sui redditi (ILOR) per l’anno 1979, unitamente alla moglie Sig.ra G. F., ricorrendo alla locale Commissione Tributaria di primo grado, poi a quella di grado successivo in appello.
In entrambe le occasioni la Commissione Tributaria di Udine respingeva i ricorsi.

A questo punto il Sig. B. L., nell’anno 1984, ricorreva alla Commissione Tributaria Centrale con sede in Roma, che nel gennaio del 2005, dopo quasi 23 anni di contenzioso, accoglieva il ricorso, stabilendo che il pagamento di tale imposta non ero dovuto da parte del ricorrente.
Il Sig. B. L., patrocinato dall’Associazione Avvocati Senza Frontiere di Milano, a questo punto, in considerazione dell’irragionevole durata del contenzioso, proponeva ricorso secondo quanto previsto dalla legge Pinto (n.89/2001) presso la Corte d’Appello di Bologna, competente per territorio.

Purtroppo le possibilità di accoglimento della richiesta di risarcimento sono limitate.
Forse che i Giudici del distretto emiliano ritengono che un contenzioso possa durare la bellezza di 23 anni senza che vi sia violazione della normativa comunitaria?
Nient’affatto.. Il punto è un altro: come si suol dire fatta la legge, trovato l’inganno…

Con due recenti sentenze la prima n. 17139/04, la seconda 18739/04, la prima sezione della Corte di Cassazione ha affermato che la disciplina sull’equa riparazione, ex lege 89/2001, per violazione del termine ragionevole di durata del processo, non è applicabile alla materia tributaria, a meno che la contestazione esorbiti dalle vertenze aventi ad oggetto la pretesa fiscale dello Stato e sia, invece, riconducibili a controversie relative a diritti e doveri di carattere civile o assimilabile alla materia penale.

Tale giurisprudenza è assolutamente sconcertante in quanto stravolge il dettato normativo dell’articolo 3, comma 3, della legge 89/2001 che testualmente stabilisce : ” il ricorso è proposto nei confronti […] del ministro delle Finanze quando si tratti di procedimenti del Giudice tributario..
Con tale decisione la Legge Pinto viene privata di ogni sostanziale autonomia nell’ordinamento interno, ne riduce la funzione di assicurare piena tutela ai diritti riconosciuti in materia giurisdizionale, segnatamente al diritto di avere un giudizio in tempi ragionevolmente accettabili, in attuazione del dettato di cui all’art. 111 della Costituzione, laddove prescrive la ragionevole durata di “ogni” processo, ivi compreso quello tributario.
A tali conclusioni perviene la totalità degli operatori del diritto, come si può leggere nel commento della sentenza da parte della Dr.ssa Laura Triassi riportato nel numero 36 di sabato 9 ottobre 2004 di Diritto e Giustizia.

Il punto è un altro e non è giuridico…

Presso la Commissione Tributaria Centrale di Roma, rimasta in vigore solo per i contenziosi ante riforma 1992, i tempi decisori erano a dir poco biblici: in media 20 anni…Poiché le Casse dello Stato languono e non si riesce a far fronte alla spesa corrente (salvo levare l’ICI agli immobili ecclesiastici anche di natura commerciale…) la Suprema Corte ha pensato bene di stravolgere la normativa per impedire i risarcimenti ai cittadini vittime della lunghezza processuale!

Un bizantinismo certamente poco onorevole e che ha un’unica conseguenza: ancora una volta paga il cittadino…

Umbria

 

Prima di accingerVi a leggere i vari casi, pensate che si tratta di storie vere, per cui molti uomini sono morti e tante famiglie sono state distrutte dal dolore, senza ricevere alcuna tutela, da parte delle varie Autorità a cui fiduciosamente si erano rivolte. Pensate che non si tratta di casi isolati e non crediate che ciò che è capitato agli altri non possa, prima o poi, capitare, anche, a Voi od, a qualche stretto congiunto. Sarebbe il più grave errore che potreste commettere, dal quale genera l’indifferenza verso i mali della giustizia e su cui si fonda il dominio del male e della menzogna sulla Verità.

Veneto

Prima di accingerVi a leggere i vari casi, pensate che si tratta di storie vere, per cui molti uomini sono morti e tante famiglie sono state distrutte dal dolore, senza ricevere alcuna tutela, da parte delle varie Autorità a cui fiduciosamente si erano rivolte. Pensate che non si tratta di casi isolati e non crediate che ciò che è capitato agli altri non possa, prima o poi, capitare, anche, a Voi od, a qualche stretto congiunto. Sarebbe il più grave errore che potreste commettere, dal quale genera l’indifferenza verso i mali della giustizia e su cui si fonda il dominio del male e della menzogna sulla Verità.