Archivio Autore: Palau Giovannetti Pietro - Pagina 30

DENUNCIA DI UNA MAESTRA DI PRATO

DENUNCIA DI UNA MAESTRA DI PRATO A CUI IL LOCALE TRIBUNALE NEGA OGNI DIRITTO

Da premettere che la Sig.ra C. S. subiva, sin da tenera età, maltrattamenti e percosse da parte del padre, G. B. S., a cui si aggiungeva l’abbandono ed il completo disinteresse della madre, C. V.

Appena diciottenne, all’ennesimo tentativo del padre di metterle le mani addosso, lei scappò di casa e si rifugiò dalla sorella G. S., già coniugata con A. G., chiedendo aiuto e sostegno.

Dopo un primo momento in cui sembrava che la sorella volesse sinceramente aiutarla, entrarono in gioco questioni di natura puramente economica: il padre aveva un discreto patrimonio che, alla morte, il cognato Sig. A. G. (un funzionario di un importante istituto bancario intrallazzato con influenti personaggi locali) cominciò a gestire, minimizzando di fatto l’accaduto e cercando di far apparire la Sig.ra C.S. come mentalmente instabile e disturbata.

Invero, la stessa, pur trovandosi da sola, giovanissima e scioccata, non era affatto malata di mente né si perse d’animo: terminò gli studi conseguendo il diploma da maestra elementare e vinse un concorso per un incarico ad Alessandria.

Dopo qualche anno ottenne il trasferimento a Prato, sua città d’origine, dove cercò di riallacciare i rapporti con la famiglia, ma si trovò di fronte ad un muro invalicabile di odio, cattiveria e accanimento, tale da gettarla in una profonda prostrazione fisica e psicologica.

Grazie alla innata forza di carattere riuscì, in larga parte, ad affrontare e superare tutte quelle problematiche derivatele dalle violenze subite, dagli abbandoni periodici e reiterati dei suoi familiari (la madre, C. V., aveva abbandonato la famiglia di punto in bianco quando la nostra maestra era ancora una bambina e non ha mai tenuto con lei un comportamento “materno”, in definitiva ignorandola; la sorella l’ha allontanata proprio quando aveva trovato la forza di denunciare quello che subiva da anni in casa; la morte della amatissima nonna, l’unica familiare ad averla mai amata e sostenuta sinceramente), dalla solitudine in cui si trovava a vivere, ricorrendo anche all’aiuto di medici seri e preparati che la seguono nel suo percorso di ricostruzione interiore.

Ma veniamo ai fatti.

Nel 1989 la Sig.ra C. S. trovò la forza di formalizzare in una denuncia vera e propria, sporta presso l’allora Commissariato di P.S., la propria situazione, interrompendo, di conseguenza, ogni rapporto con i congiunti.

Il 15.10.1992 morì il padre, in Prato, ma C. S. venne informata solo dopo molte ore e, recatasi presso la casa paterna, trovò a sbarrarle l’accesso un cancello elettrico appena installato.

Di fatto, dalla data della morte del padre, non ha mai avuto accesso né alla casa paterna, né ai documenti relativi alla consistenza patrimoniale del de cuius, che pure sapeva ingente.

Il relativo inventario veniva redatto dalla sorella e dal cognato unilateralmente, senza consultare la Sig.ra C. S., che conseguentemente rifiutava di sottoscriverlo.

Ella sapeva esistere alcuni conti correnti bancari intestati al padre, dove, a detta dello stesso, erano depositati diverse centinaia di milioni di vecchie lire: alla morte del padre questi conti risultavano contenere pochi spiccioli.

Il de cuius lasciava un testamento olografo dove dichiarava di lasciare le sue sostanze alle figlie e che, se non poteva diseredare la moglie (i coniugi non avevano mai formalizzato legalmente la separazione né, tantomeno, avevano chiesto il divorzio), a questa toccasse proprio il minimo di legge; inoltre, lasciava un legato pari al 4% delle sostanze alla nipote A. G..

In successione sono entrati dunque: la casa di Via M. R. (un immobile grande, di 180 mq. con giardino e rimessa), il 50% di un terreno in località Galciana di svariati ettari, con una colonica a rudere, coltivato da un contadino in “affitto” e i beni mobili.

Inspiegabilmente, sin dal momento dell’apertura della successione, la Sig.ra C. S. paga annualmente tasse e balzelli per un valore di circa Lire 70.000.000 (in dieci anni) sui suddetti beni, senza averne mai percepito alcun reddito!!

In particolare, per quel che attiene al terreno, la sorella e lo zio, A. S., proprietario al 50%, si sono sempre rifiutati di corrisponderle la sua quota di affitti (inutili sono state anche le richieste formali avanzate tramite legali) così come la sorella ed il cognato si sono sempre rifiutati di dare le chiavi dell’immobile di Via M. R..

Cominciavano così due cause civili, una per la divisione dell’eredità e una per la simulazione della compravendita (in realtà una donazione) di un immobile in Via M. R., attiguo a quello di proprietà del padre, effettuata tra lo stesso e la figlia G. ed il genero A. G., poi riunite, ed attualmente ancora pendenti innanzi al Tribunale di Prato.

In data 2 aprile 1999 la sig.ra C. S. presentava, tramite il proprio legale, atto di denuncia querela presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Prato, da cui prendeva inizio il procedimento nr. 1296/99 R.G.N.R.

Dato che nulla si muoveva dopo anni, in data 28 dicembre 2001 la Sig.ra C. S. integrava la suddetta querela di mano propria e, contestualmente, veniva interrogata dal P.M. Dott. E. Paolini.

Da sottolineare che detto interrogatorio fu del tutto “SOMMARIO E ILLEGITTIMO”, tanto che la Sig.ra C. S. non veniva informata della possibilità di farsi assistere da un legale, né che le dichiarazioni rese potevano essere usate contro di lei.

Ancora niente.

Si rivolgeva ad altro legale che in data 30.12.2002 proponeva istanza di acquisizione urgente, stante l’impellente scadere dei dieci anni per la conservazione dei documenti, della documentazione bancaria relativa alla situazione patrimoniale del fu G. B. S.

Alla suddetta istanza la Procura rispondeva con il diniego della richiesta e con la richiesta di archiviazione: entrambi gli atti portano la data del 31.12.2002; seguiva la notifica in data 9.01.2003 della richiesta, da parte del P.M., di archiviazione del procedimento, cui veniva proposta tempestiva opposizione in data 18.01.2003.

Ciò nonostante, il G.I.P. di Prato, Dott. Moneti, respingeva indebitamente l’istanza e disponeva l’archiviazione del procedimento, accogliendo la richiesta del P.M. secondo cui le uniche ipotesi di reato astrattamente configurabili sarebbero state quelle di appropriazione indebita di cose comuni, erroneamente ritenute entrambe prescritte, senza rinvenire la continuazione e la sussistenza di ipotesi di reato ben più gravi quali la truffa aggravata e continuata, furto e rapina e frode processuale.

Come spesso accadde quando vi sono interessi cospicui e personaggi di potere, la denuncia presentata dalla Sig.ra C. S. si risolve in un nulla di fatto, mentre la denuncia presentata dalla sorella e dal cognato contro di lei per presunte ingiurie e minacce prosegue a vento in poppa, secondo lo stile della magistratura compiacente con il male e con i potenti.

La Sig.ra C. S. ha così deciso di lanciare tramite Avvocati senza Frontiere un appello per trovare un nuovo difensore che abbia il coraggio di difenderla nelle cause civili (in cui non le viene neppure riconosciuto il gratuito patrocinio perché risulta una facoltosa ereditiera, proprietaria di vari beni immobili e rendite…) e fare riaprire il procedimento penale arbitrariamente archiviato.

Nel suo appello fa presente che tra le persone coinvolte ci sono vari professionisti tra loro collegati, cosa che le ha impedito di risolvere una situazione che si protrae da oltre 13 anni, man mano aggravandosi, tanto da subire vere e proprie forme di mobbing da parte delle istituzioni, anche nell’ambito professionale.

Ciò non deve destare sorpresa poiché è notorio che vi sono poteri occulti in grado di controllare non solo la magistratura, ma tutti gli ambiti istituzionali, riuscendo a influenzare la sorte delle persone che vengono discriminate in varie forme.

In proposito, vale la pena ricordare che l’Ispettore scolastico, dove l’insegnante prestava servizio, è giunto al punto di attribuirle appellativi ingiuriosi, cosa che ha determinato un’oggettiva situazione di mobbing sul lavoro, fino a costringerla a scegliere la via pensionistica a causa delle ripercussioni sulla salute e la sua onorabilità.

Assurdamente alla Sig.ra C. S. è precluso di accedere al gratuito patrocinio in quanto, seppure il suo reddito netto rientri nei limiti previsti dalla legge, percependo solo una pensione di circa Euro 819 al mese, risulta proprietaria degli immobili coereditati, sui quali non ha nessuna gestione né reddito né reale possesso, essendo. però. suo malgrado, costretta a pagarvi le tasse, onde evitare il pignoramento dell’appartamento dove abita

Una delle tante situazioni kafkiane, di cui abbiamo già avuto occasione di parlare diffusamente, che impedisce in radice l’accesso dei cittadini alla giustizia, negando il principio di uguaglianza di fronte alla legge.

 

 

Dobbiamo morire, sì; ma non essere assassinati dalle Istituzioni!

Dobbiamo morire, sì; ma non essere assassinati dalle Istituzioni!

Con l’art.7 del decreto legge 29 marzo 2004 n.80 il consiglio dei ministri ha modificato l’art.58 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali consentendo la candidatura ed il mantenimento della carica a chi é stato condannato con sentenza irrevocabile per il delitto di peculato d’uso. La norma può correttamente essere definita “salva Buzzanca” sindaco di Messina decaduto dalla carica per tale condanna. In allegato il testo trasmesso alle principali testate di stampa ed agenzie. Sollecito le Vs. valutazioni e la massima diffusione. grazie aurora notarianni CON LA VIVISSIMA PREGHIERA D’INTERESSARE ANCHE L’EDIZIONE CARTACEA DEL GIORNALE Gentilissimo Direttore, sicura della sensibilità della Sua testata, ricorro per l’urgenza e la ristrettezza dei mezzi alla posta elettronica per invitarLa caldamente ad interessarsi e dare il rilievo necessario al caso emblematico di noi Cittadini messinesi che eravamo ricorsi alla Giustizia e poi ……… Ora parte importante delle speranze di quei Cittadini sono nelle Sue mani. So che non si tirerà indietro perché si tratta di notizia d’interesse generalissimo che tocca le radici dei temi della democrazia nel nostro Paese. Grazie, resto a Sua disposizione e Le porgo i miei più cordiali saluti Aurora Notarianni Allego: 1) testo della petizione (anche reperibile sul sito www.auravvocato.it) 2) testo dell’appello 3) sommaria esposizione dei fatti Sintesi Antefatto – nella Sicilia dei 61 a 0 (ultime politiche), degli sperti e dei malandrini (come dice Alfio Caruso) i primi mesi della primavera 2003 ha inizio la campagna elettorale di Giuseppe Buzzanca (AN) per la candidatura a Sindaco della città con lo slogan “Adesso tocca a Messina” (più una minaccia che una promessa, penso io). Il candidato, nato a Barcellona P.G., residente a Milazzo, ha rivestito la carica di Presidente della Provincia per ben 10 anni (ecco spiegato lo slogan). Fatto – Nel 1995 il Nostro convola a giuste nozze e decide di trascorrere la luna di miele in crociera partendo da Bari. Purtroppo i collegamenti con la città della Puglia sono assai disagevoli. Non treni, né autobus, né aerei. (…..) Pur di non andar con l’asino il Presidente, decide di utilizzare l’auto blu. Prima di partire però fa un salto in Provincia, saluta gli amici, lascia le ultime direttive (almeno così dice), prende la novella sposa, da il via all’autista alla volta di Bari. Naturalmente al rientro dal viaggio auto blu ed autista erano lì pronti per riaccompagnare a Messina i piccioncini. Sfortuna volle che un consigliere di minoranza, troppo diligente ed assai ficcanaso, nel verificare il bilancio dell’ente non riesce a far quadrare i conti e perciò interpella il Presidente, la Giunta ed il Consiglio sulle ragioni di una trasferta a Bari. Il Presidente si difende assumendo di non essere preparato sull’argomento svolgendo la professione di medico. Certo poiché aveva già commesso un errore – dimenticando la guardia medica che svolgeva nell’isola di Pantelleria per cui era sottoposto a procedimento penale per interruzione di pubblico servizio (reato poi prescritto ……. le lungaggini della giustizia, ahimè) – questa volta per non sbagliare aveva chiesto un parere ad un esperto in diritto amministrativo (avv. Andrea Lo Castro) che lo aveva rassicurato sulla legittimità dell’uso dell’auto blu anche per fini personali. La Procura della Repubblica, intanto, avvia procedimento, acquisisce gli atti e contesta al Nostro i reati di abuso d’ufficio e peculato. Condanna – Dopo varie vicissitudini (il procedimento é dapprima archiviato, il provvedimento impugnato dalla Procura generale, annullato dalla Suprema Corte, poi rimesso al GIP di Reggio Calabria, poi di nuovo a Messina per il dibattimento) e lunghissimi anni di processo la Corte d’appello di Messina condanna il nostro alla pena di 6 mesi di reclusione per i reati di peculato d’uso e abuso d’ufficio, oltre pene accessorie di legge. Nonostante ciò e nonostante il chiaro dettato della normativa sul diritto all’elettorato passivo – inibito, fra l’altro, a chi ha riportato condanne per reati contro la pubblica amministrazione – il dr. Buzzanca, con la benedizione dei parlamentari Domenico Nania (AN) e Rocco Crimi (FI) propone la sua candidatura ……. Supera la competizione elettorale (voti 77.529) e conquista la poltrona di Sindaco. Sta già cominciando la spartizione quando la Cassazione il 5.6.2003 respinge il suo ricorso avverso la sentenza di condanna che diviene quindi irrevocabile, definitiva. (per il testo integrale www.lexitalia.it copertina novembre o www.cittadinolex.kataweb.it). La notizia del deposito delle motivazioni ha clamore sulla stampa nazionale. In sintesi estrema: Il politico che utilizza l’auto blu per accompagnare la propria signora commette il reato di peculato, in quanto la consorte è estranea alle esigenze di servizio. Il responsabile dell’amministrazione territoriale, “(a prescindere dalla sua professione quale privato) ha il dovere giuridico di conoscere le normative che attengono al ruolo pubblico ricoperto, non affidatogli per decreto dell’autorità, ma conseguito per libera scelta al momento della presentazione delle liste elettorali, al momento in cui il gruppo di appartenenza politica consegue la maggioranza, al momento in cui la sua stessa maggioranza lo elegge al vertice dell’amministrazione pubblica locale”. Sussurri – Inizia così un lento, insopportabile mormorio. Che fare, cosa conviene ….. Le forze politiche di centro sinistra temono accuse (?) di giustizialismo. Confondono, come spesso accade, il sostantivo GIUSTIZIA dall’aggettivo sostantivato in senso peggiorativo LISMO. Taluni impugnano innanzi al Tribunale la delibera di proclamazione sostenendone la nullità, ma il Tribunale respinge. Il dr. Buzzanca poteva essere proclamato Sindaco, la definitività della condanna è successiva. Sembrano tutti acquietarsi. Il motto principale è “teniamo famiglia”. Si sospettano spartizione di sottogoverno. Alla domanda che mi viene più volte e da più parti rivolta “ma la gente di sinistra, quella di strada non di partito, che fa?” un sabato rispondo. Azione popolare – E’ lo strumento conferito dal legislatore ai cittadini elettori per far valere, fra l’altro, le cause di decadenza dalla carica di Sindaco nelle ipotesi di condanna irrevocabile per determinati reati, tra cui il peculato. Il decreto legislativo 267/2000 è il Testo Unico delle leggi sull’ordinamento egli enti locali e prevede le cause di incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità, sospensione e decadenza volte alla salvaguardia di interessi dell’intera nazione, connessi a valori costituzionali di primario rilievo. L’art.58 stabilisce al comma 1 lett. B) che “non possono essere candidati alle elezioni (…) e non possono comunque ricoprire le cariche di (…) sindaco (…) coloro che hanno riportato condanna definitiva per i delitti previsti dagli art. 314 (peculato) …. ” Il testo della norma ci sembra, nonostante il caldo estivo, di solare chiarezza. Riusciamo in pochissimi giorni e di gran corsa a predisporre il ricorso, farlo sottoscrivere a 35 cittadini (me compresa), depositarlo il 26.6.2003, ottenere la fissazione di una udienza preferiale e quindi a notificare ricorso e decreto al dr. Buzzanca (previe accurate ricerche sulla sua residenza anagrafica). Intanto altri ricorsi si aggiungono. Vengono recapitati quattro proiettili allo studio dell’avv. Marcello Scurria uno dei due avvocati difensori. La città è in fermento. Anche i palazzi romani lo sono. Interviene per il Ministro dell’Interno il Capo di gabinetto con autorevole (?) parere consultivo del 24.6.2003 affermando che la sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 5 giugno 2003 “non produce alcuna implicazione sulla permanenza in carica dell’amministratore locale …. Un’esegesi ispirata a principi di ragionevolezza, coerenza, logica e proporzionalità induce ad apprezzare che la ratio della normativa di cui agli srtt.58 e 59 d.lgs. 267/2000 sottolinei la volontà di pervenire alla decadenza dalla carica ricoperta in presenza di una condanna definitiva per il delitto previs
to dall’art.314 cp soltanto per le ipotesi contemplate dal comma 1 del richiamato articoli. E’ infatti desumibile ex lege che gli effetti della sentenza siano ricondotti non alla sola tipologia della condotta criminosa di peculato, ma invero essenzialmente alla maggiore offensività che in concreto la stessa condotta ha arrecato” (null’altro che sic!) La sentenza di primo grado – (per il testo integrale www.auravvocato.it) Il Tribunale il 18 luglio respinge i ricorsi ritenendo, in estrema sintesi, che essendo la definitività della condanna successiva alla elezione il Sindaco può mantenere l’incarico. L’affermazione dell’esistenza dell’interesse pubblico alla salvaguardia dell’esito della consultazione elettorale sino al completamento del mandato è la vera aberrazione della pronuncia. L’ordinamento giuridico e democratico sembra essere scardinato dalle fondamenta. Il voto sana, attribuisce l’impunità per la durata del mandato. Il delirio di onnipotenza dilaga in città dopo questa pronunzia. Il tentativo di destabilizzazione del sistema di diritto ci spaventa. Restiamo allibiti, comunque sereni. La pesante condanna alle spese di giudizio, che data la specificità dell’azione popolare sono in genere compensate, ha il sapore di una punizione. (per le ulteriori censure puoi leggere il testo del ricorso in appello pubblicato su www.auravvocato.it). Lavoriamo con la calura estiva ed il sol leone di agosto. Prima del 15 di agosto è pronto il ricorso in appello. Depositiamo. La decadenza – ( per il testo integrale www.auravvocato.it) Con sentenza del 24 novembre, depositata il 3 dicembre, la Corte d’Appello di Messina dichiara la decadenza del dr. Buzzanca dalla carica di Sindaco di Messina, carica che non può più ricoprire essendo definitiva la condanna per peculato d’uso. La sentenza è esecutiva per legge, alle ore 17,30 è notificata ed il Sindaco lascia immediatamente la poltrona. L’Assessore avrebbe dovuto nominare un commissario ma ha preferito (?) attendere le motivazioni della sentenza prima ed ora ancora non si sa. La Corte supera la miriade di eccezioni procedurali sollevate (dedicando ben 36 pagine di motivazione sui punti) ed illustra la ragioni che hanno portato all’accoglimento degli appelli ed alla dichiarazione di decadenza. In particolare la Corte afferma che: ” …. sussistono degli indici interpretativi, sia di genere lessicale che di carattere logico, che già prima facie orientano a ritenere che il sistema non può tollerare ed in effetti non permette che conservi la carica di sindaco chi abbia perduto i requisitti soggettivi necessari per assumerla” ; ed ancora che ciò vale ” …anche sul piano non secondario della ragionevolezza (art.3 Cost.). Quella ragionevolezza che induce chiunque a respingere l’idea che chi non ha i requisiti morali per concorrere ad un ufficio pubblico elettivo possa tuttavia mantenerlo …”; e poi “A restare sul piano giuridico non si riesce a comprendere, infatti, come il successo nella competizione elettorale possa fare premio sulla mancanza di un requisito indispensabile del diritto di elettorato passivo, quasi che, una volta eletti, l’ordinamento si acquieti davanti alla volontà della maggioranza degli elettori e perda di vista quelle esigenze di salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, di tutela della libera determinazione degli organi elettivi, di buon andamento e trasparenza delle amministrazioni locali, che pur costituiscono,per consolidato orienatamento del giudice delle leggi, primari valori costituzionali”; ed infine che ” quello elettorale è solo un procedimento di selezione della persona destinata a svolgere una pubblica funzione e che, di conseguenza, non avrebbe senso una incapacità circoscritta alla candidatura che non intercetti anche la funzione perché è proprio il momento dell’esercizio dell’ufficio quello decisivo ai fini pubblici, e rispetto ad esso il procedimento selettivo soltanto strumentale e servente.” Insomma, abbiamo con piena nostra soddisfazione visto rinsaldare le travi portanti del sistema di diritto, la legalità, l’onestà, la politica come munus ….. Il seguito La questione rappresenta un buon precedente. Torniamo a parlare di ETICA, MORALITA’, POLITICA COME MUNUS. Intanto il Sindaco decaduto propone ricorso per cassazione e mentre la Suprema Corte anticipa su nostra richiesta al 14.4.2004 l’udienza di discussione già fissata per il 10 maggio (data non utile alla eventuale competizione elettorale per le amministrative in concomitanza con le europee), il governo il 25 marzo ultimo scorso introduce una norma in un decreto legge (che serve per regolare casi indifferibili ed urgenti) per dire che il cittadino condannato con sentenza irrevocabile per peculato d’uso può candidarsi, essere eletto, mantenere la carica. Meglio di così …. Alcuni cittadini, anche consorti di lite, chiedono con istanze del 26, 27 e 29 marzo al Presidente della Repubblica di non firmare il decreto; altri cominciano seriamente a pensare di rinunziare alla cittadinanza italiana e/o di formalizzare una richiesta di asilo politico …… Attendiamo gli eventi.

AUGUSTA: Un'altra strage preannunciata con la complicità dello Stato e della mafia?

AUGUSTA: Un’altra strage preannunciata con la complicità dello Stato e della mafia?

Dobbiamo morire, sì; ma non essere assassinati dalle Istituzioni!

C’era una volta… MARINA DI MELILLI.

Non è l’inizio di una favola, ma una delle pagine più oscure e vergognose della storia italiana.

Io sono un cittadino di Augusta, quarantamila abitanti, una città tra Catania e Siracusa, dove c’era anche MARINA DI MELILLI.

Il nome di Augusta, di solito, ormai, si trova unito a PRIOLO e MELILLI, con le quali condivide un destino amaro: l’olocausto industriale.

Forse, un giorno, questa tragedia entrerà a pieno titolo nei libri di storia come Bhopal, Chernobyl, Minamata, Seveso, Hiroshima, Auschwitz.

Sono poche, credo, in Italia, le città che come Augusta, si trovano esposte a ben tre rischi: sismico, chimico-industriale e militare. Ma di questa città e del suo triste destino si preferisce non parlare.

Ma quando se n’è parlato, lo si è fatto quasi sempre perché era successo qualcosa di grave.

Non è di tutti questa sorta di “guiness dei primati”: su 40 kmq di territorio sono state concentrate 12 industrie ad alto rischio (tre centrali termoelettriche, una fabbrica di cloro a celle di mercurio, quattro raffinerie, un cementificio, un inceneritore, una fabbrica di magnesio, un depuratore, ed altro).

Un territorio con viabilità fatiscente ed insufficiente, disseminato di discariche – non se ne conoscerà mai il numero esatto; un territorio più volte interessato da eventi sismici rilevanti; un territorio su cui insistono basi militari italiane, NATO ed USA; un territorio con una grave emergenza igienico-sanitaria in atto (accertato tasso di mortalità per cancro superiore al 30%; 1000 bambini nati malformati negli ultimi dieci anni; patologie legate al degrado ambientale del territorio; mare non balneabile dove è stato scaricato perfino mercurio in enormi quantità…

Su un territorio dichiarato dal Ministero dell’Ambiente nel 1990 ad alto rischio di crisi ambientale, e recentemente definito dal prof. Corrado Clini, assimilandolo a Porto Marghera, area in piena crisi ambientale, come se tutto ciò non bastasse, per decisione dell’attuale classe politica dirigente della Regione Sicilia, una centrale termoelettrica sarà, in parte, riconvertita a carbone ed in parte trasformata a “termovalorizzatore” per il trattamento di 500.000-650.000 tonnellate annue di rifiuti urbani indifferenziati provenienti dalle province di Enna, Catania, Siracusa e Ragusa.

Rimane irrisolto un altro problema: dove saranno smaltite le altre 173.000 tonnellate/anno di rifiuti tossici e nocivi della zona industriale di Augusta-Priolo?

Non c’è da preoccuparsi: detti rifiuti è stato decretato che verranno smaltiti nella progettata piattaforma polifunzionale che, guarda caso, sarà costruita anch’essa ad Augusta.

All’inquinamento attuale, che si protrae da oltre 50 anni, si aggiungerà anche quest’altro voluto dal Presidente della Regione Cuffaro.

Se mettessimo insieme il numero dei morti e dei feriti degli incidenti industriali, degli infortuni sul lavoro, e se unissimo ad essi il numero di morti per tumori ed il numero dei bambini malformati, potremmo parlare, senza alcuna retorica, di strage: ma di UNA STRAGE DI STATO.

Forse un giorno, verranno le telecamere a documentare l’ennesimo disastro, ad innescare polemiche, dibattiti e passerelle.

Ma non sarebbe opportuno che le telecamere venissero ora per evitare ulteriori disastri?

Distinti saluti.

Sac. Prisutto Palmiro

 

STORIA DI MOBBING ALLA GUARDIA DI FINANZA.

SEDE DI CATANIA: STORIA DI MOBBING ALLA GUARDIA DI FINANZA.

Apriamo le pagine web dedicate alla Regione Sicilia, con il caso del Maresciallo Antonio Laurino della Guardia di Finanza di Catania, suo malgrado sottoposto dalle alte gerarchie militari ad una vera e propria odissea giudiziaria che si trascina da svariati anni, con un numero impressionante di procedimenti civili, penali e amministrativi, tra loro connessi, per avere cercato di fare valere i propri diritti civili ed il rispetto della persona umana, che non possono venire negati, neppure, ai militari di carriera.

Qui di seguito pubblichiamo la denuncia del Maresciallo Laurino che, dopo il corso Sottufficiali presso la G.d.F. di Catania, dal 1997 si trova vittima di una vera e propria persecuzione per essersi opposto ad ingiuste sanzioni disciplinari mediante ripetuti ricorsi al T.A.R. della Regione Sicilia che, secondo il cattivo costume largamente diffuso nei Tribunali Amministrativi del Paese, volto ad insabbiare tutti i procedimenti ritenuti scomodi, per assecondare le varie mafie, legali e non, che occupano le sfere di comando delle istituzioni, non sono mai stati discussi, nonostante i ripetuti solleciti di fissazione (in gergo tecnico: istanze di prelievo) e le innumerevoli denunce penali nei confronti dei Magistrati inadempienti, su cui pure, allo stato, risulta che la Procura della Repubblica di Messina non avrebbe ancora adottato provvedimenti di sorta.

La tecnica diffusa nei tribunali italiani, incidentalmente messa in luce anche in vari procedimenti penali dei magistrati antimafia e anticorruzione che indagavano sulle Tangentopoli giudiziarie ed i collegamenti tra mafia, politica e magistratura, è quella di procrastinare “sine die” le decisioni di tutti quei procedimenti che potrebbero in qualche modo intaccare gli interessi del Regime occulto e dei poteri forti che controllano il territorio e le stesse istituzioni giudiziarie.

Quanto accade al Maresciallo Antonio Laurino è ciò che quotidianamente accade nei Tribunali amministrativi, civili, penali e nelle Procure, non solo della Sicilia, ma di tutto il Paese, che può capitare a chiunque si trovi a contrapporsi a gruppi di pressione politico-affaristici od organismi istituzionali in posizione dominante, organizzati come vere e proprie mafie, in grado di fare venire meno qualsiasi principio di legalità e rispetto delle più elementari procedure di legge, poste a base del nostro Ordinamento giuridico.

I sistemi usati sono sempre gli stessi: isolare i mobbizzati dal loro ambiente, sottoporli a continui trasferimenti a catena, demolirli moralmente e psicologicamente, affossare le indagini, accanirsi giudizialmente contro di essi, sino a sottoporre le vittime a plurimi procedimenti penali per reati inesistenti, inventati di sana pianta da magistrati zelanti e di parte, quali calunnia, diffamazione, oltraggio, vilipendio, etc. Magistrati pronti a prestarsi in ogni sede inquirente e giudicante a porre in essere ogni tipo di ritorsione, rinvio a giudizio e condanna, onde indurre al totale silenzio i soggetti passivi di tali subdole deviazioni del nostro sistema giudiziario, usato come mezzo per opprimere i cittadini, anziché per tutelare i soggetti più deboli.

Il caso è seguito da alcuni bravi legali siciliani e negli ultimi mesi dalla nostra corrispondente per la Sicilia, che ha vagliato il materiale fattoci pervenire dal Maresciallo Laurino, consentendoci di predisporre la presente presentazione, cosa che continueremo a fare per tutti coloro che vorranno segnalarci i loro casi, dando la loro adesione al Movimento per la Giustizia Robin Hood, che si propone di diffondere un’etica universale dei diritti umani e tutelare le persone indifese dai torti e soprusi del potere.
Al momento non riusciamo ancora a seguire legalmente i tanti casi che ci vengono segnalati da ogni parte d’Italia, essendo la rete di Avvocati senza Frontiere ancora in fase di espansione, ma quanto sicuramente possiamo fare è di dare voce ai più deboli, pubblicando sul sito le loro storie, in modo da spezzare il silenzio di regime su vicende di cui nessuno saprebbe nulla, in modo che i giudici ricordino che la Legge è uguale per tutti e deve venire rispettata per primi da loro stessi.

 

IN MEMORIA DI VALERY MELIS, VITTIMA DI UNA AMBIGUA MISSIONE DI PACE, A BASE DI "URANIO IMPOVERITO"….

IN MEMORIA DI VALERY MELIS, VITTIMA DI UNA AMBIGUA MISSIONE DI PACE, A BASE DI “URANIO IMPOVERITO”….

a cura del “Comitato Genitori militari Caduti in tempi di pace”

Quando nel luglio scorso ci recammo in Sardegna per prendere contatti con i familiari dei militari deceduti a causa dell’uranio impoverito, non sapevamo quanto questo viaggio ci potesse coinvolgere, portando alla luce una serie di storie di pura follia e disumana indifferenza da parte dello Stato e delle Istituzioni.

Abbiamo compreso che non eravamo i soli genitori ad essere le uniche “vittime sacrificali” dei soliti trucchi, bugie e ipocrisie, con cui di norma vengono ripagati i parenti dei giovani militari, che hanno dimostrato lealtà, fiducia e amore verso il Paese, tanto da offrire la loro stessa vita. Il giorno del nostro “l’Unione Sarda” pubblica la morte di Fabio Porru, giovane cagliaritano di 29 anni, caporalmaggiore della Brigata Sassari, ucciso dalla leucemia dopo tre anni di malattia “guadagnata sul campo” dopo una delle tante “missioni di pace” in Bosnia.

Nella stessa pagina viene pubblicata la lettera del Tenente Cristiano Pireddu, il quale attraverso il giornale invia una lettera aperta al Capo dello Stato, Ciampi, dall’emblematico titolo “lo Stato ha dimenticato Valery”. Ed è così che poco dopo con vivo sgomento apprendiamo che il Ten. Pireddu è stato sospeso con effetto immediato dal servizio e dallo stipendio…!

Incontrammo i genitori del soldato Salvatore Vacca di Nuxsis, morto a causa della leucemia, pure guadagnata nei Balcani in “missione di pace”. Incontrammo anche il fratello del soldato Giuseppe Pintus di Assemini, anch’egli deceduto di ritorno da altra “missione di pace” …!

Non trovammo invece il Caporalmaggiore Valery Melis di Quartu S. Elena. In quei giorni Egli era ricoverato nella nostra città di Milano, città dalla quale faceva la spola da ormai tre anni a causa di cure presso l’Istituto Oncologico Europeo, affetto da “linfoma di Hodgkin”. Malattia di guerra contratta a causa delle due missioni di pace nei Balcani (in Kosovo e Macedonia), ove i nostri alleati americani hanno sganciato le famigerate bombe all’uranio impoverito dagli effetti micidiali e di cui l’Esercito Italiano si è sempre ben guardato dal rivelare la nocività, anzi facendo di tutto per nasconderne i reali pericoli, condannando a morte (in tempi di pace) i nostri poveri figli.

Per quattro anni, fino alla morte Valery è stato abbandonato dallo Stato, il quale si è limitato a risarcire solo il 40% delle spesi di viaggi e soggiorni ai familiari, costretti anch’Essi a condividere la sofferenza del figlio (spese peraltro recuperate con molti mesi di ritardo e dietro defatiganti procedure).

La Sua famiglia è stata lasciata nelle maglie della burocrazia e della indifferenza. I genitori hanno dovuto vagare da un ospedale all’altro (Cagliari, Napoli, Milano alla ricerca di un miracolo che non si è avverato), senza ricevere le cure che avrebbe potuto ricevere negli Stati Uniti, in quanto “non previste” dal ns. sistema sanitario.

Valery, un ragazzone di 1 metro e 83 cm, dal viso sereno e sempre sorridente, anche quando ormai privo di capelli, bruciati dalla chemioterapia e dalla debolezza che non lo sorreggevano più. A chiunque gli chiedeva come stava, rispondeva sempre con un sorriso malinconico: Bene, Bene.

A settembre un trapianto di cellule staminali estratte dalla sorella, ma ci si rende subito conto che non va bene (altri due casi eseguiti contemporaneamente su altri due pazienti si rivelano subito mortali).

Subito dopo subentra un blocco renale acuto che lo costringe a dialisi renale presso l’Ospedale Humanitas, dialisi che si effettua ogni 48 ore a mezzo di lettiga che lo trasporta da un ospedale all’altro finché non viene trasferito definitivamente. Ma il destino ormai segnato si accanisce oltremodo su di lui con una nuova complicanza: il sopraggiungere di una insufficienza respiratoria tonica e la necessità di vivere quotidianamente con la maschera d’ossigeno e febbre alta continuamente. Qui giunto, sicuramente Egli percepisce la fine ormai prossima. Vuole tornare a casa nella Sua Sardegna.

Nel silenzio assoluto delle Istituzioni, si sta consumando l’esistenza di un altro martire ed eroe. Sentiamo la mamma tutti i giorni, ci racconta del male che incalza inesorabilmente nel più assoluto silenzio.

Nasce in noi la rabbia e un estremo tentativo di scuotere l’opinione pubblica da sempre disinformata, ma soprattutto i vertici delle Istituzioni; così, parafrasando un noto film americano, tentiamo l’ultimo appello: SALVIAMO IL SOLDATO MELIS. Grazie al computer inviamo l’appello via e-mail al Capo dello Stato, al Presidente del Consiglio, al Ministro della Difesa e al Ministro della Salute e fornendo gli indirizzi di posta elettronica lo inviamo a quante più persone conosciamo, con preghiera di inviarli a quante più persone, amici, parenti o solo conoscenti che a loro volta li inviano ad altri.

Il Cagliari Calcio e tutti i suoi giocatori che da sempre gli sono stati vicino giocano una partita indossando una maglietta con scritto a caratteri cubitali: VALERY MELIS, VOI l’avete dimenticato! NOI NO !!!

Valery Melis ci ha lasciati la sera di mercoledì 4 febbraio 2004, alle 22,30, attorniato come sempre dai soli genitori, dal fratello e dalla sorella. Solo quattro ore prima forse disturbati da una valanga di e-mail da Roma arriva via telefono l’offerta di un aereo militare pronto a trasportarlo ovunque i familiari desiderano. Ironia della sorte dopo tanto silenzio il tentativo di mettersi a posto le coscienze.

Anna Cremona e Angelo Garro

 

AVVOCATURA COMUNALE, GIUDICI E CANCELLIERI FUORILEGGE: L'ALTRA FACCIA DELLA GIUSTIZIA

AVVOCATURA COMUNALE, GIUDICI E CANCELLIERI FUORILEGGE:

L’ALTRA FACCIA DELLA GIUSTIZIA

Qui di seguito, Vi narriamo l’incredibile odissea giudiziaria dei processi civili, amministrativi e penali, contro l’Amministrazione Comunale e i suoi funzionari, che si trascinano dal 1996, con il beneplacito dei vari giudici via via incaricati, in relazione alla rivendicazione dei più elementari diritti del Movimento per la Giustizia Robin Hood.

Con citazione del 23.10.96, il Movimento per la Giustizia Robin Hood, quale O.N.L.U.S., citava in giudizio il Comune di Milano, onde far cessare l’azione persecutoria in atto nei suoi confronti, volta ad estrometterla con metodi illegali e discriminatori dalla sua sede di Via Dogana 2 in Milano, nonché a soffocare (ricorrendo anche a ripetute violenze e minacce), le sue legittime attività petitorie di raccolta firme, a sostegno di mani pulite e della legalità (molti ricorderanno i banchetti sparsi in tutta Milano, spesso oggetto di sequestri arbitrari e aggressioni da parte di Vigili e Carabinieri).

Si chiedeva di fare luce, altresì, sulle responsabilità di alcuni cancellieri (tra cui il Dirigente, Dr. Minori) che, in concorso con l’Avvocatura Comunale, avevano falsificato una precedente ordinanza, passata in giudicato, che respingeva la domanda di rilascio della sede del Movimento per la Giustizia, nonché sull’anomalo svolgimento della causa civile (ove addirittura è sparito il fascicolo d’ufficio per oltre 4 anni).

Fatti per cui si è richiesto, nei giorni scorsi, la riapertura dei procedimenti affossati e/o arbitrariamente archiviati (R.G.N.R. 4966/96/21, P.M. Napoleone e 4954/99/44, P.M. Gittardi).

La citazione veniva notificata anche al P.M. di Milano, dr. Fabio Napoleone, quale titolare del proc. N. 4966/96/21 (allo stato affossato), il quale già procedeva in relazione all’illecito rilascio di due pretese “copie conformi” dell’ordinanza 1.7.96 del Pretore di Milano, dr. Certo, dolosamente alterate nella parte relativa alla relazione di notifica ricevuta dal Comune di Milano, che era stata scientemente rimossa, in esecuzione del preordinato disegno della P.A. di estromettere con ogni mezzo, il Movimento per la Giustizia dalla sua sede, onde paralizzarne le scomode attività.

Tale espediente, degno di miglior causa, veniva, infatti, attuato (grazie ad oscure connivenze negli uffici giudiziari), allo scopo precipuo di consentire alla difesa del Comune di Milano di proporre, oltre il termine perentorio di gg. 10 dalla notifica, in pieno periodo feriale, un tardivo quanto improcedibile reclamo, ex art. 669 terdecies c.p.c., avverso l’ordinanza 1.7.96, che respingeva la richiesta per la reintegra nel possesso dei locali sede dell’Associazione (singolarmente, la discussione del reclamo veniva fissata la vigilia di ferragosto del 1996…).

Con tale citazione si chiedeva, pertanto, accertarsi, in via principale, la falsità materiale e/o ideologica delle copie conformi della predetta ordinanza, prodotte in giudizio dalla difesa Comune di Milano, oltre ad una serie di ulteriori atti e mendaci attestazioni, relative al rapporto locativo dell’immobile per cui è causa, volte ad aprire una partita contabile, per somme esorbitanti e non dovute.

Onde capacitare il lettore dell’accanimento persecutorio e della valenza offensiva dei molteplici comportamenti posti in essere dalla P.A., in danno del Movimento per la Giustizia, giova precisare che, dopo il sequestro della prima “copia conforme”, eseguito dal P.M. il 29.8.96, l’Avvocatura Comunale, ignorando il provvedimento dell’A.G. penale, allo scopo di mantenere in piedi il reclamo, in data 30.8.96, produceva una seconda “copia autentica”, identica alla prima (con le medesime falsità), rilasciatagli dal Dirigente della Cancelleria Centrale, dr. Minori…!!!

Circa le denunciate connivenze va ricordato che lo stesso, Dr. Minori, riporterà, poi, recentemente, “alla luce”, in circostanze non ancora chiarite dal Presidente Istruttore, della 1^ sezione civile, Dr. TARANTOLA, il fascicolo di causa, su cui la difesa del Movimento per la Giustizia ha investito il giudice di disporre accertamenti sull’anomala sottrazione per oltre 4 anni, notiziandone la competente Procura di Brescia (cosa su cui si è tuttora in attesa dei relativi provvedimenti, seppure la causa sia stata ormai assegnata a sentenza).

Dopo avere illustrato e ampiamente documentato le continue persecuzioni a cui sono stati sottoposti gli attivisti dell’Associazione, tutt’oggi persistenti (attraverso continue turbative, irruzioni senza mandato, sequestri di banchetti per la raccolta di firme, materiali di propaganda, fermi, dinieghi di assegnazione locali, sussidi e finanche di occupazione di suolo pubblico per attività petitorie e mostre umanitarie, nonché campagne diffamatorie a mezzo stampa e TG4), si chiedeva, quindi, oltre all’accertamento della falsità degli atti sopraindicati, di inibirsi, in via cautelare, qualsiasi ulteriore turbativa delle legittime attività petitorie del Movimento per la Giustizia, ordinandosi al Comune di Milano l’indifferibile rilascio delle autorizzazioni richieste; ordinandosi, altresì, l’erogazione dei sussidi previsti per le ONLUS.

Nel merito, veniva richiesto di accertarsi e dichiararsi la conclusione di un contratto locativo, tra il Comune di Milano e il Movimento per la Giustizia, a decorrere dal 24.12.94, data della consegna dei locali di Via Dogana 2 e dell’iniziale rapporto di comodato gratuito (in cambio della ristrutturazione degli stessi). Infine, veniva, richiesto di accertarsi la misura del canone, tenuto conto delle agevolazioni concesse alle ONLUS e degli affitti praticati in zona ad altre associazioni, condannandosi il Comune di Milano, ex art. 2043 c.c., al risarcimento dei danni, derivanti dai comportamenti “contra legem” .

Con ricorso ex art. 700 c.p.c., in corso di causa, depositato il 25.10.96, venivano ribadite tutte le richieste cautelari, disponendosi l’acquisizione, in originale, degli atti impugnati di falso e facendo rilevare l’irreparabilità del pregiudizio in essere, derivante dalla lesione di fondamentali diritti politici e soggettivi, ovvero dall’atteggiamento apertamente prevaricatorio, tenuto dalla P.A., volto a soffocare, in radice, qualsiasi legittima attività del soggetto passivo.

Senza provvedere all’acquisizione degli atti impugnati di falso, né a notiziare il P.M., onde consentirgli di conoscere la causa, il G.I. dr. Cappabianca fissava udienza per il 13.12.96, ove a prova dell’esistenza di oscuri interessi dietro il comportamento discriminatorio della P.A., si faceva rilevare circa la pretesa “natura amministrativa” degli atti di diniego che non può più parlarsi di natura amministrativa dell’atto, quando la P.A. pone in essere comportamenti di natura illegittima, che esorbitano le sue funzioni, integrando violazione di un diritto soggettivo pubblico (come è quello di raccogliere firme), assumendo, altresì, rilevanza penale.

Avverso l’ordinanza riservata di rigetto, in data 19.12.96, veniva proposto reclamo, facendo rilevare che il G.I. aveva da una parte omesso di provvedere all’acquisizione degli atti impugnati di falso e di notiziare il P.M. (definendola attività istruttoria) e dall’altra di prendere atto che il sistematico ricorso a comportamenti illeciti e prevaricatori di diritti soggettivi, costituzionalmente protetti, imponeva all’A.G.O. di inibire tali condotte, non riconducibili ad atti legittimi e alle funzioni proprie della P.A. Il reclamo veniva, poi, respinto dal collegio presieduto dal DR. PATRONE e dal DR. BONARETTI (relatore), nei cui confronti risultavano in precedenza sporti più esposti, in relazione alla sparizione di altri fascicoli di ufficio e all’affossamento dei relativi procedimenti attinenti rilevanti interessi economici di noti personaggi legati a Tangentopoli.

All’udienza del 14.5.97 si insisteva per l’acquisizione degli atti impugnati di falso e nei mezzi di prova dedotti, facendo rilevare la persistenza del pregiudizio e il pericolo nel ritardo, derivante dal perdurante diniego di occupare suolo pubblico, in relazione alla promozione della mostra “Pittori contro la guerra” (tenacemente boicottata dal Comune di Milano e dalla Federazione Milanese del PDS – vedasi storia a parte), seppure patrocinata dall’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra, dalla Commissione Europea e dall’UNICEF.

Il ricorso veniva ancora una volta, pretestuosamente, respinto e all’udienza 20.5.98, prendendo atto della ricusazione proposta nei suoi confronti, il dr. Cappabianca sospendeva il procedimento, disponendo la trasmissione degli atti al Presidente del Tribunale. Dopo di che il buio assoluto per 5 anni!

SUL FUMUS PERSECUTIONIS E IL DOLO DELLA P.A.

Mentre la “mafia giudiziaria” riusciva così a fare sparire per svariati anni il fascicolo di ufficio, imponendo alla Procura di affossare ogni procedimento, pur trattandosi di gravi reati contro la P.A. (quale è la falsificazione di una Ordinanza del Pretore, passata in giudicato), l’Amministrazione Comunale si faceva giustizia da sé, riprendendosi con la forza i locali di Via Dogana 2.

Attraverso un vero e proprio blitz, senza alcuna autorizzazione dell’A.G.O., che nel frattempo aveva respinto, anche in appello, qualsiasi richiesta in tal senso, condannando, per di più, il Comune di Milano alle spese di lite, il Movimento per la Giustizia veniva spogliato, con violenza e minaccia, di oltre 400 opere d’arte e di tutte le sue attrezzature di ufficio, tra cui computers, fascicoli processuali, archivi, etc. (v. storia a parte).

Che si tratti di una lucida e preordinata strategia persecutoria si può ben intuire dalla circostanza che, il Comune di Milano era perfettamente a conoscenza che i locali in menzione erano esclusivamente adibiti a sede dell’Associazione per l’organizzazione di conferenze, mostre, umanitarie, dibattiti, seminari e “attività socio-culturali, attinenti problematiche ecologiche, legali e politiche”, come attestato dalla stessa U.S.L. di zona, in data 22.1.96, su richiesta di accertamenti dello stesso Comune di Milano.

Ciò nonostante, in spregio alla Verità e alle più elementari regole di buone fede nell’espletamento delle proprie alte funzioni istituzionali, il Comune di Milano, fingendo che sarebbero stati occupati abusivamente da privati, per iniziative non consentite, con Ordinanza Sindacale, in data 13.2.96, si è spinto al punto di ordinare la chiusura del preteso “esercizio pubblico”, nel quale si sarebbero somministrate… (sic!) “bevande alcoliche” .

Attività umanitarie, invero, nei cui confronti l’Amministrazione Comunale, attraverso i suoi funzionari, doveva e deve nutrire evidentemente un accanito “odio politico”, avendo sempre cercato di disconoscere l’esistenza stessa del Movimento per la Giustizia Robin Hood e delle iniziative da questo promosse, seppure patrocinate dalle maggiori autorità in campo internazionale, tra cui l’UNESCO, l’Alto Commissariato per i Diritti Umani, la Commissione Europea, la Regione Lombardia e la Provincia di Milano.

In proposito, va ribadita la denuncia dello scandaloso boicottaggio della mostra umanitaria “Pittori contro la guerra” (di cui sono state svolte ben tre edizioni), che il Comune di Milano si è spinto a sostenere che non sarebbe, neppure, esistita, rifiutando qualsiasi sostegno – invece concesso dalla Provincia di Milano, dalla Regione Lombardia e da svariate autorità sovranazionali – per, poi, infine, smantellare l’intera mostra, in data 8.6.99, attraverso una preordinata azione di spoglio clandestino (approfittando della momentanea assenza degli attivisti impegnati in una manifestazione alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo a Strasburgo), asportando con violenza e minaccia su persone e cose, senza alcuna cura né perizia tecnica, oltre 400 opere e sculture, in gran parte andate disperse o distrutte, oltre arredi, fascicoli processuali, computer e attrezzature di ufficio, pure, in gran parte, andati dispersi, stante l’assenza di inventario, di personale specializzato e l’omessa notifica di qualsiasi preavviso di rilascio e titolo legittimo per procedere (v. la Voce di Robin Hood n. 0).

SULL’ILLEGITTIMITA’ DELLO SPOGLIO VIOLENTO E CLANDESTINO

Sulle modalità illegittime dello sgombero attuato dalla Polizia municipale, in assenza di qualsiasi valido titolo esecutivo, ovvero di valida notifica nei confronti dell’effettivo detentore dell’immobile, è poi doveroso denunciare l’illegittimo rigetto del ricorso, ex art. 703 c.p.c., tempestivamente proposto in data 18.6.99, nonché il successivo reclamo, da parte della Dr.ssa D’ORSI, nonché l’ulteriore ricorso, in sede amministrativa, avanti al TAR ed al Consiglio di Stato.

Ricorsi, tutti, illegittimamente disattesi, con motivazioni incongrue, capziose e prive di qualsiasi logicità ed, infine, oggi, riproposti al Dr. TARANTOLA, di cui è attesa la sentenza a breve.

Circa le domande cautelari volte a tutelare i diritti politici dell’Associazione, in relazione alla sue attività petitorie e ai reiterati dinieghi di occupazione di suolo pubblico, ripetuti per circa nove anni consecutivi, nonché circa le ulteriori domande di inibitoria e di sussidi, si rileva che trattasi di domande strettamente connesse a quelle di merito per cui si insiste per l’accoglimento.

Per la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione si è infatti ricordato come “le azioni possessorie contro l’amministrazione pubblica siano pienamente ammissibili, ove quest’ultima abbia agito “iure privatorum” o abbia posto in essere un comportamento che non si ricolleghi a un provvedimento amministrativo legittimo o giuridicamente esistente, ma si concreti e si risolva in una semplice attività materiale, in quanto per il G.O., in tale ipotesi non opera il divieto di condanna dell’amministrazione ad “un facere”, il quale si applica in relazione alle attività da quest’ultima compiute nell’ambito dei suoi poteri e delle sue finalità istituzionali” (Cass. n. 5136 del 9.6.97, n 1713 e 891 del 1955 n. 9459 del 1989, n. 1151 del 1993).

Orientamento ribadito, anche, dalle Sezioni Unite che hanno più volte avuto occasione di precisare che l’esperibilità del rimedio di cui all’art. 700, nei confronti della P.A. è pacificamente ammesso qualora si tratti, “non già dell’adozione di provvedimenti nell’ambito di svolgimento dell’azione amministrativa, bensì della rimozione di situazione materiali, riconducibili alla iniziativa della P.A., che si presentino in contrasto con i precetti posti dalla prudenza e dalla tecnica a salvaguardia dei diritti soggettivi altrui” (C. n. 2148/92).

SULL’OBBLIGATORIETA’ DELL’INTERVENTO DEL P.M. E LA NULLITA’ DELL’INTERO PROCEDIMENTO PER INVALIDA COSTITUZIONE DEL GIUDICE MONOCRATICO

Sul punto si è rilevata la pregiudiziale e assorbente eccezione della necessaria rimessione in ruolo della causa e di chiamata del P.M., al fine di consentirgli di conoscere la causa e di svolgere le proprie autonome conclusioni. In proposito si ricorda che ai sensi degli artt. 50 bis e quater c.p.c. e del nuovo testo, art. 48, c. II, ordinamento giudiziario, di cui al R.D. 30.1.1941 n 12, trattasi di causa da decidere in sede collegiale, sia perché concerne la proposizione di una querela di falso, sia in quanto le relative questioni di diritto sono state più volte al vaglio dell’organo collegiale, a seguito dei diversi reclami proposti.

Giova ricordare ancora che anche nel caso di querela proposta “incidenter” nell’ambito di una causa devoluta al giudice monocratico, sorge una ipotesi di connessione per dipendenza e cumulo oggettivo di causa che, stante il nuovo art .281 nonies c.p.c., impone al G.I. di ordinarne la riunione e, all’esito dell’istruttoria di rimetterle al collegio che pronuncerà su tutte le domande, salva separazione (art 279 comm. II n. 5 cpc).

Nella specie pertanto ex art 281 octies c.p.c. il giudice ha l’obbligo di rimettere la causa al collegio, provvedendo ai sensi degli art 187, 188, 189 cpc, previa remissione in ruolo della causa e notiziazione del P.M., onde consentirgli come detto di svolgere proprie autonome conclusioni, sussistendo in difetto, nullità assoluta dell’intero procedimento e dell’eventuale sentenza per violazione delle norme sull’integrità del contraddittorio, riconducibile all’ipotesi di cui all’art 158 c.p.c. (C. 21.5.98 n 5067, C. 6.3.92 n 2699, C. 26.6.92 n 7992 e altre conformi).

SULLA AMMISSIBILITA’ DELLA QUERELA DI FALSO

Sul punto si è invece ribadito l’orientamento costante della Suprema Corte che, trattandosi di querela proposta, in via principale, rileva come non siano sindacabili dal Giudice né tantomeno dalla controparte, le ragioni di fatto per cui la stessa è proposta, dovendosi attenere l’esame esclusivamente al giudizio sull’autenticità o meno dell’atto e/o sulla veridicità delle dichiarazioni ivi contenute. In particolare, si è affermato che “nel giudizio in via principale il giudice non può sindacare la rilevanza del documento rispetto ai fatti che si intendono provare, ma deve accertare la sussistenza di una contestazione sulla genuinità del documento” (C. 27.7.91 n. 9013).

Né, d’altro canto, può, sensatamente, affermarsi che il Movimento per la Giustizia non avrebbe interesse a coltivare la proposta querela principale di falso, posto che al di là dell’evidente abnormità di tale poco meditata considerazione, in palese violazione dell’art. 112 c.p.c. (per cui sussiste l’ineludibile obbligo, da parte del giudice, di pronunciare su tutte le domande), appare ictu oculi palese che l’accertamento delle denunciate falsità materiali e/o ideologiche degli atti impugnati, è strettamente funzionale alla dimostrazione della sussistenza di una più ampia azione persecutoria paralegale, senza esclusione di mezzi, volta a paralizzare le stesse iniziative giudiziarie intraprese dall’attrice a tutela delle sue attività e diritti fondamentali.

Come si può permettere che il Comune di Milano, capitale del Volontariato, lasci da oltre 5 anni una ONLUS, per quanto scomoda, priva di qualsiasi sostegno e sede dove continuare le proprie attività umanitarie, violando i più inderogabili doveri di solidarietà politica ed economica?

Domande tutte, a cui si confida, saprà dare esaustiva e congrua risposta riparatoria, l’emananda sentenza.

 

CASE POPOLARI: UNA SENTENZA IN FAVORE DELLA MAFIA POLITICA TRIBUNALE DI MILANO

 CASE POPOLARI: UNA SENTENZA IN FAVORE DELLA MAFIA POLITICA

A partire degli anni ’70, 200 assegnatari di alloggi popolari si erano rivolti all’Autorità Giudiziaria, chiedendo accertarsi il vincolo di pertinenzialità dei box e la restituzione dei canoni pagati in eccedenza, a seguito dell’indebita pretesa di ex IACP (ora ALER) di esigere canoni a valori di libero mercato.

I legali del Movimento per la Giustizia Robin Hood che hanno patrocinato, gratuitamente, la causa, intervenendo in giudizio quale O.N.L.U.S., denunciano la palese illegittimità della sentenza e l’omessa applicazione, da parte del Tribunale, degli artt. 817 e 818 c.c. che fissano i principi inderogabili, in base ai quali viene regolato il regime delle pertinenze tra alloggio e box.

E’, infatti, da ritenersi pacifico che in base ai Bandi di concorso, ai contratti di assegnazione e alle vigenti leggi sulle locazioni urbane, gli Istituti Case Popolari non possano liberamente determinare il canone dei box, in quanto assegnati quali pertinenze.

Cosa, invece, contrastata dall’ALER che sostiene che il box sia un “bene di lusso”, non meritevole della stessa tutela riservata all’edilizia abitativa, da considerarsi alla stregua di un’unità commerciale.

Singolarmente il Tribunale ha accolto questa bizzarra tesi senza fornire alcuna motivazione sul punto e senza tener conto della costante giurisprudenza dello stesso Tribunale e della Corte d’Appello di Milano, nonché della Cassazione, favorvole agli inquilini.

Ciò, mentre i box delle case degli Enti pubblici assegnate ai magistrati (con stipendi 10 volte superiori ai pensionati minimi dell’ALER) continuano a venire considerati pertinenze !

Del caso si sta occupando la 1^ Commissione Referente del Consiglio Superiore della Magistratura e la Procura di Brescia in quanto la dr.ssa Peschiera, in base all’Ordinamento del C.S.M.,, non può esercitare le sue funzioni giudicanti nello stesso Distretto di Corte di Appello in cui svolge la professione di avvocato il di lei marito.

Si ipotizzano i reati di malversazione, abuso d’ufficio e falso ideologico, finalizzati a favorire gli interessi dei partiti che controllano l’ALER, onde procurare un flusso ininterrotto di illeciti profitti, valutabile in svariate centinaia di miliardi, se si considerano le circa 9000 famiglie, assegnatarie di alloggi popolari, costrette a versare, da oltre 25 anni, canoni di locazione non dovuti, nonché a riscattare i box, separatamente dall’alloggio, a valori di libero mercato che hanno raggiunto circa 20.000 euro !

Si tratta, sicuramente, della causa più lunga nella storia del diritto del lavoro in Italia.

I legali di “A.S.F.” preannunciano appello e ricorso alla Corte di Strasburgo, in quanto i cittadini non sono più disposti a farsi defraudare dei loro diritti nè dall’ALER nè, tantomeno, da quei magistrati che non applicano le leggi, assecondando gli interessi del potere.

Corre l’obbligo di denunciare che questo comunicato è stato diffuso a tutte le agenzie giornalistiche, senza che nessun quotidiano riportasse la notizia, seppure di rilevante interesse per ben 9000 famiglie lombarde assegnatarie di alloggi popolari.

Evidentemente, si teme che la gente conosca la verità sul reale funzionamento della giustizia, che se ne parli e si organizzi di conseguenza.

DUECENTO CAUSE CONTRO L'ALER PER COLPA DEI BOX

DUECENTO CAUSE CONTRO L’ALER PER COLPA DEI BOX

I residenti difesi da “Avvocati senza frontiere” specializzati nelle ingiustizie ai danni dei cittadini. I procedimenti, iniziati nel 1978…..
(articolo di Manuela D’Alessandro – 30 aprile 2004 “Libero”).
[Cronaca di Milano]

STORIA DELLA PERSECUZIONE MASSONICO-GIUDIZIARIA DEL MOVIMENTO PER LA GIUSTIZIA ROBIN HOOD

STORIA DELLA PERSECUZIONE MASSONICO-GIUDIZIARIA DEL MOVIMENTO PER LA GIUSTIZIA ROBIN HOOD

(da “Il Ruolo del Volontariato in funzione del Rapporto dei Cittadini con la Giustizia. Stato e Mafia come unico Sistema” di Pietro Palau Giovannetti)

Il “Movimento per la Giustizia Robin Hood” è una Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale (Onlus), riconosciuta con decreto del Presidente della Regione Lombardia, n. 369/99, a seguito di due sentenze del T.A.R. (in un duplice procedimento per obblighi di fare e nomina di Commissario ad acta), che hanno condannato per due volte consecutive l’Ente resistente (Regione Lombardia), ad iscrivere l’Associazione nel Registro Generale del Volontariato, sezione B) Civile, con effetto retroattivo dal 14.7.98, oltre al pagamento delle spese processuali, stante la temerarietà della resistenza opposta all’esecuzione della prima sentenza (sentenze T.A.R. Lombardia, Sezione III, nn. 2793/98 e 1189/99).

La rilevanza socio-giuridica di tale autorevole giudicato, che a quanto consta rappresenta un caso unico nella storia del diritto nel nostro Paese (e forse in Europa), bene introduce la relazione sociale intercorrente tra una <Associazione antimafia> che si adopera per la tutela dei diritti e le Istituzioni preposte ad amministrare la “cosa pubblica“, ovvero a promuovere l’azione del Volontariato, intesa come strumento di sviluppo della personalità umana (artt. 2, 3 Cost.) ed effettiva partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, nel rispetto dei fondamentali diritti costituzionali ad associarsi liberamente e alla libertà di manifestazione del pensiero (artt. 3, 18, 21 Cost.).

Il Movimento per la Giustizia Robin Hood è infatti una libera associazione di volontariato, sorta per iniziativa di persone comuni, resesi conto dell’assenza di tutela in cui versano i cittadini, che si batte contro la corruzione istituzionale e la piaga della malagiustizia, proponendosi di diffondere un’etica universale dei Diritti Umani, in Italia e nel mondo, nonché di difendere le persone più deboli dai torti e dai soprusi delle varie mafie del potere che, anziché agire per il bene della collettività, soffocano le libertà fondamentali, la legalità e il progresso della civiltà (art. 2 Statuto Associativo).

Il Movimento per la Giustizia Robin Hood (di seguito indicato per brevità: “Associazione“), formalmente costituito con atto notarile il 23.6.1994, nasce, invero, alcuni anni prima, nel 1992, ad iniziativa del “Comitato per la tutela dei Diritti dei Cittadini” che, dal 1986, già, si adoperava, senza fini di lucro, in battaglie ambientali, nei quartieri metropolitani, contro la speculazione edilizia e la “mafia del nord“, in difesa dei cittadini più deboli, dando impulso con migliaia di denunce ed esposti alla Magistratura e ai massimi organi dello Stato, all’azione denominata “mani pulite“, ovvero a quel vasto movimento popolare spontaneo, a sostegno dei magistrati impegnati nella lotta alla corruzione e alla mafia, per il rinnovamento delle Istituzioni.
Lo stesso tenore dei titoli di alcuni tra i tanti articoli pubblicati sulle attività del “Comitato per la tutela dei Diritti dei Cittadini“, senza bisogno di particolari commenti, mette bene in luce, l’attività dell’organismo che darà vita, qualche anno dopo, al Movimento per la Giustizia Robin Hood e ad Avvocati senza Frontiere, di cui parleremo più avanti (Mon., “Lo stabile settecentesco posto sotto sequestro dal Pretore. Palazzo fatto a pezzi. Le denunce degli inquilini contro la proprietà…“, in L’Avvenire, 7/5/87; Biffi, “Si può dire no ai palazzinari milanesi“, in “Famiglia Cristiana”, Agosto 1991; P. D’Amico, “Dopo il blocco della licenza arriva una gru e continuano i lavori. Sfida alla legge in Via Zenale. Totalmente ignorata la decisione della magistratura“, in “Il Giorno”, 29/10/91; T. Maiolo, “Palazzi e Giustizia“, in “Il Manifesto” 7/3/92; A. Sessa, “Giù le mani dalla città. Un comitato popolare dice basta alle speculazioni edilizie.La denuncia di anni e anni di abusi nel centro storico sfocia in una nuova forma di protesta“, in “L’indipendente”, Cronaca di Milano, p. 24, 3/11/1992; D.G., “S’incatenano per contestare i box. In Via Zenale entra in azione il Comitato per la difesa dei diritti dei cittadini“, in “Il Giorno”, 3/11/92).

Consapevole che la corruzione e l’arroganza di chi detiene il potere costituiscono un problema mondiale, insito nella natura umana, l’Associazione, da alcuni anni, si propone di dare vita ad una “Internazionale della Pace“, attraverso un ‘progetto confederativo’ (con statuto da depositarsi presso le Nazioni Unite), di tutte le associazioni impegnate nella tutela dei Diritti Umani, in modo da rendere più efficace e “meno vulnerabile” l’azione di ogni singola associazione che, spesso, si trova ad affrontare, isolatamente, la repressione nel proprio Paese.
Cosa, per l’appunto, direttamente, sperimentata, dal Movimento per la Giustizia Robin Hood, attraverso l’ininterrotta azione persecutoria delle istituzioni, a partire dalla temeraria resistenza giudiziale della Regione Lombardia e del Comune di Milano, sopra riferita, finalizzata ad impedire il suo riconoscimento giuridico, quale Ente no profit, sino ai reiterati dinieghi e boicottaggio di qualsiasi sua attività associativa (sfociati nello spoglio violento e clandestino della sede di Via Dogana 2, in Milano, ove sono stati smantellati i suoi uffici e la mostra umanitaria Artisti per la Pace – Pittori contro la guerra 1999) e ai ripetuti <arresti illegali> di attivisti che manifestavano pacificamente davanti al Tribunale di Milano, di cui meglio appreso si riferirà.

L’Associazione si presenta come il primo movimento organizzato non violento, nella storia del nostro Paese, a tutela della legalità e dei principi di giustizia, “a cui ogni spirito libero” (si legge nella home page del sito internet della Provincia di Milano) …”è chiamato a dare il proprio apporto” (www.associazioni.milano.it/robinhood/).
Nonostante, i nobili principi, l’ispirazione gandhiana e il suo collocarsi al di sopra delle contrapposizioni ideologiche: <destra, centro, sinistra>, come sopra accennato, l’Associazione non incontra il favore né delle Autorità locali e centrali, né quello degli schieramenti della Magistratura, in larga parte politicizzata, che guardano con sospetto e timore, il consolidarsi nella società civile di una organizzazione con tali caratteristiche, che si propone di tutelare con fermezza la legalità, sorvegliando le attività di politici, pubblici amministratori e giudici, i quali ultimi, non di rado, hanno dimostrato di essere collusi e/o contigui agli interessi delle classi dominanti.

Il tenace quanto illegittimo rifiuto opposto da parte della Regione Lombardia e Comune di Milano all’iscrizione del Movimento per la Giustizia nel Registro Regionale e Comunale delle associazioni di volontariato, nonché l’estrema lentezza con cui sono state accolte le relative domande, anche in sede decidente, dal T.A.R. per la Lombardia, ben possono fare capire quali resistenze istituzionali abbia dovuto superare l’Associazione per affermare il proprio diritto di esistere e svolgere serenamente la propria <mission>, cosa che, ancora, oggi non gli è consentito pienamente, a causa di un pervicace ostruzionismo paralegale, boicottaggi e impunite azioni persecutorie, da parte di Enti e Istituzioni, conseguenti l’assoluta inerzia della Magistratura inquirente e giudicante, connivente con i poteri forti che governano il Paese.

Basti pensare che per ottenere le citate pronunce di condanna della Regione Lombardia, la quale sosteneva temerariamente che le vittime degli abusi istituzionali “non avrebbero rivestito lo specifico carattere di soggetti svantaggiati“, si sono resi necessari ben cinque ricorsi amministrativi, di cui uno al Consiglio di Stato (tuttora inesaminato, a distanza di oltre 8 anni), una querela di falso, avverso i provvedimenti posti a base dei dinieghi e una serie di ricusazioni e denunce, anche nei confronti di interi collegi del locale Tribunale Amministrativo, tanto che per formare il collegio giudicante, che ha reso le due favorevoli decisioni, sono stati chiamati dei giudici esterni.

Alla freddezza della nomenklatura dei massimi rappresentanti del mondo della politica e della giustizia fanno, però, da contrappeso il calore della gente comune e dei molti onesti magistrati, pubblici funzionari, avvocati, studenti e lavoratori che, in massa, aderiscono alle iniziative dell’Associazione, la quale raggiunge ben 250.000 aderenti e simpatizzanti, nel 1994, a seguito delle sue campagne per la confisca dei patrimoni illeciti di mafiosi e tangentisti, i cui banchetti per la raccolta di firme a sostegno della petizione popolare, rivolta alle Camere, al Presidente della Repubblica, al Parlamento Europeo e alle Nazioni Unite, occupano le piazze delle maggiori città italiane e, finanche, di piccoli paesi delle isole e del centro-sud, in cui le persone comuni decidono spontaneamente di organizzarsi e prendere in mano il loro destino.
Un fenomeno partecipativo che si espande a macchia d’olio, silenziosamente, senza bisogno di mezzi di propaganda, sedi di partito, risorse finanziarie. Un fenomeno partecipativo di massa che si mette in moto da solo, attraverso una modesta associazione di volontariato, fatta da gente comune per difendere le persone comuni, fuori dalle logiche della partitocrazia, contro i soprusi del potere.

Ciò, può, quindi, ben rendere, l’idea di quale estremo bisogno di giustizia attraversasse e, tutt’oggi, continui ad attraversare il Paese, stante che quella domanda di giustizia e di legalità, proveniente da ogni strato della popolazione, è rimasta senza risposta.

Gli anni che hanno caratterizzato maggiormente l’attività pubblica dell’Associazione sono stati sicuramente quelli che vanno dal 1992 al 1995, nella c.d stagione di “mani pulite“, in cui da nord a sud del Paese, migliaia di volontari si riversano nelle piazze principali e avanti ai Tribunali di ogni regione italiana, organizzando raccolte di firme, manifestazioni spontanee e pacifici “sit-in“, in solidarietà ai magistrati antimafia e anticorruzione, chiedendo loro di “andare fino in fondo” e di “non guardare in faccia nessuno“, neppure, ovviamente, gli stessi magistrati corrotti, contigui a mafia, politica e massoneria, come ad esempio, l’ex Procuratore di Palermo, Gianmanco (referente della mafia in Sicilia), l’ex Capo dei G.I.P. romani, Renato Squillante (collettore delle tangenti “Previti-Berlusconi”), i magistrati di Cassazione, Verde e Carnevale (quest’ultimo grande assolutore di mafiosi) o, l’ex Presidente Vicario del Tribunale di Milano, Diego Curtò e l’ex Generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Cerciello, entrambi condannati per fatti di corruzione, che io stesso denunciai, sin dal lontano 1989, passando per lunghi anni per visionario, tanto da avere subito plurimi processi per pretesa “diffamazione” e “calunnia“, da cui sono stato, infine, scagionato, dopo una strenua battaglia giudiziaria (Citacov, “Il generale Cerciello l’aveva querelato, assolto“, l’Informazione, p.41, 30/11/94; Palau Giovannetti, “la Mala-Giustizia. Corruzione, Clientele, Mafia, Massoneria. Il Caso Palau-Classic Cars“, libro bianco, a cura del Comitato per la Tutela dei Diritti dei Cittadini, 1993).

Petizioni popolari, manifestazioni e iniziative contro la mafia e la corruzione, promosse dal Movimento per la Giustizia Robin Hood, suscitano l’attenzione, anche, di testate ed emittenti televisive estere, interessate a documentare il fenomeno di “mani pulite” e il suo retroterra logistico e organizzativo, trovando spazio sui maggiori quotidiani italiani locali e nazionali (Gi. Za. “Un trentenne miliardario fonda un movimento per la giustizia. E’ c’è anche Robin Hood“, in “L’Indipendente”, 15/2/94; Piana, “Un’associazione milanese estremo baluardo a difesa del pool Mani pulite“, in “La Voce”, 19/11/94; S. Barigazzi, “Giustizia l’è morta. La piazza si dispera“, in “Il Manifesto”, 7/12/94; S. Barigazzi, “Manifestano a Milano. Tra i fischi spuntano le bandiere di Forza Italia“, in “Il Manifesto”, 8/12/94; “Il Corriere Mercantile”, “Banchetti aperti in Via XX Settembre a sostegno dei giudici milanesi“, Genova, 13/2/95; la Repubblica, “Iniziata raccolta di firme a favore di Mani Pulite. Confiscate i beni a mafiosi e corrotti“, Torino, 10.5.95; la Repubblica, “Raid politico-turistico ad Hammamet. Vacanza di otto giorni, tutto compreso, per chiedere l’estradizione di Craxi“, pag. 8, 1/6/95, D.B., “Dalla Città. Petizioni. Fino al 22 raccolta di firme per il pool Mani pulite“, in “La Stampa”, 15/7/95; R.C., “Davanti a S. Croce, Raccolta di firme. Col movimento Robin Hood“, in “Il Piccolo”, Luglio 1995; Verres, “Robin Hood in Valle“, in La Vallè, Aosta, Agosto 1995; A. Carenzo, “Amarcord di un idolo. Nel palazzo aleggia ancora il fantasma di Di Pietro“, in “Il Secolo XIX”, 18/1/96) .

Le attività petitorie dell’Associazione, contro i c.d. decreti “salvaladri” del governo (Biondi e Tremonti), volti a garantire l’impunità ai grandi corruttori di regime e legare le mani alla magistratura, in materia di indagini fiscali e tributarie, vengono riprese, oltre che dai quotidiani, come la Voce (“Seimila firme contro il decreto Tremonti“, 27/7/94), anche, da riviste giuridiche, socio-politiche e settimanali dei consumatori, come “L’Incontro” (“Movimento per la Giustizia. Una petizione contro i corrotti“, n. 4/95) e Il Salvagente (Palau Giovannetti, “C’è un decreto che non deve passare“, in “Il Salvagente”, Anno 3, n. 31, Agosto 1994), ove si denuncia, come il governo, nell’estate 1994, avesse cercato di fare passare alla chetichella, il “decreto Tremonti” (dal nome del Ministro delle Finanze), soprannominato “salvaladri bis” (poi bloccato dalla mancanza del numero legale e dalla protesta popolare), che doveva andare a rimpiazzare l’allora più noto “decreto Biondi”, pure ricusato dalla piazza, attraverso il quale il potere politico intendeva sottoporre al suo incondizionato e discrezionale potere di veto, le verifiche fiscali e tributarie nei confronti dei grandi evasori di Tangentopoli, prima di competenza del Secit della Guardia di Finanza, così impedendo alla Magistratura di indagare liberamente.

Gli anni che seguono, dal 1996 al 1999, che segnano il riflusso dell’azione di Robin Hood e il fallimento di “Mani pulite” (rivelatasi una mera operazione <mediatico-giudiziaria> per ricostruire il volto di una classe politica e di una magistratura che non godevano più di alcuna credibilità, da parte dei cittadini), sono gli anni del violento attacco del potere alle strutture organizzative dell’Associazione che, l’8.6.1999, a mezzo della Polizia Municipale, viene spogliata con violenza e minaccia dei locali di Via Dogana 2, in Milano, sede legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, seppure la magistratura avesse respinto con una duplice decisione, passata in giudicato, la pretestuosa richiesta di rilascio avanzata dalla giunta comunale, proprietaria dell’intero stabile, ove, sono, tuttora, ospitate diecine di associazioni, con ciò dimostrandosi la natura repressiva e discriminatoria dell’illegale azione di “spoglio” (impropriamente definita di “autotutela amministrativa“) e la lampante faziosità del Comune di Milano, che sosteneva intendere “allontanare tutte le associazioni dal centro storico, adducendo la necessità di ridestinare gli spazi ad attività commerciali” (Palau Giovannetti, “Storia di Robin Hood“, in “La Voce di Robin Hood“, N. 1, Ottobre 2002, p. 6; e “Persecuzione politico-giudiziaria“, in “La Voce di Robin Hood“, n. 0, Novembre-Dicembre 1999; e (sempre dello stesso autore) “Il Pretore ci ha dato ragione“, in “Corriere della Sera“, 28.4.96).

La violenta rappresaglia del potere, che intende spazzare via ogni sacca di resistenza e di lotta alla corruzione, non si accontenta di colpire le strutture logistiche dell’Associazione, facendole venir meno qualsiasi sostegno, dopo aver smantellato, clandestinamente, senza alcun preavviso, i suoi uffici e archivi (ove oltre alla mostra umanitaria “Pittori contro la guerra – Artisti per la Pace”, vengono asportati centinaia di fascicoli processuali), ma si abbatte, anche, sui volontari e i responsabili del Movimento per la Giustizia Robin Hood, i quali, senza trovare alcuna tutela, da parte della magistratura, vengono fatti oggetto di continue azioni intimidatorie e <fermi illegali>, da parte di agenti delle forze dell’ordine (che più volte al giorno si presentano ai banchetti di raccolta firme, cercando con ogni pretesto di bloccare la petizione per la restituzione della sede di Via Dogana 2) e dei servizi segreti che minacciano imminenti arresti e ritorsioni, finanche sui parenti, ove gli attivisti si “ostinino” a sostenere l’Associazione.

Fatti della massima gravità, di allarmante pericolosità sociale, su cui, ciò nonostante, non verrà, mai, svolta alcuna indagine, seppure ripetutamente, denunciati e riferiti dalla stampa, che parla di esplicite minacce, ricatti e tentativi di corruzione di attivisti di Robin Hood (L. Piana, “Un’associazione milanese estremo baluardo a difesa del pool Mani pulite“, la Voce, 19/11/95), ben conoscendo il quotidiano, all’epoca diretto da Indro Montanelli, come stiano le cose, avendo già avuto modo di seguire le attività dell’Associazione e di segnalare, al pari di altri quotidiani, anomali sequestri di banchetti per la raccolta firme e turbative, ad opera della Polizia Municipale (“I ghisa contro Robin Hood. Sfrattata da Piazza Duomo, l’Associazione che sostiene Mani pulite“, in “la Voce”, p. 28, 4.2.95; L’Unità, “Vigili sequestrano firme e tavolini a Robin Hood“, p. 23, 4/2/95; Corriere della Sera, “Petizione con rissa“, p. 40, 4/2/95).

Di fronte alla ferma e composta reazione dei volontari che per ben 115 giorni consecutivi, continuano pacificamente a denunciare l’ingiusto sfratto e l’inerzia della magistratura, raccogliendo la solidarietà dei cittadini che, davanti al Tribunale di Milano, sottoscrivono la petizione dell’Associazione, il potere fà scattare una brutale aggressione culminata con l’illegale sequestro di tavoli, firme, penne, striscioni, il fermo di vari volontari e l’arresto del sottoscritto, con la falsa accusa di avere opposto resistenza ai Carabinieri (non a caso appartenenti al “Reparto Servizio Magistrati”, ai quali era stato ordinato di porre fine con ogni mezzo alla scomoda protesta) e di avere provocato “contusioni” a tale M.llo Vicinelli, nel tentativo, si assume, “di impedire l’esecuzione del predetto sequestro“.

Procedimento che, senza, neppure, tenere conto delle testimonianze di numerosi cittadini e di un magistrato, presenti ai fatti, che smentivano le false accuse del M.llo Vicinelli – e nonostante l’annullamento, da parte del Tribunale della Libertà, del provvedimento con cui i Carabinieri avevano proceduto al sequestro, stante l’assoluta illegittimità del loro operato ampiamente sottolineata nell’ordinanza del riesame che ha disposto la restituzione dei materiali in sequestro – si concluderà con una scandalosa condanna a quattro mesi di reclusione, nei confronti di chi l’aggressione l’aveva, invero, solo subita, come confermato da tutti i testi oculari, di certo più affidabili del Vicinelli, la cui dubbia “credibilità” ha prevalso, seppure, risultasse indagato in procedimento connesso per “falso ideologico, abuso di ufficio, violenza privata e turbativa dei diritti politici dei cittadini” (la Voce di Robin Hood, n. 0, novembre-dicembre 1999, “Il Tribunale della Libertà dichiara illegittimo il blitz dei Carabinieri e la Procura archivia le false accuse di oltraggio alla magistratura“).

Sentenza, la cui sommarietà non è sfuggita all’opinione pubblica e alla stampa milanese, la quale ha affermato dalle colonne del quotidiano “Il Giorno” che le lunghe spiegazioni difensive di Pietro Palau Giovannetti, in cui ha rappresentato essere vittima di continue vessazioni da parte delle forze dell’ordine e di una persecuzione ai danni dell’Associazione Robin Hood, da lui diretta, “non gli è bastato per ottenere l’assoluzione“, aggiungendo che: “Il processo non ha chiarito ovviamente l’esatta dinamica del blitz dei carabinieri contro il sit-in, ormai tradizionale, davanti al Tribunale“… che, (ha tenuto a precisare l’articolista) “continua dall’inizio di giugno“…, come a voler sottolineare l’inverosimiglianza dell’impianto accusatorio e la contraddittorietà degli elementi di prova su cui si è basata la condanna, tanto da affermare subito dopo che: “Infatti accusa e difesa sono rimaste sulle loro posizioni in merito al presunto intervento ‘esterno’ da parte di un magistrato che avrebbe dato ordine ai militari di eseguire lo sgombero dei manifestanti“, riferendo, infine l’arringa del difensore circa l’arbitrarietà dell’intervento dei carabinieri e il fatto che “se Falcone tornasse in vita sosterrebbe che esiste anche una mafia giudiziaria“, condividendo la tesi dell’Associazione (Il Giorno, “Robin Hood condannato a quattro mesi. Quattro mesi di carcere per Pietro Palau Giovannetti, accusato di resistenza dopo un sit-in in Tribunale contro i giudici“, p. 35M, 8.10.99).

Condanna che, seppure, palesemente iniqua, è stata confermata anche dalla Cassazione, sesta sezione penale (composta dai giudici Pisanti, Fulgenzi, Ciampa, De Roberto, Conti), con una “sentenza lampo“, che in data 2.5.01, a distanza di soli 18 mesi dai fatti, risalenti al 1.10.99, coprirà ben tre gradi di giudizio, dimostrando come la Suprema Corte possa usare due pesi e due misure non solo nell’accelerare o ritardare il normale iter di fissazione dei processi (per cui spesso, come ben noto a tutti, vengono scarcerati per decorrenza dei termini, frotte di mafiosi e pericolosi delinquenti) ma, anche, nell’applicazione rigorosa delle normative di legge, nella specie eluse, avendo omesso di censurare i molteplici vizi di legittimità in cui sono incorse le decisioni dei giudici di primo e secondo grado, sia in relazione all’omessa valutazione della citata ordinanza del Tribunale della Libertà, ritenuta apoditticamente <irrilevante> (la quale, si ricorda, accertava l’illegittimità dell’operato dei Carabinieri) sia in relazione all’inutilizzabilità delle dichiarazioni del Vicinelli, contenute nel verbale di sequestro, poi, annullato (il quale risultando, peraltro, indagato in procedimento connesso, avendo interesse alla causa, non poteva assumere la qualità di teste), sia in relazione all’omesso avviso all’imputato contumace dell’udienza di appello, dopo la sospensione del giudizio.
Senza parlare poi di una serie di ulteriori eccezioni, afferenti la mancata ammissione delle prove testimoniali, che avrebbero consentito di scagionare l’imputato, nonché la nullità “ab origine” dell’intero procedimento, per avere omesso il primo giudice di sospendere il giudizio e di trasmettere gli atti al Presidente del Tribunale e alla Corte di Cassazione, a seguito della intervenuta ricusazione nei suoi confronti e istanza di rimessione (artt. 37 e 45 c.p.p.).

Vizi, su cui la Suprema Corte di Cassazione, di norma così attenta e rigorosa, a garantire i diritti degli imputati eccellenti (non solo quelli di mafia), non si è, neppure, peritata di pronunciarsi compiutamente, tanto da “dimenticarsi” di considerare che – se è pur vero che la richiesta di ricusazione e di rimessione inibiscono al giudice di definire il giudizio, finché non sia intervenuta ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta dette richieste, e che la sentenza, eventualmente assunta dal Giudice ricusato, è nulla solo se interviene una pronuncia di accoglimento delle istanze de quibus – nella specie, il primo giudice, in persona della Dr.ssa Bianchini, aveva letteralmente omesso di trasmettere gli atti relativi ai ricorsi per ricusazione e legittima suspicione sia al Presidente del Tribunale di Milano, sia alla Corte di Cassazione (come tassativamente previsto dagli artt. 37 c. 2° e 46 c. 3° c.p.p., che impone che il giudice trasmetta immediatamente alla Cassazione la richiesta con i documenti allegati e eventuali osservazioni).
Con la conseguenza che, nessun organo ha, mai, potuto decidere sulle richieste di ricusazione e ‘legittimo sospetto’, avanzate nei confronti del Tribunale di Milano, ragione per cui non si vede come la Cassazione possa sensatamente avere ritenuto sanata la nullità derivante dall’omessa trasmissione degli atti, ovvero sostenuto in buona fede che sarebbe stata necessaria una pronuncia di accoglimento di istanze invero mai trasmesse, per potere rilevare la nullità originaria dell’intero giudizio e della sentenza impugnata che, nella specie, è stata conseguentemente resa in macroscopica violazione del diritto di difesa e per falsa applicazione di norme di diritto.

Motivazioni, quindi, palesemente capziose, illogiche e prive di qualsiasi pregio giuridico, tanto più se si tiene conto che provengono da magistrati di Cassazione, di cui i poco accorti giudici della sesta sezione penale dovranno, pertanto, rispondere, unitamente ai giudici di primo e secondo grado, trattandosi di decisioni affette da falsità ideologiche, plurime attività omissive e dolo revocatorio, idonee a provocare un’ingiusta condanna, nei confronti di chi chiedeva solo giustizia e di ristabilire la legalità infranta, ricevendo la solidarietà da parte di molti degli stessi Carabinieri in servizio presso Palazzo di Giustizia di Milano, che ben conoscono e apprezzano le attività dell’Associazione, ovvero la serietà e l’integrità morale del suo Presidente che, ben lungi dall’essere una persona litigiosa e collerica, ha scelto la strada della nonviolenza e del dialogo, adoperandosi la supremazia della legge della ragione su quella della forza (Sentenza n. 25564/01, Suprema Corte di Cassazione, sesta sezione penale).

La gestione del processo in esame, da parte della magistratura, la quale nel giugno 2005 ha messo in esecuzione l’abnorme condanna, oltre ad altre analoghe, per circa 3 anni di reclusione, di cui parleremo più avanti, non è quindi né un caso isolato né, tantomeno, un errore giudiziario, ma la sciente determinazione del potere di criminalizzare chi si è adoperato per fare emergere la Giustizia, in un Paese in cui – usando le parole del P.M. Gherardo Colombo – la legalità è un <optional> e la verità tarda a venire a galla perché prevale la logica dei ricatti e dell’intimidazione. Chi non cede ai ricatti, perché non ha scheletri negli armadi, viene intimidito, e se non basta, viene messo a tacere per sempre, come Falcone, Borsellino e tanti altri onesti servitori dello Stato.
Poi si darà, ovviamente, la colpa alla mafia, che rappresenta l’unico grande male, dando modo allo Stato (che invece è il bene), di presentarsi come il “Salvatore della Patria“, intorno a cui i cittadini si devono stringere, con fiducia, confidando in quelle stesse istituzioni a cui, ingenuamente, tutte le vittime della malagiustizia (o della mafia) si erano già affidate, venendo, miseramente, tradite, perseguitate, condannate alla morte civile o, barbaramente trucidate, uccise, quando non fisicamente, nello spirito e nella vita privata.

Non mi soffermerò qui a parlare dell’azione persecutoria dello Stato nei miei confronti, seppure sia stato fatto oggetto di oltre 750 procedimenti, con le accuse più disparate, senza alcuna indagine in mio favore, la cui narrazione, anche sintetica, richiederebbe un vero e proprio trattato sugli abusi giudiziari (una sorta di enciclopedia di come difendersi dalla malagiustizia), ma mi limiterò a trattarne, ancora, solo un paio, che riguardano la storia dell’Associazione e il tentativo di screditarne l’azione di denuncia da parte di settori della c.d. <magistratura di regime>, vicina alle logge massoniche, le quali controllando i gangli vitali delle istituzioni, dell’economia e dell’informazione, dagli anni 1996-1999, hanno praticamente imbavagliato la stampa e la televisione, oscurando la pubblicazione di qualsiasi notizia sulle attività del Movimento per la Giustizia Robin Hood e Avvocati senza Frontiere, che continuano silenziosamente ad operare nell’assoluta indifferenza e ostilità delle istituzioni (la Voce di Robin Hood, “Palavobis. Oscurata l’anima di mani pulite!“, p. 3, n. 1, ottobre 2002, Anno III).

Per meglio inquadrare la complessità sociale e la situazione in cui si può venire a trovare un’associazione antimafia che intenda portare avanti con coerenza i suoi fini statutari, rivestono sicuramente interesse degli studiosi sociali altri due blitz delle forze dell’ordine, nella sede del Movimento per la Giustizia Robin Hood, attraverso cui si può comprendere come possa prevalere, nella logica del <Dual State>, la forza <intimidatrice del potere>, su <quella della legalità> che lo stesso Stato dovrebbe, invece, concettualmente, tutelare.

Nella nota concezione di Ernst Fraenkel (1941), basata sull’esperienza dell’Autore con il regime nazista, ma utilizzabile anche per analizzare la situazione italiana, si descrive, infatti, la compresenza nell’assetto statuario di “normatività” e “discrezionalità“, ovvero come la <condizione doppia> rappresenti la complessità di unificazione delle strutture e dei metodi che, secondo Franz Neumann (Autore che ha sviluppato le tesi di Fraenkel), “conducono alla progressiva dissoluzione dello Stato e delle libertà dei cittadini“, configurandosi una funzione dello Stato di soppressione delle libertà politiche e dei diritti dei lavoratori, dei quali venne organizzato il consenso intorno al razzismo imperialistico, tipico del nazionalsocialismo: ciò che, seppure, in altre forme, si sta cercando di ripetere oggi, anche in Italia (Ernst Fraenkel, “Dual State“, Octagon Books, Hardcover, 1969, tr. It. “Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura“, Einaudi, 1983; Franz Neumann, “Behemoth, Struttura e pratica del nazionalsocialismo“, Feltrinelli, 1977).

Il primo dei due blitz, avviene ad opera della Polizia Municipale, durante la “Festa della Befana“, un’iniziativa benefica riservata ai soci, in favore delle vittime della malagiustizia. Il 6 gennaio 1996, presso la sede dell’Associazione, ubicata nello stabile di Via Dogana 2, a Milano (ove hanno sede anche molte altre associazioni, tra cui i Verdi e la Libreria delle Donne), mentre stavano iniziando ad affluire i primi partecipanti, fanno irruzione, senza alcun mandato, un gruppetto di agenti della Polizia Annonaria del Comune di Milano, sostenendo che si sarebbe trattato di una “festa illegale“, in quanto “non autorizzata“, e che, da lì a poco, sarebbe stata eseguita <una operazione del Prefetto di Milano per sgomberare l’Associazione…>, la quale, a dire degli agenti, sarebbe risultata non essere in possesso dei requisiti di legge per potere operare, occupando, tra l’altro, abusivamente i locali di Via Dogana.
A nulla sortendo ogni ragionevole invito ad esaminare i documenti attestanti la legittimità delle attività associative (statuto, libro soci, tessere, ricevute pagamenti affitti, etc.), alcuni associati si determinavano a chiedere l’intervento della Polizia di Stato, denunciando il comportamento illegittimo e minaccioso degli agenti della Annonaria, palesemente esorbitante le loro funzioni istituzionali (limitate a comminare, tutto al più, una multa per la pretesa mancanza di autorizzazione, invero non necessaria, trattandosi di una festa privata), i quali impedivano agli altri associati di entrare alla festa, permanendo, senza titolo né ragione, nei locali privati di un’Associazione di Volontariato, da oltre due ore, in attesa di un più vasto preannunciato fantomatico blitz del Prefetto, che poi non è, infatti, mai, avvenuto.

L’arrivo della Digos, anziché di una normale volante della P.S., complicava la situazione, poiché gli agenti intervenuti facevano parte del Commissariato di P.za S. Sepolcro, che per anni aveva coperto ogni illecito edilizio e urbanistico, denunciato dall’Associazione, in relazione all’immobile di Via Zenale 9, in Milano, di proprietà di palazzinari, molto vicini alla Edilnord di Paolo Berlusconi e all’ex Sindaco di Milano, Pillitteri, cognato di Craxi, per cui io stesso, quale inquilino, avevo denunciato un tentativo di corruzione, rifiutando l’offerta di Lire 1.500.000.000, a mezzo di un assegno, con cui l’ex Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano, Michele Saponara, aveva cercato di mettere a tacere le molteplici denunce sporte nei confronti di suoi assistiti, magistrati, avvocati e disonesti funzionari dello Stato (Corriere della Sera, “Rifiuta un miliardo e mezzo di buonuscita. In Via Zenale inquilino resiste allo sfratto e denuncia un complotto“, 27/7/91; A. Sessa, “Giù le mani dalla città. Un comitato popolare dice basta alle speculazioni edilizie.La denuncia di anni e anni di abusi nel centro storico sfocia in una nuova forma di protesta“, in “L’indipendente”, Cronaca di Milano, p. 24, 3/11/1992; D’Amico, “Dopo il blocco della licenza arriva una gru e continuano i lavori. Sfida alla legge in Via Zenale. Totalmente ignorata la decisione della magistratura“, in “Il Giorno”, 29/10/91).

Gli agenti della Digos, malvedendo, quindi, sia il sottoscritto, che li aveva già denunciati, sia le attività dell’Associazione, ritenuta scomoda, rimanevano del tutto inerti, giungendo, persino, a rifiutare di procedere alla richiesta di “scambio di generalità” con gli agenti dell’Annonaria, che a loro volta si erano rifiutati di farsi identificare con nome, cognome e numero di matricola, proferendo continue minacce di arresto e pesanti considerazioni sul legale rappresentante dell’Associazione e la sua vita privata, in relazione alla vicenda di Via Zenale, da cui dopo anni di abusi, violenze e omissive connivenze dei pubblici poteri, era scattato il sequestro penale dell’intero immobile e delle concessioni edilizie, da parte dell’allora ex P.M. di “mani pulite” Antonio Di Pietro.

Singolarmente, gli agenti dell’Annonaria, il cui intervento avrebbe dovuto essere limitato al solo occasionale controllo delle attività ricreative dell’Associazione, nel quadro di quella che si presentava come una normale attività di routine, mostravano, invece, di nutrire ben diverse intenti e funzioni, rivelando esplicitamente di conoscere fatti privati, del tutto estranei alla mera pretesa necessità di autorizzazione per una festa associativa; fatti che, corre osservare, solo gli agenti della Digos gli potevano avere riferito, i quali, va ricordato, senza alcun ritegno, pur svolgendo una delicata attività di vigilanza e prevenzione, nell’interesse dello Stato, non esitavano ad ostentare pubblicamente le proprie personali simpatie politiche, tenendo appesi alle pareti degli uffici della Digos di P.zza S. Sepolcro (ove io stesso in più occasioni ero stato accompagnato), i gagliardetti di “Forza Italia”, anziché quelli del Milan o della squadra del cuore o, tutto al più, i poster della Pirelli, con le fotomodelle in bikini.

L’epilogo della vicenda, finisce, ancora una volta, con una brutale aggressione e il mio illegale arresto, questa volta consumato nei locali privati dell’Associazione, ad opera degli stessi agenti dell’Annonaria (rivelatisi, invero, parrebbe, una squadra speciale agli ordini del vice-Sindaco di A.N., De Corato), i quali afferrandomi per le braccia, le gambe, i capelli e colpendomi con pugni e calci, anche nei testicoli, mi trascinano con la forza, per tre rampe di scale, tra le proteste verbali di una cinquantina di presenti, che ubbidienti ai principi della nonviolenza non oppongono resistenza, come d’altronde, io stesso, che mi limito a chiedere, una volta trasferito in una cella di sicurezza, presso il Comando della Polizia Municipale di P.zza Beccaria (dove passerò la notte, in attesa del processo per direttissima), di venire trasferito all’ospedale per potermi fare medicare dalle ferite, cosa che mi verrà negata, sino alla scarcerazione il giorno seguente, da parte del Pretore (la Repubblica, “Festa della Befana abusiva. In carcere per oltraggio. Nei guai il presidente dell’associazione Robin Hood“, 7/1/97 e <Befana “abusiva”. Il Pretore libera Palau>, 9/1/97; L’Unità, “Brutta Befana per Robin Hood, Palau a giudizio: ha resistito agli agenti“, 9/1/96; Il Giorno, “Festa illegale. I Vigili arrestano Robin Hood con rissa“, 7/1/96; Corriere della Sera, “Robin Hood resiste agli agenti: fermato“, 8/1/96).

Il giudizio per direttissima, svoltosi avanti al Pretore di Milano, dr. Imprudente, così come la successiva sommaria sentenza di condanna a 12 mesi di “libertà vigilata“, nonostante l’incensuratezza dell’imputato, sono, anche, in questo caso, del tutto scandalosi, essendo venuta meno qualsiasi garanzia di imparzialità decisoria, da parte del giudicante che ha dimostrato la sua faziosità e sudditanza al potere politico, non prestando alcun credito ai numerosi testi della difesa, tra cui persone estranee all’Associazione e passanti, fondando la propria abnorme decisione sulle non certo disinteressate testimonianze degli agenti dell’Annonaria, anche in questo caso non utilizzabili, in quanto indagati in procedimento connesso, come nell’altra vicenda precedentemente narrata dei Carabinieri del “Reparto Servizio Magistrati” di Palazzo di Giustizia (Corriere della Sera, “Robin Hood, arresto confermato“, 9/1/96).

Sarà, solo, la sentenza n.2139/98 della IV sezione penale della Corte d’Appello di Milano, presieduta dall’integerrimo dr. Caccamo (il quale già condannò il gotha di Tangentopoli), a ripristinare la verità e a confermare l’esistenza del denunciato preordinato boicottaggio paralegale delle attività del Movimento della Giustizia Robin Hood, ad opera del Comune di Milano e dei gruppi di pressione riferibili ai partiti di governo della città.

Infatti, annullando l’abnorme condanna del Pretore Imprudente, la Corte Ambrosiana stigmatizza l’accaduto, affermando, testualmente, che: “…al di fuori di schemi formali la vicenda deve essere valutata con senso di equità“. “Infatti, il Palau, ritenendo, forse, non del tutto a torto, di avere subito degli abusi nella gestione giudiziaria di vicende che hanno portato alla perdita del patrimonio famigliare ha creduto, e crede, di trovare nel Movimento per la Giustizia una tribuna di protesta aperta a chi avesse subito vessazioni, da parte del potere… che costituisse appoggio e consenso popolare alla lotta contro la corruzione, quella giudiziaria inclusa“. “Le rumorose iniziative e manifestazioni civili non hanno, ovviamente, incontrato il favore delle varie Autorità che negli occasionali interventi non hanno mancato di manifestare il fastidio per quella che vedevano come una azione di disturbo“. “Che il Palau fosse in buona fede lo dimostra il fatto che egli chiese subito l’intervento della Polizia di Stato.
E quel che stupisce è che i funzionari sopraggiunti si sarebbero limitati a cercare di spiegare, a loro dire, che i vigili avevano ragione e fossero poi rimasti spettatori inerti delle seguite diatribe e vie di fatto, senza intervenire quasi si trattasse di fatti che non li riguardavano
“. “Non va poi sottaciuto che appare piuttosto strano che alle vie di fatto fosse passato per primo il Palau se si tiene conto della sproporzione fisica degli antagonisti. Incidentalmente, va rilevato che il Palau nell’occorso riportò lesioni ben più gravi delle piccole contusioni riportate dai due vigili” (sentenza n.2139/98, Corte Appello Milano, 4 sezione penale).

L’autorevole sentenza della Corte Ambrosiana, non piacendo ai poteri forti, scatenerà l’ira della massoneria giudiziaria milanese e il risentito ricorso del Procuratore Generale, alla Cassazione, quindi una serie di “procedimenti di rinvio“, scambi di denunce tra giudicanti e imputato (tra cui lo stesso Pretore Imprudente), nuove assoluzioni del sottoscritto e, infine, una catena di opposizioni alla Procura di Brescia, al tentativo di archiviazione della querela, tuttora insabbiata, contro gli agenti dell’Annonaria e i molteplici magistrati che hanno avuto parte nell’illegittima azione di criminalizzazione e soffocamento dei più elementari diritti politici dell’Associazione . Fatti su cui, allo stato, la Procura bresciana, territorialmente competente per territorio, nonché ogni altra Autorità dello Stato adita, dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, alla Procura Nazionale Antimafia e al Presidente della Repubblica, a distanza di ben 10 anni dalla prima denuncia, non ha, ancora, svolto la benché minima indagine, nonostante l’allarmante valenza criminosa e la pericolosità sociale dei comportamenti posti in essere dai diversi funzionari dello Stato e dai magistrati inquirenti e giudicanti coinvolti (Atto di opposizione, ex art. 410 c.p.p., 7/6/04, P.M. di Brescia, dr. Gallo, R.G.N.R. 13899/03).

Tentativi di insabbiamento e connivenze a parte, resta il fatto che quella parte sana della magistratura, che pure esiste, anche se si fa molta fatica ad individuarla (almeno tra i viventi), ha annullato l’arbitraria condanna a 12 mesi di libertà controllata, inflitta dal Pretore Imprudente, per la pretesa “resistenza” agli agenti della Polizia Annonaria, i quali, senza alcun mandato, avevano fatto irruzione nei locali dell’Associazione, con il pretesto di un controllo di routine, arrestando il promotore, come ancora oggi si usa fare nei Paesi autoritari, privi di diritti certi, credendo che il cammino della giustizia e la storia possano essere fermati dalla repressione, colpendo i simboli della resistenza della società civile.
In proposito, è opportuno sottolineare, come la misura della <libertà vigilata> (art. 228 c.p.p.), rientri tra le tipiche restrizioni, attraverso cui il fascismo ieri e le “democrazie mafiose” oggi (usando la definizione di Panfilo Gentile), organizzino il controllo politico del dissenso, calpestando le libertà fondamentali dei cittadini (Panfilo Gentile, “Democrazie Mafiose. L’altra faccia del sistema democratico. Come i partiti mantengono il potere“, Ponte alla Grazie, 1997).

L’istituto della “vigilanza speciale” che prevede la sorveglianza della persona in stato di libertà controllata, da parte dell’Autorità di pubblica sicurezza, trae le sue origini, infatti, dal codice Zanardelli, risalendo alla fine del diciottesimo secolo, in cui la misura aveva funzioni esclusivamente repressive, volte a salvaguardare la sicurezza e la conservazione della società giuridicamente organizzata, riguardando soggetti ad alta pericolosità sociale, quali possono considerarsi oggi boss mafiosi, serial killer, pericolosi delinquenti, ma non certo il rappresentante di un’ associazione di volontariato che si adopera per il rispetto della legalità e dei diritti dei cittadini più deboli. Sotto tale profilo appare, quindi, del tutto evidente come la misura inflitta a una persona incensurata non avesse altra funzione che quella di sottoporre il soggetto passivo ad uno stretto controllo, da parte dell’Autorità di P.S., della sua vita pubblica e privata, nonché di ingerire pesantemente nella vita dell’Associazione, screditandone il fondatore, allo scopo precipuo di allontanare gli associati.

L’altro blitz, nella sede dell’Associazione, tra i tanti da ricordare, di cui va trasmessa la memoria storica, per comprendere come il potere agisca nel consapevole intendimento di contrastare con ogni mezzo l’azione diretta dei cittadini atta a creare legalità, è avvenuto, ancora, ad opera della Digos, circa un anno dopo, durante l’allestimento della mostra umanitaria “Pittori contro la guerra 1997“, in favore dei bambini profughi dell’ex Zaire. Una manifestazione che si proponeva di diffondere un messaggio di pace e solidarietà per l’educazione al rispetto dei diritti umani e per l’effettiva attuazione della “Dichiarazione Universale”, sancita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948. La mostra, articolata in quattro sezioni, con oltre 400 opere e sculture, provenienti da artisti di tutto il mondo, era patrocinata dalle maggiori Autorità in campo internazionale, tra cui, in particolare:
– l’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra;
– la Rappresentanza Italiana della Commissione Europea;
– l’U.N.I.C.E.F.;
– l’U.N.E.S.C.O. di Parigi;
– Il Ministero della Cultura e il Governo della Croazia;
– la Municipalità di Dubrovnik;
– le maggiori Accademie di Belle Arti in Italia e all’estero;
– la Provincia di Milano;
– la Regione Lombardia;
– la compagnia di bandiera ALITALIA.
L’articolazione della mostra in quattro sezioni, concepite per sviluppare una discussione sui grandi temi della giustizia, della legalità e della guerra, coinvolgendo la partecipazione dell’intera società civile, a partire dai bambini delle scuole elementari, sino agli studenti delle Accademie di Belli Arti, prevedeva in particolare:

– “Concorso non competitivo sul tema della guerra ” (per pittori professionisti e amatori, aperto ai docenti e agli allievi dei licei e Accademie di Belle Arti);

– “I Pittori di Dubrovnik” (rassegna di trenta opere dei maggiori artisti croati per non spezzare la catena della solidarietà);

– “I Colori contro la guerra” (rassegna di disegni di bambini e studenti);

– “l’Etica della politica” (rassegna di quindici “falsi d’autore” con caricature di politici italiani per significare la falsità della politica e che la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi).

L’iniziativa, tenuto conto della sua rilevanza sociale e culturale, veniva pubblicizzata gratuitamente sul quotidiano “la Repubblica” e riviste del settore, oltre che da radiogiornali, televisioni e dall’Alitalia con locandine affisse in tutti gli aeroporti italiani (la Repubblica, “Pittori contro la guerra 1997. Una mostra contro l’ingiustizia e l’indifferenza“, 12/5/97; Corriere della Sera, in “ViviMilano”, (Mostra) Pacifista, 6/3/97; ArteCultura n. 4 Aprile 1997 e n. 5 Maggio 1997).
La presentazione ufficiale della mostra avveniva a Dubrovnik, il 29.3.97, alla presenza dei rappresentanti del Governo di Croazia e del Movimento per la Giustizia Robin Hood, esponendo, in anteprima, una trentina di opere, offerte dai maggiori artisti croati, per significare il legame di solidarietà che unisce le popolazioni colpite dalla guerra e fare arrivare un messaggio forte da una città che era stata distrutta dai bombardamenti e da poco ricostruita (Slobodna Dalmacija, Uskrs, 1997; Dubrovacki Vjesnik, 29.3.97).

Ciò nonostante, in data 8.4.97, gli agenti della Digos di P.za S. Sepolcro, si presentavano in forze presso la sede dell’Associazione, questa volta, però, con un mandato del P.M. Stefano Aprile, con il quale si chiedeva di perquisire i locali di Via Dogana 2, provvedendo al sequestro di 15 quadri, della sezione dedicata all’etica della politica, raffiguranti “falsi d’autore“, con opere di Matisse, Degas, Magritte, Brauner, Picasso, Ligabue, Rousseau, Lautrec, i cui volti dei soggetti originali delle opere erano stati sostituiti con le caricature di alcuni politici italiani della prima e seconda Repubblica, ritratti in pose ironiche, per rendere evidente che la politica deve essere intesa come una missione per il bene della società e non un mestiere per arricchirsi illecitamente.

L’accusa mossa dal P.M. Stefano Aprile, assolutamente infondata e infamante, inspecie per chi propone una mostra all’insegna dell’etica politica, è di “appropriazione indebita“.
A questo punto, corre opportuno precisare che, le opere in questione erano state donate circa due anni prima, da una pittrice non professionista, la quale aveva pubblicamente dichiarato in una intervista alla rivista “Stop”, di essere tra i promotori della mostra umanitaria, dedicata ai bambini profughi dell’ex Zaire (M. Di Leo, “Eccovi il Circo della politica“, Stop, Dicembre 1996).
La concomitanza dell’accusa e del ‘capzioso’ sequestro penale, con l’imminente inaugurazione della mostra, che doveva aprire i battenti pochi giorni dopo, ben evidenzia, anche in questo caso, la funzione palesemente strumentale del provvedimento paralegale del P.M. Stefano Aprile, volto a stroncare sul nascere, con la pesante accusa di “appropriazione indebita”, un’iniziativa destinata a creare solidarietà e simpatie intorno all’Associazione promotrice, che risultavano evidentemente scomode a chi non ha alcun interesse a vedere crescere un movimento spontaneo di cittadini, scollegati dagli interessi della politica dei partiti, i quali si pongono al di là di ogni sterile contrapposizione ideologica per fare emergere la legalità.
Il pretesto per colpire l’invisa Associazione viene costruito a tavolino, attraverso l’anomala intesa tra l’Amministrazione Comunale, guidata da una coalizione di centro-destra, e la Federazione milanese del PDS, partito storico della <opposizione di sinistra>, i quali per interessi convergenti, entrambi malvedono il rafforzarsi nella società civile di una Onlus non controllabile politicamente e per di più impegnata nella lotta alla mafia e alla corruzione che, tanto da vicino riguarda gli stessi apparati burocratico-amministrativi della locale Pubblica Amministrazione e dei relativi partiti di governo e di opposizione (virtuale o reale che sia).
Entrambi i soggetti entrano, infatti, in contatto con l’autrice dei falsi di autore, la quale inizialmente si adoperava per ottenere il patrocinio alla mostra, da parte dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano e del Ministro per i Beni Culturali, On. Veltroni, già Direttore dell’Unità.
Ne consegue che, Comune di Milano e Federazione milanese del PDS, offrono il <loro appoggio> alla pittrice, personalmente, anziché alla Associazione, lusingandola con la promessa di farla partecipare con una “personale” al Festival dell’Unità, con un proprio stand sui falsi d’autore, a patto che ella accettasse di revocare qualsiasi forma di collaborazione alla scomoda Associazione, rientrando in possesso dei quadri, che si ricorda erano stati donati quasi due anni prima, dalla medesima pittrice, la quale rendeva pubblico con una intervista alla stampa, il proprio impegno di offrire il ricavato della vendita all’asta, in favore dei bambini profughi, vittime del conflitto nell’ex Zaire (Di Leo, “Eccovi il Circo della politica“, Stop, Dic. 1996).

Accade, così, che il Responsabile del locale Festival dell’Unità, Luca Bernareggi, inviti la pittrice, già sostenitrice della mostra “Pittori contro la guerra”, ad esporre i falsi di autore al Festival milanese dell’Unità e che, quest’ultima, richieda di tornare in possesso dei quadri, sostenendo, pretestuosamente, di avere appreso dal Comune di Milano (senza meglio precisare da chi), che la mostra “non avrebbe mai avuto luogo” e che l’Associazione avrebbe fatto meglio a rinunciare all’iniziativa se non avesse voluto incontrare ulteriori problemi legali.
Pur avendo ricevuto assenso all’ingiustificata pretesa di restituzione dei quadri, al termine della mostra umanitaria, la pittrice, anziché rivolgersi al Giudice civile, con una normale <azione petitoria>, trattandosi di una mera controversia sul diritto di proprietà dei quadri, sporgeva inopinatamente querela presso il Commissariato di P.S. di P.zza S. Sepolcro (quello dove all’Ufficio Politico della Digos sono in bella vista i gagliardetti di Forza Italia), i cui funzionari dirigenti, senza neppure peritarsi di sentire la versione dell’Associazione, si affrettavano a richiedere il <sequestro preventivo> delle opere, quale preteso “corpo di reato”, presentando, falsamente, il sottoscritto come una persona “socialmente pericolosa“, nonché spingendosi a sostenere, in spregio a qualsiasi contraria evidenza documentale, risultante dai certificati penali, che lo stesso avrebbe subito precedenti condanne per non meglio precisati “reati contro il patrimonio” (Comunicazione di notizia di reato con richiesta di decreto di Sequestro Preventivo, 7/4/97, Questura di Milano, Commissariato della P. di S. di P.zza S. Selpocro, Ispettore Carmelo Di Grazia).
Circostanza che, seppure palesemente falsa, forniva il pretesto per motivare la misura del sequestro cautelare “inaudita altera parte“, onde impedire all’indagato, asseritamente, “pregiudicato” per reati consimili (tenuto conto delle a lui attribuite “indole a delinquere” e “pericolosità sociale“), di “sottrarre o disperdere i quadri“, neanche si trattasse di un trafficante internazionale di opere d’arte o dei preziosi dipinti originali – e, non già, di falsi con mere caricature di modesto valore commerciale.

Il P.M., Dr. Stefano Aprile, su cui la massoneria giudiziaria pilotava il procedimento, si rivelava essere, guardacaso, figlio di Goffredo Aprile, titolare di una <cooperativa rosa>, tempo addietro denunciata dall’Associazione, per avere spogliato con violenza e minaccia, della loro abitazione, dopo una vera e propria frode processuale, un’umile famiglia di operai, che l’aveva acquistata con grandissimi sacrifici.
In tale anomalo contesto, una volta disposto il sequestro, il P.M. respingeva qualsiasi istanza di restituzione dei quadri, motivata a consentire la loro sola esposizione, quantomeno, sino al termine della mostra, onde non privarla della sezione dedicata all’etica della politica, sul presupposto che la sua realizzazione era stata da tempo preannunciata dagli Enti promotori e dalla stessa autrice, costituendo parte integrante dell’importante iniziativa umanitaria.
Ignaro di tutto ciò, anche, l’allora Procuratore Capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, pur edotto dei gravi motivi di <incompatibilità> e <conflitto di interessi>, gravanti sul suo Sostituto P.M., Stefano Aprile, ometteva di provvedere alla sua sostituzione, come richiesto e previsto dagli artt. 36, comma 1, lettera a), b), d) e) e 53 comma 2 c.p.p.; omissione in cui incorreva, a sua volta, il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Milano, pure sollecitato in tal senso, il quale ai sensi del comma 3 del medesimo art. 53 c.p.p., in caso di inerzia del Procuratore Capo, avrebbe dovuto provvedere a designare un magistrato appartenente al suo ufficio (art. 372, lettera b c.p.p.).

La prima edizione di “Pittori contro la guerra“, con oltre 400 opere e sculture esposte, prendeva, quindi, il via in mezzo ad una vera e propria “bufera giudiziaria”, a cui si aggiungeva, infine, l’imposizione del silenzio stampa, nonostante una positiva recensione di Sergio D’Asnasch, Consigliere e Segretario dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia e noto critico d’arte, il quale ebbe a visitare la mostra, in veste di inviato dell’Agenzia giornalistica A.N.S.A., dandone un positivo giudizio critico in cui sottolineava la “validità sociale ed artistica” dell’iniziativa, cosa che riconfermava, più recentemente, in una dichiarazione, rilasciata a fini di giustizia, in relazione al procedimento penale, pendente avanti al Tribunale di Milano, Giudice monocratico, Dr. Zucchetti, a carico del Presidente dell’Associazione, per il reato di appropriazione indebita, nel corso del quale, gli agenti della Polizia di Stato, al fine di sostenere la pretestuosa accusa, erano giunti a negare che “la mostra avesse avuto luogo” e che “esistessero altri quadri, oltre a quelli sequestrati” (Sergio D’Asnasch, “Attestazione autografa“, agli atti del procedimento penale R.G.N.R., n. 6590/01, a carico di Pietro Palau Giovannetti).

Senza perdersi d’animo, i legali dell’Associazione provvedevano a citare a giudizio, con un ricorso, ex artt. 700 e 703 c.p.c., oltre alla pittrice e al P.M. Stefano Aprile, la Federazione milanese del PDS, l’Ispettore di P.S. Carmelo di Grazia, il Comune di Milano e i Ministeri di Interno, Giustizia, Beni Culturali, ritenendoli, solidalmente, responsabili di avere, artatamente, provocato, in esecuzione di un preordinato disegno criminoso, lo spoglio della sezione dedicata all’etica della politica (di cui richiedevano l’immediata restituzione), allo scopo precipuo di boicottare le attività del Movimento per la Giustizia Robin Hood, ovvero la sua affermazione, quale nuova forza emergente espressa dalla società civile (Atto di citazione, Tribunale di Milano, IV sezione civile, procedimento R.G. n. 15228/97).

In proposito, i difensori dell’Associazione, richiedendo in via <cautelare e di urgenza>, la restituzione dei quadri, rilevavano che, seppure il sequestro fosse avvenuto in base ad un “ordine” dell’Autorità Giudiziaria, tale provvedimento doveva ritenersi illegittimo, in quanto affetto da <dolo collusorio>, rivestendo il P.M. la qualità di <coautore dello spoglio>, conformemente a quanto stabilito, in situazione consimile, dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione (Cass. n. 5070/83).
E, ciò, anche, alla luce del fatto che, il P.M. aveva, nelle more, indebitamente, acconsentito a disporre il dissequestro dei quadri, pur in pendenza della controversia sulla proprietà, in accoglimento della richiesta di “restituzione“, avanzata dalla pittrice (la quale era stata, invece, respinta per ben quattro volte consecutive da altri suoi colleghi P.M. di turno: Albertini, Scagliarini, D’Orsi, Scagliarini), affinché li potesse esporre al Festival milanese dell’Unità, come sollecitato dal Responsabile Organizzativo, Luca Bernareggi, a mezzo di una lettera in data 24.7.97, di cui, poi, la difesa della Federazione milanese del PDS, non potendo disconoscerne la provenienza e l’autenticità, ha cercato con ogni mezzo di sostenerne l’inesistenza, tanto da affermare ripetutamente, contro ogni evidenza cartacea e principio di buona fede, che tale lettera “non sarebbe risultata prodotta agli atti del giudizio“.
Circa la palese illegittimità del dissequestro e la malafede processuale del P.M. veniva, altresì, rilevato che questi, prima di provvedere alla “restituzione” ad una delle due parti in causa, non aveva compiuto alcun atto, volto a rimettere la controversia sulla proprietà dei quadri, al Giudice civile, come, tassativamente, previsto dall’art. 263 c. 3° c.p.p.

Evidenziando, poi, che tale omissione e l’ingiustificata contumacia del P.M., costituissero la prova incontrovertibile dell’insostenibilità e strumentalità della <pseudoimputazione> di “appropriazione indebita“, ovvero della consapevolezza, da parte della pubblica accusa, della materiale impossibilità di ottenere una sentenza di condanna.
Verdetto che, infatti, non è tuttora giunto, seppure il procedimento penale sia in corso da oltre 8 anni e i legali dell’Associazione abbiano ampiamente dimostrato la piena proprietà e disponibilità delle opere, da ben quasi due anni prima la pretestuosa denuncia, pilotata da chi aveva in animo di arrestare la crescita spontanea di un movimento antimafia e anticorruzione nel cuore della capitale finanziaria del Paese.
Nonostante tali evidenze, nessun giudice civile né penale, ha trovato il coraggio di ristabilire la legalità, provvedendo a tutelare le libertà associative del Movimento per la Giustizia, restituendogli, quantomeno, se non i quadri, la dignità morale che gli compete, cosa che, comunque, purtroppo, non servirà a salvare le vite umane di quei 400.000 profughi dell’ex Zaire, morti di stenti, che “Pittori contro la guerra 1997”, nel suo piccolo, si proponeva di aiutare.

Quale ultimo atto dell’infaticabile azione di boicottaggio, da parte dello Stato, attraverso cui si è cercato paralizzare la mostra e qualsiasi attività associativa, vale la pena dulcis in fundo ricordare la disattivazione di tutte le linee telefoniche, di telefonia fissa e mobile, riferibili all’Associazione e finanche all’abitazione dello scrivente, ad opera della Telecom Italia e della TIM (quella che Beppe Grillo definì “un’associazione di stampo telefonico”), le quali, all’epoca, agivano, ancora, in pieno regime di monopolio, su concessione del Ministero delle Telecomunicazioni.
Storia che appare utile narrare, onde far comprendere <le ramificazioni> dell’azione repressiva da parte dello Stato e la forma <tentacolare> che la stessa può assumere nel tentativo di avvolgere le vittime nelle proprie spire, soffocandone ogni possibilità di resistenza.

In una prima fase, si trattò di una incessante serie di turbative, in cui Telecom e Tim, adducendo falsamente che non sarebbero stati effettuati i pagamenti di alcune fatture, sospendevano contemporaneamente il servizio per vari giorni di ben tre diverse utenze, ignorando ogni contestazione, circa la violazione del Regolamento di Servizio, che prevede che il gestore monopolista prima di privare l’utente del servizio, lo debba mettere in mora e attendere la soluzione della controversia, ove sorgano contestazioni sul pagamento delle bollette telefoniche (Art. 13, commi 2° e 5° del Regolamento di Servizio Telecom Italia).

Nella fase terminale del boicottaggio, nonostante l’instaurarsi di varie denunce e citazioni per spoglio delle linee telefoniche, ai sensi degli artt. 700 e 703 c.p.c., nei confronti di Telecom, TIM e Ministero Telecomunicazioni, gli Enti resistenti, anche grazie all’inerzia dei giudici, che negavano qualsiasi tutela, coprendone l’illegittimo operato, si spingevano a risolvere “unilateralmente” ogni contratto di utenza telefonica, seppure fosse stata raggiunta piena prova in giudizio, dell’avvenuto integrale pagamento delle fatture, nonché offerta garanzia fidejussoria, a mezzo libretto bancario, sino alla concorrenza delle somme indebitamente pretese (Atto di Appello, in data 26/8/03, avverso sentenza Tribunale di Milano, n. 9410/02 – R.G. 3001/01, Corte Appello Milano).

I vari giudici investiti dei procedimenti azionati dalla Associazione, menomata nella sua libertà di comunicazione, anziché censurare gli illeciti comportamenti del Gestore, chi ritenendosi “calunniato“, chi “oltraggiato“, chi, ancora, addirittura, “minacciato“, per il contenuto degli scritti difensivi e le “insistenti istanze” dell’Associazione per giungere alla definizione dei numerosi giudizi – su cui a distanza di quasi 9 anni, non è, ancora, stata pronunciata una sentenza definitiva – si spingevano a sporgere una serie di denunce alla Procura di Brescia, accanendosi nei confronti del sottoscritto, quale rappresentante legale dell’Associazione.
A seguito di ciò, il Tribunale penale di Brescia, in questo caso, in tempi inusitatamente brevi (da vera e propria giustizia scandinava), tanto da non curarsi, neppure, della regolarità degli avvisi al difensore dell’imputato, circa la comunicazione del rinvio d’ufficio dell’udienza dibattimentale e, senza, svolgere alcuna indagine in favore dell’imputato, né preoccuparsi di citarlo a deporre sui fatti per sentire la sua versione, mai raccolta, pronunciava una frettolosa sentenza di condanna contumaciale a quattro mesi di reclusione, ritenendolo responsabile del reato di “minacce” (art. 336 c.p.), consistite: “nell’essere improvvisamente entrato” – così si assume nel capo d’imputazione – “…nella stanza del Giudice; nel chiedere di assumere rapidamente la decisione della propria causa; nell’impedire di chiudere la porta, gridando: “non ho paura di lei la tampinerò”; nel costringere la dr.ssa Magda Alessi, appartenente alla 11^ sezione civile del Tribunale di Milano, ad assumere una decisione allo stesso favorevole nella causa, n. 4395/98, nei confronti di Telecom Italia s.p.a. e altri” (Atto di appello in data 1.3.03, avverso sentenza Tribunale penale di Brescia, n. 3500/02, c/Pietro Palau Giovannetti).

A nulla giovava, neppure, rivolgersi alle più alte cariche dello Stato, tra cui l’allora Presidente del Consiglio dei Ministro, On. D’Alema (Esposto 4.11.98), il quale nella sua funzione di Presidente del “Comitato Permanente per l’Attuazione della Carta dei Servizi Pubblici“, era istituzionalmente preposto a svolgere funzioni di sorveglianza e di controllo, in applicazione delle Direttive Comunitarie (Direttiva CEE 95/62), Direttive del Ministro delle Poste in data 31.10.95 e 22.11.95, nonché Direttive dello stesso Presidente del Consiglio dei Ministri, in data 27.1.94, in relazione alle sanzioni da applicarsi al Gestore del Servizio telefonico pubblico, in caso di violazione delle funzioni istituzionali, circa il diritto alla libertà di comunicazione telefonica, sancita anche dalla Corte Costituzionale.

In proposito, si ricorda che, la Corte Costituzionale, seppure ignorata, ha autorevolmente ritenuto che, in relazione alle ipotesi di recesso, senza giusta causa, anche la clausola sulla morosità non determini il recesso, risolvendosi “in un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, in danno del consumatore” (Corte Cost., sentenza n. 1104/88). Aggiungendo, poi, che: “tale significativo squilibrio appare ancora più evidente, ove si consideri che l’Ente viola i principi fondamentali dell’ordinamento, collegati alla violazione del diritto di comunicazione telefonica. Diritto che si è ritenuto rientrare nella sfera dei diritti inalienabili, ai sensi dell’art. 2 Cost. (Cass. n. 2914/90), dovendosi conseguentemente ritenere che la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), debba avvalersi necessariamente di un mezzo di diffusione, quale il servizio telefonico, e tale servizio allo stato dell’attuale progresso socio-economico deve ritenersi un servizio pubblico essenziale” (in Foro It. I, 1989, I, C. 7).

Diversi anni dopo, una volta che, ormai, l’Associazione era stata sloggiata dalla propria sede, senza disporre delle proprie linee telefoniche, intervenivano due sentenze di rinvio, da parte della Suprema Corte di Cassazione (Sezione terza, nn. 13754/02 e 2058/04), che accoglievano i ricorsi dei legali dell’Associazione contro le sentenze emesse dai giudici milanesi: quelli per intenderci che avevano negato qualsiasi tutela, invano, invocata, ottenendo la condanna a quattro mesi di reclusione della parte ricorrente, in tempi e forme del tutto scandalose per una giustizia che possa reputarsi degna di questo nome.
A seguito di tali decisioni le domande di ripristino dei contratti e delle linee telefoniche sono, quindi, ora, rimbalzate al Tribunale di Milano, che a distanza di quasi 9 anni dai fatti, deve ancora decidere, proprio come nel precitato caso dello spoglio dei quadri della mostra “Pittori contro la guerra 1997”.
E l’odissea non sembra finire qui (Atto di citazione in riassunzione, Tribunale di Milano, Sezione IV civile, dr. Manunta, R.G. n 66945/03).

Quest’ulteriore emblematico episodio di “malagestio” dell’Amministrazione della Giustizia che suggella 20 anni di continue turbative e boicottaggio paraistituzionale delle attività dell’Associazione, rappresenta l’estremo tentativo dell’apparato repressivo dello Stato e di chi ne controlla le leve di comando di mettere a tacere una voce scomoda e indipendente, cercando di soffocarne proprio la <libertà di comunicazione telefonica> che a, seguito dello sviluppo tecnologico e del progresso economico, è divenuta un diritto essenziale, equiparabile alla libertà di manifestazione del pensiero, come statuito dalla già citate massime della Corte Costituzionale e dalle Direttive della CEE, in materia.
La concomitanza dello spoglio delle linee telefoniche e dei quadri della sezione dedicata all’etica della politica, a cui fa seguito, nel giugno del 1999, lo spoglio violento della sede dell’Associazione, non è una coincidenza temporale, determinata dal caso, ma la lucida scelta di tempi e tecniche repressive, attraverso cui lo Stato e i suoi apparati territoriali, facendo leva su una magistratura, priva di una cultura dei diritti, in larga parte asservita agli interessi dell’establishment, hanno deciso di <sospendere> le tradizioni normative e le garanzie costituzionali, nei confronti di chi ne rivendicava l’applicazione, determinando <quella “eccezione” della discrezionalità che conferma la regola dell’arbitrarietà>, tipica dei regimi totalitari o, se si preferisce, dei Paesi privi di diritti certi.

Il programma che l’Associazione si proponeva di realizzare, attraverso la mostra “Pittori contro la guerra 1997“, collegando le organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti, aprendo la sede di Via Dogana alle iniziative della società civile, offrendo tutela gratuita alle vittime della malagiustizia, lanciando campagne per la confisca dei patrimoni illeciti e per l’istituzione di una Commissione di controllo sull’operato di politici e magistrati, a cui potenzialmente potevano collaborare gli oltre 250.000 cittadini che avevano firmato le sue petizioni, era talmente temibile, da parte di chi voleva conservare i logori equilibri, su cui, tuttora, si regge l’organizzazione dello Stato, che è sembrato quasi “indispensabile“, cercare di sopprimere con qualsiasi mezzo, chi “osava” turbare quell’assetto di potere che, seppure moralmente inaccettabile alle gente per bene, per chi amministra il potere, viene inteso come il cardine dell’ordine sociale e della sicurezza dello Stato.

Ripercorrendo il manifesto di presentazione di “Pittori contro la guerra 1997”, si legge, infatti, testualmente che: “il Movimento per la Giustizia Robin Hood, quale associazione di volontariato, intende proporre alle persone di buona volontà e alle migliaia di associazioni umanitarie che agiscono sparse in ogni parte del mondo (e di cui spesso si ignora la reciproca esistenza), la creazione di una forte federazione internazionale con statuto depositato presso le Nazioni Unite (mantenendo le singole autonomie e competenze), in modo di potere pesare concretamente sul piano interno e internazionale con proposte e iniziative volte a garantire l’effettivo rispetto dei diritti umani nel mondo.
Il significato che potrebbe, ad esempio, assumere una campagna contro la produzione di armi da guerra o per interventi umanitari a favore di popolazioni colpite da conflitti bellici, promossa contemporaneamente da migliaia di associazioni non governative in ogni parte del mondo, è certo di diversa incidenza rispetto ad ogni singola iniziativa di ogni singola associazione, localmente circoscritta.
La proposta è quindi quella di iniziare a lavorare insieme, creando momenti di incontro e collegamenti, per costruire un ordine mondiale di pace e solidarietà tra i popoli, nel rispetto delle diversità culturali, etniche, sociali, politiche e religiose, ovvero un’etica universale dei diritti umani
“.
E’ oggi possibile affermare (prosegue il documento) una nuova cultura universale, capace di mutare i rapporti sociali e attuare i principi etici di uguaglianza e solidarietà tra gli uomini, estirpando dai loro cuori l’egoismo, l’odio e l’arroganza, da cui nascono le guerre.
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo pronunciata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite deve venire oggi concretamente attuata in ogni parte del mondo. Gli stati membri dell’O.N.U. ne hanno formalmente assimilato i principi fondamentali nei loro ordinamenti con leggi specifiche con cui uniformare l’organizzazione sociale, consolidando il principio supremo di “ORDINE INTERNAZIONALE”, fondato sul rispetto dei diritti umani universali e, conseguentemente, il principio di “NON LIBERTÀ DEGLI STATI” ad agire in spregio alle convenzioni internazionali.
Ma le brutalità e le gravi forane di ingiustizia che affliggono più o meno tutti i paesi del mondo testimoniano come siamo, ancora, ben lontani dall’effettivo rispetto dei diritti umani. I cosiddetti diritti di “PRIMA GENERAZIONE” (civili e politici), strettamente legati al diritto alla vita, alla libertà di pensiero e di associazione, a ricevere un processo equo, in tempi rapidi, da un tribunale imparziale, vengono, ancora, violati in gran parte del mondo, così come quelli definiti di “SECONDA GENERAZIONE” (economici, sociali e culturali) e di “TERZA GENERAZIONE”‘ (pace, ambiente, sviluppo).
Pensiamo a quanto accade nell’ex Zaire dove oltre un milione di persone e bambini hanno dovuto abbandonare i loro villaggi, le loro case, e si trovano senza acqua, viveri, medicine e mezzi di sussistenza, senza che la Comunità internazionale sia riuscita ad intervenire, come ha denunciato lo stesso Alto Commissario, Ogata Sadako, che ha lanciato un allarmante appello lo scorso aprile. La cultura occidentale (dalla Magna Charta nel 1200) ha inventato i cosiddetti diritti di prima generazione e il linguaggio giuridico.
Benché i diritti di prima generazione siamo stati concepiti in Europa, proprio nell’ambito di questo continente si è affermato il colonialismo e la giustificazione etica dello “STATO ARMATO”, a protezione del brutale sfruttamento economico delle risorse naturali e umane dei paesi in via di sviluppo.
A superamento di questa logica è auspicabile che si progetti una nuova concezione dello Stato, intervenendo sull’organizzazione delle istituzioni, con particolare attenzione alle strutture educative, che devono diventare scuole di educazione alla cittadinanza, per sviluppare la massima attenzione e ricettività ai bisogni dei cittadini. Attraverso nuove forme di cooperazione internazionale e specifici progetti delle Nazioni Unite, oggetto dell’attuale dibattito, sarà possibile risolvere il problema dei flussi migratori e della fame nel mondo, sulla base di valori umani universali. In tal modo alla “cittadinanza anagrafica” si sostituirà lo “STATUTO GIURIDICO DELLA PERSONA UMANA“, fondato sui principio della cittadinanza universale (cittadini del mondo)
“.
Per frenare le gravi forme di ingiustizia e le sistematiche violazioni dei diritti fondamentali (conclude il documento) è necessario sviluppare un’azione dal basso delle “ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE” che sempre più numerose partecipano alle attività delle Nazioni Unite, assumendo una funzione determinante del processo in atto per la concreta attuazione dei principi, posti a base della Dichiarazione del 1948” (P. Palau Giovannetti, “Una mostra per il rispetto dei diritti umani nel mondo, contro le guerre, l’ingiustizia e l’indifferenza“, in Presentazione “Pittori contro la guerra 1997”).

Negli anni che seguono, l’attività dell’Associazione, spogliata di sede, numeri telefonici di riferimento, archivi, fascicoli processuali, indirizzari soci e visibilità sui media (tanto da fare credere abbia cessato di esistere), subisce un forte rallentamento, concentrandosi sulla propria difesa legale, resa sempre più difficoltosa dal moltiplicarsi dei procedimenti e dalle resistenze della magistratura, in ogni sede e grado, riottosa a riconoscere le sue giuste ragioni, accertando la verità, a cui si affianca la difesa legale dei soggetti più deboli e dei tanti cittadini che, ogni giorno, loro malgrado, vengono costretti a subire soprusi legalizzati da parte delle varie mafie di potere. Si apre, così, una seconda fase nella storia della Associazione.

L’istituzione degli sportelli di “S.O.S. Giustizia” viene affidata alla struttura di “Avvocati senza Frontiere”, una rete che offre, gratuitamente, orientamento legale e la necessaria assistenza alle persone in stato di bisogno, attraverso cui è stato possibile raccogliere migliaia di casi, risolvendo molte situazioni di denegata giustizia, che spesso potevano sembrare impossibili da rovesciare.
Di tali attività, svolte da operatori del settore a livello di volontariato, ne parliamo nel paragrafo successivo, limitandoci a ricordare, a chiusura di questa prima parte che, l’Associazione, oltre ai numerosi riconoscimenti internazionali e patrocini per le sue attività in difesa della pace e della legalità, è stata insignita dell’Alto riconoscimento dell’O.N.U., “Thanksgiving for Peace“, in occasione della Giornata Mondiale delle Nazioni Unite, svoltasi a Milano, il 28 ottobre 2000, e che, nonostante, magistratura e Stato Italiano l’abbiano privata di qualsiasi tutela e sostegno finanziario, facendole venire meno l’assegnazione di nuovi locali, ove esercitare la propria attività, nonché ogni indispensabile cooperazione istituzionale, la stessa continua ad esistere e a godere di buona salute, testimoniando dal proprio sito internet, seguito in ogni parte del mondo, e dalle colonne di “la Voce di Robin Hood” (organo del Movimento per la Giustizia), a quale punto le istituzioni dello Stato possano ridursi nel cercare di frenare l’affermazione della legalità e dei diritti umani (www.associazioni.milano.it/robinhood/).

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Corriere della Sera, “Robin Hood, arresto confermato“, 9/1/96;

Sentenza n. 2139/98, Corte di Appello di Milano, 4° Sezione penale;

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Marina Di Leo, “Eccovi il Circo della Politica“, Stop, Dicembre 1996;

Comunicazione di notizia di reato con richiesta di decreto di Sequestro Preventivo, 7/4/97, Questura di Milano, Commissariato della P. di S. di S. Selpocro, Ispettore della Polstato Carmelo Di Grazia;

Sergio D’Asnasch, “Attestazione autografa“, agli atti del procedimento penale n. 6590/01, Tribunale di Milano, a carico di Pietro Palau Giovannetti;

Regolamento di Servizio Telecom Italia, art. 13, commi 2° e 5°;

Atto di Appello, in data 26/8/03, avverso sentenza Tribunale di Milano, n. 9410/02, tra Movimento per la Giustizia e Telecom Italia (R.G.A. n. 3001/01, Corte Appello Milano);

Atto di appello in data 1.3.03, avverso sentenza Tribunale penale di Brescia, n. 3500/02, c/Pietro Palau Giovannetti;

Esposto 4.11.98 al Presidente del “Comitato Permanente per l’Attuazione della Carta dei Servizi Pubblici“, On. Massimo D’Alema;

Direttiva CEE n. 95/62;

Direttive Ministero Poste e Telecomunicazioni 31/10/95 e 22/10/95;

Direttiva Presidenza del Consiglio dei Ministri 27/1/95;

Sentenza Corte Costituzionale n. 1104/88, in Foro Itialiano I, 1989, I, C. 7;

Sentenza Suprema Corte di Cassazione, Sezione terza, n. 13754/02, Palau Giovannetti Pietro e Movimento per la Giustizia Robin Hood contro Telecom Italia S.p.A.;

Sentenza Suprema Corte di Cassazione, Sezione terza, n. 2058/04, tra Movimento per la Giustizia Robin Hood e Telecom Italia S.p.A.;

Atto di citazione in riassunzione, Tribunale di Milano, Sezione IV civile, dr. Manunta, R.G. n. 66945/03;

Palau Giovannetti, “Una mostra per il rispetto dei diritti umani nel mondo, contro le guerre, l’ingiustizia e l’indifferenza“, in Presentazione “Pittori contro la guerra 1997”.

CASE POPOLARI: COME UNA CAUSA POSSA DURARE 30 ANNI

CASE POPOLARI: COME UNA CAUSA POSSA DURARE 30 ANNI

(da “La Voce di Robin Hood”, p. 3 n. 1, Ottobre 2002, Anno III)

Una tra le cause più scandalose di cui si sia occupata l’Associazione negli ultimi dieci anni è sicuramente quella degli assegnatari delle case popolari dell’ALER, la cui gestione dimostra come una causa di lavoro o di locazioni ad uso abitativo per l’accertamento del canone sociale o dell’equo canone, ove sussistano pressioni e interessi, possa durare anche oltre 30 anni, sovvertendo le ragioni delle parti più deboli e i principi di diritto.

E’ il caso dell’azione, intentata da alcune migliaia di famiglie, titolari di alloggi popolari, che chiedevano l’accertamento del vincolo di pertinenzialità dei box assegnati unitamente all’abitazione e l’applicazione del canone sociale, nei confronti dell’ex I.A.C.P. (ora ALER), che pretendevano, invece, indebitamente, dapprima, di praticare l’equo canone, eppoi, canoni da libero mercato, sostenendo trattarsi di “unità commerciali”.

Una storia costellata di abusi, omissioni, connivenze, infedeltà professionali, falsità in atti pubblici, sottrazione di sentenze ed interi fascicoli di ufficio, nonché dal sistematico stravolgimento delle norme di diritto e delle regole processuali.

Il tutto, per paralizzare l’esecuzione di due vittoriose sentenze che, sin dagli anni Ottanta, accoglievano in toto le domande pilota, all’epoca svolte da circa 1500 inquilini, riconoscendo il canone sociale, ovvero per impedire che, altre 7500 famiglie assegnatarie di altrettanti alloggi popolari, nella Regione Lombardia, potessero pretendere l’applicazione della riduzione del canone di locazione, in osservanza alle leggi dello Stato che, a seguito della modifica dell’art. 41 sexies della Legge Urbanistica, effettuata dall’art. 18 L. 765/67, definiscono il regime delle pertinenze, ex art. 818 c.c., e il conseguente assoggettamento al regime giuridico della cosa principale, sancendo il vincolo di pertinenzialità dei box locati unitamente all’abitazione (Sentenze Cassazione nn. 9115/90 e 11731/92).

Il caso perviene agli sportelli di Avvocati senza Frontiere circa sette anni fa, quando ormai si era persa ogni traccia delle vittoriose sentenze che imponevano allo IACP l’applicazione del canone sociale, dovendosi ritenere, il locale box, compreso nella superficie abitativa dell’alloggio principale, in base ai principi vigenti sopracitati.

Ciò, mentre l’ALER, che era subentrato allo IACP, non si accontentava più di pretendere il solo equo canone, anziché quello sociale previsto dalla legge n. 392/78, bensì esigeva, dietro minaccia di sfratto ed ingiunzioni coattive, il pagamento di canoni di libero mercato, mai pattuiti, né accettati dagli assegnatari che, in gran parte, si erano rifiutati di firmare i nuovi contratti vessatori.

I protagonisti narrano che gli ex difensori, vicini ad alcuni sindacalisti corrotti, gli avrebbero fatto credere che le cause sarebbero state <definitivamente perse>, tanto da averli indotti a pagare delle somme per spese, mentre avevano poi scoperto che non era vero e si trattava di un imbroglio in loro danno, per costringerli a pagare molto di più del dovuto.

Importi da capogiro, se prendiamo in considerazione il dato che le circa Lire 100.000 al mese, pagate da ciascun assegnatario, senza titolo, vanno moltiplicate per oltre 9000 famiglie in tutta la Lombardia e per tutti gli svariati anni da cui sta durando la causa, con il beneplacito dei giudici milanesi e della Cassazione.

Fatte le opportune indagini, i legali di Avvocati senza Frontiere scoprono che è tutto vero e la realtà è molto più grave di ogni ipotesi.

Gli ex difensori, non solo hanno ingannato i propri assistiti, facendogli credere che le loro diverse cause erano state definitivamente perse, ma gli avevano addirittura sottaciuto, dolosamente, che avrebbero avuto la possibilità di proseguirle in sede di riassunzione, in quanto la Cassazione, a seguito di alcuni ricorsi dello IACP, non si era pronunciata nel merito, ma aveva semplicemente <cassato con rinvio>, ragione per cui l’annosa controversia, che si trascinava per alcuni dal 1973, era ancora tutta da decidere.

Ma non è tutto.

I legali dell’Associazione scoprivano che uno dei due ex infedeli difensori, in concorso con i difensori dello IACP ed i giudici della Cassazione (che avevano il dovere di controllare preliminarmente la regolarità delle notifiche), aveva dichiarato falsamente di avere ricevuto tempestivamente la notifica del ricorso, al seguito del quale la Cassazione, poi, annullava la vittoriosa sentenza n. 953/83 del Tribunale di Milano, favorevole agli inquilini assegnatari.

A questo punto, i legali dell’Associazione ripartivano da capo, con una nuova azione avanti al Tribunale di Milano, facendo rilevare di essere stati costretti, dopo 25 anni di cause tra le parti, che avevano sempre dato ragioni ai ricorrenti, a ricominciare la causa, ex novo, a seguito di una serie di gravissime inadempienze degli ex legali che, da una parte, avevano “inspiegabilmente” omesso di eccepire la improcedibilità del giudizio di legittimità di cui alla sentenza di rinvio n. 518/86, per mancata integrità del contraddittorio nei confronti di 402 litisconsorti su 453, risultando il ricorso notificato solo a 33 di essi, con il conseguente passato in giudicato della sentenza impugnata e, dall’altra, di riassumere i giudizi per la restante parte dei ricorrenti, giungendo, maliziosamente, a fargli, addirittura, credere che si sarebbe trattato di sentenza definitiva, inimpugnabile e contenente una pesante condanna alle spese!

Tali fatti, costituenti notizie di reato, venivano portati anche a conoscenza della Procura di Milano, di cui si chiedeva invano l’intervento, ex artt. 70, co. 1° , n. 4 e co. 2° ultima parte c.p.c. e 11 c.p.p. (in relazione ai reati ipotizzati di “malversazione ai danni dello Stato, concussione ed estorsione aggravata e continuata”, nonché “abuso continuato in atti d’ufficio, falso ideologico e favoreggiamento”), rilevando che, singolarmente, analoghe gravi inadempienze si erano verificate, anche, per quanto attiene la parallela sentenza di rinvio della Corte di Cassazione n. 4609/95, relativa al secondo scaglione di ricorsi (per i residenti del quartiere Bicocca), in cui i ricorrenti, seppure assistiti da un diverso legale, non venivano edotti della possibilità di riassumere il giudizio.

E’ inutile dire che le cause siano tutt’ora in corso, senza la possibilità di ottenere alcuna tutela cautelare immediata, volta ad inibire gli sfratti e le pretese di canoni extra legem, pur in assenza di sottostanti contratti di locazione, in base ai quali l’ALER possa legittimamente fondare le proprie pretese, che appaiono, quindi, di natura estorsiva.

Il Tribunale di Milano, la Procura, la Corte di Appello e la Cassazione, a cui si è pure rivolto un ricorso per <revocazione straordinaria>, ex art. 395 c.p.c. (in relazione alla precitata nullità della sentenza n. 518/86, sussistendo il presupposto del <dolo collusorio bilaterale> come ipotizzato dalla giurisprudenza di legittimità), hanno fatto muro, erigendo un vero e proprio cordone protettivo degli illeciti interessi dell’ALER e dei terzi soggetti aventi causa, respingendo e archiviando, allo stato, ogni ricorso e denuncia.

La Corte di Cassazione, dopo avere ammesso il ricorso per revocazione, fissando udienza pubblica, è giunta al punto di inventarsi di sana pianta, grazie ad un anomalo intervento del P.G., che “non sarebbe stata addirittura prodotta la copia autentica della sentenza impugnata”, respingendo quindi il ricorso, già regolarmente iscritto a ruolo (ovviamente munito della copia autentica della sentenza n. 518/86) per pretesa inammissibilità.

Ancora una volta, dopo 30 anni, senza entrare nel merito.

Questo è quindi il dato comune che in genere emerge dai tanti casi qui esaminati.

Ove i giudici non giungano ad utilizzare tali espedienti per respingere le domande dei dominati, la strada della motivazione di diritto, oltre che meno sbrigativa, appare più problematica, in quanto è più complesso trovare delle motivazioni che abbiano una parvenza di logicità giuridica, stante che, di norma, il torto dei dominanti è eclatante e non si può ricorrere, come in penale, a <leggi ad personam>.

Basti pensare che le difese nel merito dell’ALER sono unicamente fondate sul fatto che la libertà di praticare il canone di libero mercato ai box pertinenziali, di cui non nega il vincolo con l’alloggio, traggono origine da una normativa della Regione Lombardia, entrata in vigore in epoca successiva alla stipula dei contratti per cui è causa.

Normativa che, oltre a non avere efficacia retroattiva, contrasta con la legislazione nazionale e, in particolare, con la L. 392/78, che all’art. 13 prevede l’applicabilità del canone sociale, nonché con ogni altra diversa legislazione regionale, che, nella peggiore delle ipotesi, prevede l’applicabilità dell’equo canone.

Ciò nonostante, nessun giudice ha, allo stato, accolto l’istanza di rimettere gli atti alla Corte Costituzionale, in relazione all’illegittimità costituzionale degli art. 27 e 28 della L.R. 91- 92/83, modificata dalla L.R. 28/90 (ove possa ritenersi che dette norme, come sostenuto dall’ALER, legalizzerebbero l’applicazione del canone di libero mercato ai box pertinenziali), in relazione a quanto disposto dagli artt. 3 e 25 della Costituzione, in quanto in palese con l’art. 13, lettera b) della L. 392/78 e gli artt. 817 e 818 c.c., nonché con l’art. 41 sexies della Legge urbanistica n. 1150/42, introdotta dalla Legge Ponte n. 865/67, ovvero con le più recenti disposizioni della L. n. 122/89 che stabiliscono i criteri di pertinenzialità.

Sul punto si sottolinea come sia evidente la violazione dell’art. 3 della Costituzione, in relazione al principio dell’uguaglianza di tutti di cittadini di fronte alla legge, in quanto una dettagliata analisi delle legislazioni regionali, in materia di determinazione dei canoni di locazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica non può che portare ad un’unica conclusione circa la evidente singolarità della legislazione regionale lombarda, di cui alla L.R. 28/90, rispetto alle altre legislazioni regionali.

Al riguardo, i legali dell’Associazione hanno evidenziato che diverse legislazioni, nel quadro del principio del decentramento amministrativo, adottato dalla Legge Bassanini, demandano ai comuni i criteri di determinazioni dei canoni, altre esplicitamente si riferiscono al disposto della l. 392/78.

Si indicano, alcuni esempi che possono illuminare l’illegittimità dei comportamenti di ALER e della giurisprudenza anche di legittimità che in taluni casi ha ammesso la libertà da parte di ALER di praticare canoni di libero mercato:

ABRUZZO: la L.R. 25 ottobre 1996 n. 96 all’art 22 prevede “Per la determinazione del canone di locazione degli alloggi di cui all’art. 1 degli enti gestori tengono conto dei caratteri oggettivi degli alloggi e del reddito complessivo del nucleo familiare degli assegnatari…….In relazione ai caratteri oggettivi degli alloggi gli enti gestori definiscono il canone di locazione secondo le disposizioni di cui agli artt. 12 al 15, dal 17 al 24 della legge 392/78… (L.R. 25 ottobre 1996 n. 96);

CAMPANIA: la L.R. n.del 14.08.1997 n. 19 all’art. 19 prevede: ” il canone degli alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica …è determinato secondo il seguente schema: CANONE A – canone sociale non superiore all’ 8% del reddito impositivo familiare, articolato nel modo seguente in relazione alla composizione del nucleo familiare, in ogni caso si applica un canone minimo di l. 5.000 per ciascuno dei vani convenzionali, il cui numero determina trasformando la superficie dell’unità immobiliare di cui all’art. 13, comma 1 lett. a della legge 392/78- CANONE B – canone di riferimento determinato con le modalità previste dagli articoli da 12 a 24 della legge 27 luglio 1978 n. 392.. (L.R. n.del 14.08.1997);

LIGURIA : la L.R. del 21.06.1996 n. 27 all’art 4 prevede: ” l’elemento oggettivo sulla base del quale si calcola il canone convenzionale di locazione è costituito dal canone fissato con le modalità previste dagli articoli da 12 a 24 della legge 27 luglio 1978 n. 392… (L.R. del 21.06.1996);

SARDEGNA: la L.R. n.7 del 05.07.2000 all’art. 2 prevede: ” il canone di riferimento è determinato con le modalità previste dagli articoli da 12 a 24 della Legge n. 392 del 1978, salvo quanto previsto nei commi seguenti… (L.R. n.7 del 05.07.2000);

MARCHE: la L.R. n. 44 del 22.07.1997 all’art. 34 prevede: il canone oggettivo degli alloggi di cui all’art. 2 è determinato in relazione ai caratteri oggettivi degli alloggi ai sensi degli articoli da 12 a 24 della legge 27 luglio 1978 n. 392… (L.R. n. 44 del 22.07.1997);

Il PIEMONTE invece nella legge regionale 28 marzo 1995 n. 46 all’art. 18 compie una importante distinzione. Al comma primo si legge che “il canone di locazione degli alloggi di cui all’art. 1 è determinato in relazione ai caratteri oggettivi degli alloggi ai sensi degli articoli da 12 a 24 della legge 392/78, nella misura del 3,85 per cento del valore locativo dell’immobile locato. Il secondo comma precisa: “alle autorimesse e ai posti macchina in autorimesse di uso comune è applicato, con contratto separato rispetto a quello dell’alloggio, un canone determinato dal Consiglio D’Amministrazione dell’Ente gestore (L.R. 28 marzo 1995 n. 46).

Bisogna dunque evidenziare che, sinora, nessun giudice ha voluto prendere atto da un lato che per esigere il pagamento di canoni a libero mercato è necessaria la stipula di un diverso contratto di locazione di quelli esistenti tra le parti, dall’altro che la determinazione non è necessariamente effettuabile a prezzo di mercato.

In definitiva, la normativa regionale lombarda non solo è in contrasto con la normativa nazionale oltre che viziata da irretroattività, ma è anche in contrasto con le altre legislazioni regionali in materia.