Archivio Autore: Palau Giovannetti Pietro - Pagina 3

PAVIA: CASA PIGNORATA PER SOLI 5.000 EURO. GIUDICI E PERITI ASSOCIATI A DELINQUERE?

Una villetta di pregio rischia di finire all’asta e una intera famiglia con persone anziane di venire gettata in mezzo alla strada per un modesto credito di una perizia del valore nominale di appena 5000 euro disposta dal tribunale nell’ambito di una causa per risarcimento danni.
A denunciarlo è Marta Merli – la stessa vittima che si è rivolta vanamente alla Procura della Repubblica e al C.S.M. – che more solito agisce solo contro i magistrati onesti costringendoli a dimettersi (De Magistris docet) e archivia ogni altro serio esposto nei confronti della parte marcia della magistratura di cui lo stesso CSM è espressione e immagine.
“Si va in tribunale per avere giustizia e si rischia di perdere la casa e sono proprio i giudici con la complicità di avvocati compiacenti e tecnici nominati da loro stessi.
Marta Merli è convinta che il giudice dell’esecuzione che ha rigettato il suo ricorso in opposizione sia d’accordo con il CTU e con chi ha interesse ad arrivare all’asta.
Il caso eclatante nell’attuale situazione di crisi ripropone l’urgente necessità di sollecitare l’introduzione di una legge per l’impignorabilità della prima casa e misure di sospensione dei procedimenti esecutivi nei confronti delle famiglie e delle aziende in stato di difficoltà.
Di seguito diamo voce alla sua drammatica storia pubblicata sulla Provincia Pavese.
MEZZANA RABATTONE (PV) Casa pignorata – e che ora rischia di finire all’asta – per un debito di 5mila euro. Un debito peraltro che Marta Merli, che in quella villetta di Mezzana Rabattone vive da anni con gli anziani genitori, contesta. Il debito, infatti, è il costo di una perizia disposta dal giudice del tribunale di Pavia per una causa che la stessa proprietaria della casa aveva promosso nei confronti del vicino, per alcuni lavori che avrebbero danneggiato la sua abitazione. Per dirimere la questione e capire se la richiesta di risarcimento è legittima, il giudice Fabio Lambertucci decide di disporre una perizia, che viene fatta da un geometra di Pavia.

La perizia non è però favorevole alla donna. Secondo il geometra, infatti, la crepa sul muro, che la proprietaria lamenta e che chiede le venga ripagata, sarebbe precedente ai lavori fatti dal vicino. Un parere che costa 5.122 euro. Dall’onorario risultano 508 ore di lavoro, fatte in un periodo totale di 254 giorni, e rimborsi spese per fotografie, telefonate, spese d’ufficio e anche il costo di noleggio di una piattaforma per visionare meglio i luoghi. Il geometra, inoltre, spiega che il lavoro si è rivelato «molto complesso», e questo fa lievitare il costo.

Quindi? «E quindi alla fine la perizia, che è stato il giudice a disporre, è stata addebitata a me – spiega la donna –, e non come sarebbe stato più logico a entrambe le parti, visto che ancora non c’è stata una sentenza. Cioè, il giudice non ha ancora deciso se ho torto oppure ragione, in quella causa». La procedura, va detto, lo prevede. Ma a spingere la donna alla denuncia sono soprattutto i passaggi che seguono la richiesta di pagamento della perizia.

«In accordo con il mio avvocato mi sono opposta al decreto di liquidazione, ma un altro giudice ha respinto la richiesta», prosegue la donna. Che tenta, a questo punto, un’altra strada. «Ho uno stipendio mensile di poche centinaia di euro – dice –. E quindi ho proposto il pagamento rateale del debito. Quello che chiedevo era di poter versare la cifra poco per volta. Ma anche questa richiesta è stata rifiutata». Insomma, senza quasi rendersene conto, la donna e i suoi genitori si ritrovano con una casa pignorata e con il rischio concreto che venga messa all’asta in tempi brevi.

«Ho provato ad oppormi anche a questo atto e ho presentato una richiesta di condanna per lite temeraria, visti i danni subiti da questa vicenda – dice Marta Merli – ma anche questo ricorso è stato rigettato. Peraltro il contenuto della perizia è stato contestato da un’altra consulenza, chiesta a un altro perito, che mette in dubbio le conclusioni a cui arriva il geometra. Ora mi chiedo: è possibile rischiare la casa per una perizia dubbia e un procedimento penale ancora pendente?». Il giudice dovrà provare a sbrogliare la matassa. Intanto è stato presentato, dalla donna, anche un esposto al collegio dei geometri di Pavia, che dovrà valutare eventuali irregolarità.
@mariafiore3
http://laprovinciapavese.gelocal.it/cronaca/2013/06/15/news/casa-pignorata-per-5mila-euro-1.7266189

Banche e Usura nel Pavese, imprenditore denuncia il proprio commercialista che chiede tassi fuorilegge

Banche e Usura nel Pavese, imprenditore denuncia il proprio commercialista che chiede tassi fuorilegge
16 luglio 2013
Il titolare di una ditta di autotrasporti soffocato dalle banche e dalla crisi denuncia. La procura chiede il processo: «Interessi anche del mille per cento».
CURA CARPIGNANO (PV). Gli accertamenti della Finanza avevano ipotizzato, per alcuni prestiti, tassi di interessi superiori anche al mille per cento. L’accusa da provare nel dibattimento è quella di usura, riporta un pezzo di Maria Fiore, sulla Provincia Pavese, ma per la quale la procura di Pavia ha chiesto il processo per Michele Quarto, 63 anni, commercialista di Cura Carpignano. L’udienza preliminare davanti al gip Erminio Rizzi è ancora in corso e potrebbe anche chiudersi con l’assoluzione dell’indagato, che ha presentato istanza di giudizio abbreviato. Il giudice ha aggiornato l’udienza all’8 ottobre, per sentire la parte offesa che si è costituita parte civile ed è rappresentata dall’avvocato di Voghera Lidia Agoni. Non si è invece costituito un avvocato di Torre d’Isola, che risulta allo stesso modo presunta parte offesa in questa vicenda.
In base alla ricostruzione dell’accusa, l’imprenditrice di Pavia si sarebbe rivolta al commercialista in un momento di difficoltà economica per la sua azienda. I capi di imputazione ricostruiscono, dal punto di vista della procura, i prestiti e i passaggi più salienti degli accordi tra l’imprenditrice e il commercialista tra il 2005 e il 2008.
In base alle accuse, il primo prestito è di 10mila euro. Dopo due settimane la donna avrebbe restituito 12mila euro. In questo caso, secondo l’accusa, sarebbe stato applicato un tasso di interesse annuo del 486,66 per cento a fronte di un tasso antiusura del 19,5 per cento annuo.
Qualche giorno dopo, la richiesta di prestito è di 50mila euro. A fronte di questa cifra, il commercialista si sarebbe fatto promettere la restituzione di 56mila euro, in quattro mesi, attraverso l’emissione di sette assegni post datati, dell’importo di 8mila euro ciascuno. Una cifra che la donna non sarebbe stata più in grado di restituire. E che avrebbe dato luogo a un ulteriore incremento del debito, fino a 108mila euro. Ma due contestazioni riguardano anche prestiti a tassi fuorilegge che sarebbero stati concessi a un avvocato di Torre d’Isola. In questo caso si parla, negli atti dell’accusa, di un prestito di 35mila euro e di una restituzione, nel giro di un anno, di 49mila euro, con l’applicazione di un tasso annuo del 41,82 per cento, secondo la procura. A gennaio del 2008 all’avvocato sarebbe stato concesso un prestito di 88mila euro, diventati nel giro di due anni 125mila euro. Contestazioni che la difesa conta di riuscire a smontare nel corso del processo. «Accuse infondate e contraddittorie – si limita a dire l’avvocato difensore –. Alla luce della documentazione prodotta siamo certi di riuscire a dimostrare l’estraneità del professionista ai fatti contestati».
@mariafiore3
http://laprovinciapavese.gelocal.it/cronaca/2013/07/16/news/usura-accuse-a-commercialista-prestiti-con-tassi-fuorilegge-1.7433060

Calabria: Solitudine degli imprenditori e complicità dello Stato-Mafia

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“L’imprenditore Antonino De Masi ha l’unica colpa di restare onesto in un territorio ostile come la piana di Gioia Tauro. E’ in guerra da anni con la mafia, le banche e lo Stato. La mafia è la mano militare che minaccia, vuol prendere la sua azienda a colpi di Kalashnikov. Le banche esercitano il ruolo di raffinati torturatori: tassi da usura, abusi, variazioni unilaterali dei contratti. Lo Stato assiste inattivo a tanto scempio. L’unica arma di De Masi è la legalità che ha funzionato, almeno sulla carta. La Cassazione ha condannato tre banche per il reato di usura nei suoi confronti (BNL, Antonveneta e Banca di Roma) e 14 sentenze di TAR e Consiglio di Stato gli hanno assegnato un mutuo anti usura. Ma è dal 2006 che Antonino e i suoi 100 operai attendono l’apertura del mutuo dallo Stato. Ciò costringerà De Masi alla chiusura della sua azienda il 20 luglio. Il MoVimento 5 Stelle chiede che venga istituita al più presto una commissione d’inchiesta parlamentare che lavori per accertare gli eventuali crimini bancari nel nostro Paese.”
M5S Camera

Dal Blog di Beppe Grillo
L’INTERVISTA
Eroi civili. L’imprenditore De Masi: «La mia vita contro le banche usuraie»
30 Aprile 2013
di Domenico Naso
Nell’Italia in crisi economica e politica, c’è chi muore di fame, chi ha perso tutto, chi reagisce alla disperazione sparando su due innocenti servitori dello Stato. Ma c’è chi sceglie un’altra strada, quella dell’eroismo civico, ostinato e silenzioso. Una battaglia quotidiana contro le ingiustizie che può durare anche dieci anni, contro lobby granitiche, poteri forti e consolidati sistemi economici. Una battaglia che, però, si può vincere. È il caso di Antonino De Masi, imprenditore di Rizziconi, nella piana di Gioia Tauro, che circa dieci anni fa si è accorto che qualcosa non andava nel suo conto in banca. Erano “spariti” circa sei milioni di euro, in un contesto di investimenti per la realizzazione di alcune attività imprenditoriali beneficiate anche da fondi pubblici, perché le banche avevano applicato un tasso superiore al 35%, erodendo di fatto tutti i soldi pubblici arrivati.
Da quel giorno non si è più fermato, fino a quando non ha ottenuto giustizia con sentenza passata in giudicato: le banche, ha stabilito il giudice, hanno praticato l’usura nei confronti delle aziende di Antonino De Masi e ora dovranno risarcirlo.
I danni subiti, dopo un’accurata perizia, sono stati calcolati nella misura di 215 milioni di euro. Un’enormità, soprattutto per un imprenditore. Calabrese. E in tempo di forte crisi economica.
Vittoria simbolica, di principio? Nemmeno per idea: De Masi quei soldi li vuole, giustamente, e si dichiara pronto a lottare per altri dieci anni, se necessario.

Come è cambiato il rapporto impresa-banca dopo le sentenze sul suo caso?
«Grazie alle mie battaglie, che ho iniziato dieci anni fa, è cambiato totalmente questo rapporto. Io ho iniziato questa battaglia molto prima degli scandali Parmalat, Cirio, ecc. Parlare di crimini bancari all’epoca era una bestemmia. Con le mie denunce, dal 2002 in poi, si è capito cosa c’è dietro il comportamento degli istituti di credito, cioè la politica del massimo profitto, la volontà di rubare i soldi dei risparmiatori. Le do un dato: in Italia ci sono 85 milioni di rapporti bancari e la banca addebita 10 euro a trimestre. Cioè 3,4 miliardi l’anno che vengono trasferiti dalle tasche dei risparmiatori a quelli delle banche. Poi bisogna considerare che tre banche detengono il 50% di quei rapporti bancari, e quindi solo questi tre istituti si mettono in tasca 1,7 miliardi di euro. Se poi ricordiamo che il conto corrente in Italia costa tra i 90 e i 140 euro in più rispetto al resto d’Europa, è evidente che siamo di fronte alla più grande truffa ai danni dei cittadini. Io questo ho fatto: ho dimostrato con atti, fatti e circostanze, cosa c’è dietro».

Nella politica e nello Stato ha trovato alleati o ostacoli?
«La politica non può litigare con le banche. Non se lo può permettere…»

Anche le imprese pare che preferiscano il silenzio. Hanno paura che le banche chiudano i cordoni della borsa del credito?«E’ vero, gli imprenditori sono terrorizzati. Se le attacchi, le banche ti chiudono le porte e ti estromettono dal sistema. Sei finito».

Una perizia ha stabilito che i danni alle sue aziende ammontano a 215 milioni di euro. Lei spera di ricevere il risarcimento dalle banche? O si accontenta della vittoria simbolica?
«Certo che ci spero. È il frutto di dieci anni di guerre. E sono pronto a farne altri dieci, se non mi risarciranno. Ci sono delle leggi, la cui violazione viene punita solo se commessa da cittadini, creando una disparità tra cittadini e banche. Allora non viviamo più in un paese democratico. E se è così qualcuno deve avere il coraggio di ammetterlo e spiegarmelo».

Lei ha vinto una battaglia contro il potere forte per eccellenza. Come ha fatto?
«Ho portato in tribunale questi criminali nel nome delle leggi e del diritto. Non ho vinto per capacità di lobby. Anzi, ho vinto contro il potere più forte che esiste in Italia e contro gli avvocati più importanti e potenti del paese».

A cosa ha dovuto rinunciare in tutti questi anni di battaglie contro l’usura bancaria?
«Tutte le vittorie le ho pagate carissime sulla mia pelle. Anche fisicamente. E anche se faccio l’imprenditore, e di impegni ne avrei già abbastanza, da dieci anni studio 10-12 ore al giorno e, mio malgrado, sono diventato uno dei massimi esperti italiani in materia».

E alla fine ne è valsa davvero la pena?
«Questa è la domanda delle domande… Da cittadino che osserva le leggi e che vuole vivere in un paese democratico, dico di sì, ne valeva le pena.
Il problema è quando prevale l’essere razionale. Penso spesso a quanto mi è costato tutelare i miei diritti…»
www.intelligonews.it/eroi-civili-limprenditore-de-masi-la-mia-vita-contro-le-banche-usuraie/

TORINO: IN MANETTE TUTTA LA FAMIGLIA DI DON SALVATORE LIGRESTI

FONSAI-ISVAP: ORDINE DI CATTURA PER DON LIGRESTI E I FIGLI. ERA ORA. FINALMENTE MAGISTRATURA ALLA RISCOSSA?
Operazione della Guardia di Finanza. Ai domiciliari l’imprenditore, in carcere Jonella e Giulia Maria, ricercato il figlio Paolo. Sette in totale le ordinanze. Pericolo di fuga alle Cayman. In manette anche alcuni ex manager del gruppo assicurativo. L’ipotesi di reato è falso in bilancio aggravato. Prelevati 14 milioni da società lussemburghesi.Fonsai, ordine di cattura per Ligresti e i tre figli. Ipotesi fuga alle Cayman
Chi ha memoria storica si ricorderà sicuramente con amarezza del vergognoso insabbiamento nel 1988 da parte della Cassazione dello scandalo delle cosiddette “aree d’oro”. Sono i tempi delle prime denunce di Robin Hood che segnala le infiltrazioni della mafia a Palazzo Marino e delle inchieste della Boccassini sulla “Duomo connection”.
La città scopre di colpo che don Salvatore, giunto dalla Sicilia con le valigie di cartone, senza capitali, era diventato in pochi anni “il re del mattone”, tra i più attivi sulla piazza. Stava costruendo le sue torri ai quattro punti cardinali della città. E così scattano i controlli dei suoi cantieri, ordinati da Francesco Dettori, allora giovane ma esperto pretore specializzato in reati urbanistici e ambientali che pone sotto sequestro 5 dei cantieri dell’imprenditore siciliano.
Don Ligresti fa ricorso. Il tribunale della libertà conferma i sigilli. Don Salvatore ricorre ancora, e la Cassazione ordina il dissequestro, escludendo il reato di lottizzazione abusiva. A questo punto il nostro chiede al pm Dettori il risarcimento di un miliardo di vecchie lire… e il C.S.M. apre un procedimento disciplinare nei confronti dell’onesto magistrato che altro non ha fatto che il suo dovere senza guardare in faccia nessuno.
Quis custodiet ipsos custodes?” Ovvero chi vigila sui vigilanti?
L’esistenza di un brocardo latino in tema di controllori che tradiscono il loro ruolo di garanti della collettività, la dice lunga e dimostra come il problema della corruzione dei vigilanti sia vecchio di tre millenni.
Chi conserva memoria delle vicende giudiziarie dell’imprenditore di Paternò e degli aggangi massonico-giudiziari sino alla Corte Europea di Strasburgo ricorderà sicuramente anche la scandalosa assoluzione da parte della Corte d’Appello di Milano, per il rogo della camera iperbarica della Clinica Galeazzi di Milano, nell’autunno 1997, in cui morirono arsi vivi 10 pazienti e un infermiere per assenza di controlli e collaudi.
Antonino Ligresti, ex titolare dell’ospedale Galeazzi, fratello di Don Salvatore, prima di venire definitivamente condannato alla mite pena di 3 anni di carcere per il rogo del 31 ottobre 1997, venne vergognosamente assolto dai medesimi giudici milanesi, dall’imputazione di omicidio colposo plurimo e omissione delle norme sulla sicurezza, rifiutando anche la costituzione di parte civile della nostra Associazione che si proponeva appunto di monitorare la regolarità dello svolgimento del processo.
Il fratello di don Salvatore (presidente onorario di Fondiaria-Sai e socio Rcs), dopo aver ceduto nel 2000 il proprio gruppo da 270 miliardi di lire di fatturato e 2 mila dipendenti in 14 cliniche lombarde, l’anno scorso è diventato azionista di maggioranza della Générale de Santé, gruppo francese quotato alla Borsa di Parigi e leader in Europa nel settore della sanità privata.
Ma ieri 16 Luglio 2013, a sorpresa, dopo decenni di impunità, la Guardia di Finanza di Torino ha finalmente eseguito sette ordinanze di custodia cautelare nei confronti di componenti della famiglia Ligresti e di alcuni manager, all’epoca dei fatti in posizioni di vertice nell’ambito di Fondiaria-Sai, come riferisce la stampa nazionale e il Fatto Quotidiano di cui riportiamo alcuni stralci.
“In carcere sono finiti Jonella e Giulia Maria, figli di Salvatore Ligresti; per quest’ultimo sono stati disposti gli arresti domiciliari a Milano. Gioacchino Paolo Ligresti, invece, non è stato arrestato e risulta allo stato “ricercato”: i finanzieri sanno che il manager si trova in Svizzera e prima di prendere ufficialmente contatti con le autorità elvetiche, attendono di sapere se l’uomo intende rientrare in Italia e consegnarsi. In manette anche Emanuele Erbetta, Fausto Marchionni, ex amministratori delegati di Fonsai, e Antonio Talarico, ex vicepresidente della società; per gli ultimi due pure sono stati disposti i domiciliari.
I provvedimenti giudiziari sono scattati per le ipotesi di reato di falso in bilancio aggravato e di manipolazione di mercato. A quanto si apprende i fatti contestati dagli investigatori riguarderebbero l’occultamento al mercato di un ‘buco’ nella riserva sinistri di circa 600 milioni di euro, la cui mancata comunicazione avrebbe provocato danni ad almeno 12mila risparmiatori.
Il danno patrimoniale che ha subito Fonsai a causa del comportamento degli indagati “è di 300 milioni di euro”, ha spiegato in conferenza stampa il procuratore aggiunto di Torino, Vittorio Nessi. “E’ una cifra – ha spiegato – che si ottiene dalla perdita di valore del titolo e dal pregiudizio per i piccoli azionisti che hanno sottoscritto primi aumenti di capitale e non sono poi stati in grado di sostenere i successivi”.
Per i componenti della famiglia Ligresti e per le altre persone arrestate questa mattina dal nucleo di polizia tributaria di Torino della Guardia di Finanza, il reato contestato è quello di false comunicazioni sociali. L’inchiesta della procura di Torino su Fonsai era stata aperta nell’estate 2012 sulla scia di quella milanese su Premafin, società del gruppo Ligresti. Avviata per l’ipotesi di falso in bilancio e ostacolo all’attività di vigilanza relativamente al quadriennio 2008-11, si era ampliata lo scorso febbraio con l’aggiunta dell’ipotesi di infedeltà patrimoniale dopo la presentazione di numerose querele da parte degli azionisti. La guardia di finanza aveva perquisito più volte le sedi del gruppo sparse sul territorio italiano e sequestrato numerosi supporti informatici con almeno 12 terabytes di materiale che è stato analizzato nel corso degli ultimi mesi. Il buco di 600 milioni si riferisce alle riserve sinistri che Fonsai aveva contabilizzato nel bilancio 2010, poi utilizzato per predisporre l’aumento di capitale del 2011.
L’ordine di cattura è stato motivato dal gip anche con il pericolo di fuga: testimoniato per i tre fratelli Ligresti dal recente prelievo di circa 14 milioni da tre società lussemburghesi che fanno loro capo. Per il giudice il pericolo è “desumibile dal possedere, ciascuno di loro, ingenti patrimoni in grado di fornire loro i mezzi necessari per lasciare il territorio nazionale e spostare il centro delle proprie attività in altri Paesi, al fine di eludere gli esiti delle indagini”. Secondo il gip Silvia Salvadori la custodia “appare l’unica adeguata a salvaguardare le esigenze cautelari… essendo assolutamente necessario che sia impedito loro qualsiasi contatto con i terzi, sia di persona che a mezzo del telefono, al fine di contenere, in particolare, la loro propensione al reato e il predetto rischio di fuga, non essendo ragionevole prevedere che tali esigenze potrebbero essere salvaguardate con semplici misure prescrittive”. L’ipotesi di una fuga progettata verso le Cayman è suffragata per gli inquirenti da una intercettazione: “Che sussista un rischio concreto che i componenti della famiglia Ligresti decidano di allontanarsi dalla giurisdizione nazionale, è opinione anche delle persone a loro vicine” scrive il gip citando il dialogo intercettato tra Marchionni e un’altra persona su un’imminente viaggio di Paolo Ligresti alle isole Cayman. “Immagino che sia l’inizio di un viaggio, Cayman – Ginevra e cose di questo genere” proseguono i due “e senza tanta voglia di tornare” aggiungono sottolineando “e ma lo seguiranno poi anche gli altri”. Non solo. Secondo il gip “avrebbero anche facilità nel reperimento di immediati mezzi di trasporto necessari per un rapido spostamento” tanto che in un’altra conversazione intercettata “è emerso come gli indagati ricorrano spesso all’utilizzo di aerei presi a noleggio, oltre ad avere la disponibilità di un elicottero”.
L’esame della documentazione ha permesso di ricostruire come, attraverso una sistematica sottovalutazione delle riserve tecniche del gruppo assicurativo, sia stato possibile falsificare i dati del bilancio 2010. La costante sottovalutazione della ‘riserva sinistri’ ha consentito negli anni la distribuzione di utili per 253 milioni di euro alla holding della famiglia Ligresti, la Premafin, dove invece si sarebbero dovute registrare perdite. Dagli accertamenti sarebbe emerso che la famiglia Ligresti si sarebbe assicurata oltre al costante flusso di dividendi anche il via libera a numerose operazioni immobiliari con parti correlate. Tra i reati contestati, anche l’aggiotaggio informativo: “Diffondevano notizie false occultando perdite e dunque influenzando le scelte degli azionisti”, ha spiegato il procuratore aggiunto Nessi. La Procura di Torino ha deciso di procedere con le misure cautelari nei confronti della famiglia Ligresti sia per le concrete possibilità di fuga, sia per il rischio di reiterazione del reato e di inquinamento probatorio.
Inoltre secondo il giudice la famiglia Ligresti non ha offerto nessuna collaborazione agli inquirenti nell’inchiesta Fonsai che avrebbe avuto come unico obiettivo il proprio interesse economico.
“Gli indagati, seppure consapevoli del presente procedimento e di quanto gli inquirenti stavano via via accertando – si legge nelle carte – non hanno dato alcun segnale collaborativo, né rispetto alle indagini (pur se è un loro diritto), né alle proprie cariche funzionali, tutt’ora rivestite, a fronte di deleghe che nulla spostano rispetto alla propensione al delitto ravvisata, atteso che il fine ultimo delle operazioni di manipolazione del bilancio e di aggiotaggio, per cui si procede, si identifica principalmente nel perseguimento del loro interesse economico”.
17 luglio 2013 www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/17/inchiesta-fonsai-arrestati-quattro-componenti-della-famiglia-ligresti/658333/
LA SCHEDA
Salvatore Ligresti, 81 anni, originario di Paternò (Catania), unitamente a Berlusconi e ai governi di centro-sinistra, è protagonista della “urbanistica contrattata” della Milano da bere degli Anni Ottanta. Viene arrestato la prima volta nel 1992 nell’ambito dell’inchiesta “mani pulite” per fatti di corruzione, ma riesce a cavarsela patteggiando una pena di 2 anni e 6 mesi, mai scontata, grazie all’affidamento ai servizi sociali e ai benevolenti insabbiamenti delle indagini da parte dell’ex Procuratore Borrelli.
Mantiene così indisturbato la guida del suo impero economico-finanziario per oltre 20 anni, passando indenne da ogni inchiesta giudiziaria sui grandi appalti, sul riciclaggio e le collusioni con la mafia catanese, sulle manovre illegali di Borsa sui titoli della holding Premafin (indagini che coinvolgono Mediobanca e Unicredit), sulla bancarotta fraudolenta della Imco e Sinergia, due importanti società della famiglia Ligresti, che nel 2004, tramite la figlia Jonella, entra nel consiglio d’amministrazione del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera.
E’ così don Salvatore diventa uno dei cinque uomini più ricchi d’Italia, uno dei pochi italiani presenti nelle classifiche di Forbes e Fortune.
Secondo, Angelo Siino, l’imprenditore considerato il «ministro dei lavori pubblici» della mafia siciliana, che conosce bene gli affari di “Cosa nostra”, don Ligresti aveva come diretto interlocutore il boss catanese Nitto Santapaola. Tanto potenti erano i suoi protettori che nel 1991, secondo Siino, per favorirlo furono addirittura sconvolti gli equilibri consolidati nell’assegnazione degli appalti, quelli che esigevano che fosse la Gambogi, gruppo Ferruzzi, legato a Totò Riina, a costruire in Sicilia, lasciando spazio alla Grassetto di Ligresti. Un altro collaboratore di giustizia, Gaspare Mutolo, nel 1996 riferisce una confidenza ricevuta da Vittorio Mangano, lo «stalliere» di Arcore: Ligresti, secondo questa dichiarazione, riciclava i soldi della famiglia Carollo (quella della Duomo connection), insediata nell’hinterland milanese.
Don Salvatore a Milano in effetti ha fatto un buon matrimonio, sposando Antonietta Susini, figlia di Alfio Susini, provveditore alle opere pubbliche della Lombardia, personaggio chiave negli affari edilizi.
Antonietta Susini, detta Bambi, nel febbraio 1981 è vittima di un sequestro lampo, che si conclude con la sua liberazione nei pressi di Varese, dietro il pagamento di un riscatto di ca. 600 milioni di lire. Ma c’è un risvolto inquietante: dei tre presunti rapitori, tutti esponenti delle famiglie «perdenti» della mafia palermitana, due, Pietro Marchese e Antonio Spica, finiscono morti ammazzati e il terzo, Giovannello Greco, fedelissimo del vecchio capo di Cosa nostra Stefano Bontate, scompare nel nulla.
Sulla presunta mafiosità di Ligresti vengono compiute altre indagini ufficiali, senza che nulla trapeli. Nel 1984 il Procuratore di Roma, Marco Boschi, ipotizzando la necessità di applicare misure personali di prevenzione, quali il “confino”, chiede indagini sui legami del nostro con Finocchiaro Franco, che con Carmelo Costanzo, Mario Rendo e Gaetano Graci fa parte dei «cavalieri catanesi dell’Apocalisse».
Nel 1985, il fascicolo, passa al pm Franco Ionta, che lo invia a Milano e viene assegnato a Piercamillo Davigo e Filippo Grisolia, i quali dopo alcuni anni lo archiviano, senza alcuna conseguenza.
In sospeso, restano però, osserva Gianni Barbacetto, alcune domande: perché la procura di Roma aprì l’inchiesta? Sulla base di quali elementi e segnalazioni? E perché il nome di Ligresti era affiancato a quello di Finocchiaro, uno dei cavalieri del lavoro catanese?
Il nome di Ligresti compare anche in un’altra indagine giudiziaria, svolta da Ernesto Cudillo, in rapporto alla compravendita di un palazzo all’università romana di Tor Vergata, che ha come protagonista Manlio Cavalli, secondo i carabinieri legato alla banda della Magliana e al boss di Cosa nostra nella capitale, Pippo Calò. Indagine more solito archiviata, senza svolgere ogni opportuna indagine.
Intanto don Ligresti cresce non solo come re degli appalti ma anche come finanziere: ha in cassaforte non solo il pacchetto di azioni che gli permette di controllare la Sai, ma anche una serie di piccole quote di società importanti, dalla Pirelli (5,4 per cento) alla Cir di Carlo De Benedetti (5,2), dalla Italmobiliare di Giampiero Pesenti (5,8) all’Agricola Finanziaria di Raul Gardini (3,7), tanto da venire allusivamente chiamato “Mister 5%” (una sorta di pizzo sulla partecipazioni azionarie).
Le nuove indagini su Fonsai-Isvap sono partite dalle denunce di piccoli azionisti, che hanno svelato un sistema corruttivo “famigliare” che grazie alla complicità di banchieri, politici, salotti dell’alta finanza e controllori di Isvap e Consob, riesce a distrarre milioni di euro, facendo fallire le società controllate (2 miliardi di perdite ma sempre con buone uscite milionarie per gli amministratori).
Anche nell’ultimo tentativo di salvataggio voluto da Mediobanca, tramite una fusione tra “grandi debitori”, Fonsai e Unipol, ci hanno rimesso i risparmiatori che nel 2011 e nel 2012 non hanno ricevuto dividendi, perdendo il 90% del valore azionario e hanno dovuto subire un’ulteriore esborso per la ricapitalizzazione; senza contare i lavoratori licenziati e gli stessi gruppi assicurativi che in passato erano considerati grandi eccellenze italiane.
Il tutto mentre per la famiglia Ligresti ci sono stati 77 milioni di buonuscita.
Senza contare che molte società intestate alla famiglia sono coinvolte nei lavori dell’Expo 2015.

AVELLINO: INTRECCI TRA CAMORRA, GIUDICI, "STIMATI PROFESSIONISTI" E FALLIMENTI

CASO ORSINO-ESPOSITO/CLAN VOLLARO. COLLUSIONI DIGOS E MAGISTRATURA.
Pubblichiamo l’allarmante appello di due onesti imprenditori avellinesi schiacciati dalle omertose connivenze e contiguità tra organizzazioni camorristiche e Pubblica Amministrazione.
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La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na).
Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia.
Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti.
Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici.
Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati.
L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi.
In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività.
In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro.
Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivavano a raggiungere finanche il 400%.
Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità.
L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento.
Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai.
Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento.
E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato.
Il G.E. si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abitavo con la famiglia.
Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10.
A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2009) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, senza per altro ritirare la concessione dell’art. 20, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra.
Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Inoltre egli asserisce che i prestiti potevano avere carattere amichevole, tassi che vanno da un minimo del 120% annui fino ad un massimo del 370% annui non ritengo abbiano nulla di amichevole.
Ancora maggiormente inspiegabile è tale archiviazione se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili.
Anche per la procedura contro gli estorsori è stata proposta l’archiviazione, con motivazioni assolutamente pretestuose: “I fatti sono avvenuti prima del 1997” assolutamente non vero, sono continuati ben oltre tale data. “Mancanza di credibilità perché denunciato in ritardo”, io e mia moglie abbiamo ben chiarito che denunciammo solo nel 2004 perché non solo eravamo sottoposti a continue pressioni da parte dei malavitosi ma anche perché la situazione, nella zona in cui operavamo, era molto grave con le forze dell’ordine gravemente e fortemente colluse con la malavita organizzata. Inoltre il giudice, sempre nelle motivazioni dell’archiviazione asserisce di non ravvedere continuità tra i fatti denunciati e i gravi episodi di intimidazioni e minacce, anch’essi regolarmente denunciati, che ancor oggi si verificano.
Contro entrambe le archiviazioni abbiamo presentato richiesta di revisione e opposizione.
Incomprensibile è stato anche creare due procedure quando abbiamo dimostrato esservi contiguità tra reati di usura ed estorsione, lo stesso usuraio si vantò di far parte del clan camorristico che ci perseguitava in più occasioni si fece da intermediario ed egli stesso ci estorse degli immobili di grande valore.
Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitavamo è stata anch’essa venduta e il 13 novembre 2009. L’Ufficiale Giudiziario, con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute e l’intervento del Sindaco del mio comune di residenza (San Sebastiano al Vesuvio, Napoli) lo hanno costretto a rinviare.
In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato.
Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi.
Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC.
Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere.
Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose.
Il 21 marzo 2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento.
Lo stato economico attuale è disastroso.
Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio, prima, e il Comandante della stazione di Castel Baronia ora e i militi ai loro ordini hanno evitato che nuove e, forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno.
Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente).
Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione.
Il 23 novembre 2011 l’ufficiale giudiziario accompagnato da un buon numero di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto, erano pronti buttarmi in strada in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro.
Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio.
E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti.
In extremis arriva una delibera del Comune di San Sebastiano che integrando un piccolo contributo provinciale con un altro piccolo obolo mettevano a nostra disposizione una modesta cifra.
Tale cifra è servita per fittare una casa, effettuare il trasloco, allacciare le utenze e quanto altro è stato necessario per abbandonare la casa entro e non oltre il 10 gennaio 2012.
Non è certo una vittoria, sono stato costretto a lasciare la casa che mi era costata tanti sacrifici e tanti anni di duro di lavoro, anzi è costato duro lavoro a tutta la mia famiglia: mia moglie lavorava con me e mio figlio è cresciuto nell’azienda, fin dai primi mesi di vita.
Tutto perso, tutto finito. Se solo avessero considerato che con le nostre denunce abbiamo indicato personaggi occulti che agivano all’ombra della camorra forse non ci avrebbero umiliato come hanno fatto. L’elemosina che ci è stata fatta, e di cui siamo grati, è anch’essa un’umiliazione perché in quanto vittime avremmo avuto diritto ad accedere ai fondi di solidarietà come stabilisce la legge 44/99. Almeno avremmo sentito la vicinanza dello Stato e non il dolore di dover chiedere la carità, avremmo anche potuto ritornare a produrre reddito rientrando nel tessuto produttivo. Ora, senza un lavoro come potrò pagare la pigione della casa in cui mi sono dovuto trasferire?
Il 6 febbraio 2012 sono stato buttato fuori di casa dall’Ufficiale Giudiziario, con l’ausilio della forza pubblica. La mia casa è stata consegnata a coloro che l’avevano acquistata all’asta, persone, che ho scoperto, essere solo i prestanome dei delinquenti che hanno inquinato la mia vita e quella della mia famiglia. Lo Stato, dispensatore di giustizia, toglie alle vittime per dare ai carnefici.
Anche in questa piccola e umilissima abitazione in cui attualmente viviamo, in un paesino dell’Alta Irpinia, io e la mia famiglia, siamo stati raggiunti dalle minacce e intimidazioni dei camorristi.
Ben sette intimidazioni, regolarmente denunciate alle forze dell’ordine, ci hanno fatto ben comprendere, se mai ce ne fosse stato bisogno, che i malavitosi non si sono dimenticati di noi e che non intendono farlo.
Luigi Orsino

SALERNO: CASO GRIMALDI-BNL MALABANCA=MALAGIUSTIZIA

Caso Grimaldi: un caso aberrante di malabanca.

Ma andrà meglio con la giustizia?

Una vicenda davvero incredibile che inizia da una banale operazione finanziaria stipulata da un imprenditore che aveva bisogno di ampliare la propria attività.  Antonio Grimaldi è il nome dell’amministratore della Comesa, la società che contrae un mutuo di 413.000 euro  con la Banca Nazionale del Lavoro sede di Salerno che chiede in garanzia, come sempre accade, l’ipoteca sullo stabilimento valutato oltre un milione di euro. Grimaldi paga regolarmente le prime rate, circa € 67.000,  ma poi subisce un infarto  e deve affrontare un delicato intervento chirurgico. In tutto questo non versa alcune rate del mutuo. Certo, errore suo, ma da questo disguido scaturiscono conseguenze aberranti.
 
Non  appena si rimette in salute, Grimaldi corre in banca per ripianare la sua posizione debitoria che peraltro era assicurata con una polizza pretesa a parte all’atto del finanziamento. Si presenta con un assegno circolare da € 30.000 ma la banca non l’accetta.  Cosa era successo? Semplice: la banca aveva venduto il credito per l’intero importo senza detrarre nemmeno le rate pagate per ben 67.000 euro.  Il credito era stato cartolarizzato alla Cordusio srl  che a sua volta l’aveva ceduto alla  Calliope Srl, che a sua volta aveva dato procura alla Pirelli Re Crediting. Di questi “passaggi” il signor Grimaldi non ha mai saputo niente. Ha scoperto tutte queste evoluzioni del suo mutuo soltanto quando ufficialmente ha chiesto alla BNL di rientrare dalla rate scadute.  Nel frattempo la banca aveva proposto istanza di fallimento presso il tribunale di Salerno pur avendo già ceduto il credito, ma l’istanza viene respinta dal Giudice.
A questo punto Grimaldi cerca di trattare, il figlio chiede a sua volta un mutuo di 250.000 euro per arrivare con sicurezza a una possibile soluzione,  Grimaldi si reca alla Pirelli Re Crediting di Napoli che di industria meccanica poco conosce, e propone 367.000 euro per riavere la sua azienda. L’offerta è buona, ammettono alla Pirelli, ma va migliorata. Grimaldi passa a 380.000€, ma ancora non bastano, Grimaldi passa a 400.000 € ma nemmeno basta.
Arriva la richiesta ufficiale: vogliono 490.000€. Il signor Grimaldi non ce la fa e deve rifiutare.
Nel frattempo la Calliope srl, unico creditore della Comesa,  propone il pignoramento di una parte dell’immobile e non di tutto solo perché  viene commesso un errore procedurale sul pignoramento. 
Il signor Grimaldi si oppone e nel frattempo la stessa Calliope tramite la Pirelli Re Crediting  ripropone anche l’istanza di fallimento, già rifiutata a sua volta alla BNL dallo stesso giudice che questa volta invece decide per il fallimento pur non essendoci nuovi debitori, la posizione è esattamente come nella precedente istanza della BNL e quindi tutte le procedure di opposizione del Grimaldi vengono di fatto congelate.  Il signor  Grimaldi Antonio perde tutto e perde anche i 250.000 euro prestati dal figlio Vincenzo in quanto vanno nelle mani della curatrice fallimentare.
 
Infatti l’imprenditore  che aveva  trovato tanta ostilità nella Calliope, per inciso unico creditore della Comesa,  si reca con € 250.000 euro in assegni intestati alla Calliope presso lo studio del curatore fallimentare della Comesa srl,  ingenuamente tali assegni furono lasciati a quest’ultimo la quale li incassò e li ascrisse all’attivo fallimentare, mentre l’intento del  Grimaldi era quello di devolverli a favore della Calliope srl a cui li aveva intestati  cercando invano di salvare la sua azienda.
La Calliope tramite la Pirelli Re crediting che ne è la procuratrice si insinua nel passivo della Comesa Srl per ben 608.000 euro e tutto viene accettato dalla curatela fallimentare senza nessun problema.
A nulla sono valse nemmeno le opposizioni fatte dalla famiglia Grimaldi alla dichiarativa di fallimento infatti le stesse venivano respinte dal tribunale di Salerno.
Nel frattempo veniva promossa anche la vendita immobiliare  dello stabilimento alla cui asta si presentava un unico offerente, la CDM Costruzioni Generali srl di Sant’Antonio Abate (NA),  la quale si avvaleva del falso presupposto, asserito dal delegato alla vendita, un certo  Ugo Sorrentino, che dichiarava che gli immobili erano liberi mentre invece erano stati affittati alla Comeg srl e alla Ficm srl,  con contratti regolarmente registrati,  e nonostante che la stessa curatrice fallimentare, una certa Simona Romeo, aveva regolarmente incassato gli affitti senza rilasciare oltretutto alcuna quietanza agli inquilini.  Non ci crederete ma il 15/06/2012 la Comeg srl (ossia l’inquilino) malgrado il contratto registrato e il regolare pagamento dell’affitto,  ha subito l’estromissione dallo stabilimento da parte dell’ufficiale giudiziario di Mercato San Severino che sotto ordine del Giudice dell’esecuzione immobiliare Dott. Brancaccio e  con l’aiuto di ben 15 carabinieri  ha apposto i sigilli al capannone,  con l’aggravante che  all’interno dello stesso vi fossero  macchinari meccanici indispensabili per la lavorazione di proprietà della stessa  Comeg Srl per il valore di oltre 1 milione  e mezzo di euro, le commesse dei clienti in corso, e 15 dipendenti sono stati gettati sulla strada.
Fatti, questi, che hanno catturato l’attenzione dei media locali. Tutto ciò accadeva malgrado l’opposizione in corso, presentate al G.E.  Dott. Brancaccio  presso il Tribunale di Salerno che per questo ora dovrà rispondere della mancata sospensione dell’esecuzione.
Il Grimaldi ha sporto denuncia penale contro la BNL e la Calliope srl per estorsione, appropriazione indebita, usura e altre illiceità su cui la Guardia di Finanza sta indagando dietro incarico del PM Dott.ssa De Angelis che nel contempo ha chiesto la sospensione dell’esecuzione, anche ai sensi della Legge  n. 3 del 23.1.2012, ma fino ad oggi il PM non si è ancora pronunciato.
Contemporaneamente è iniziata azione civile da parte dei nuovi legali del Grimaldi, Avvocato Umberto Spadafora contro il fallimento e per la restituzione dei 250 mila euro versati e indebitamente trattenuti, nonché è stata espressa riserva sull’operato del professionista delegato alla vendita all’asta il quale con la sua mendace attestazione ha favorito l’acquirente che si è aggiudicato gli immobili per un valore di almeno quattro volte inferiore a quello reale. La stessa condotta del G.E. Doti.Alessandro Brancaccio è stata posta in discussione e ritenuta quantomeno arbitraria e con abuso di potere e di diritto, in quanto non ha controllato la veridicità delle asserzioni del delegato alla vendita e non ha sospeso l’asta neppure in presenza di una relazione di un ctu da lui stesso nominato che denotava l’anomalia delle costruzioni affette da parziale abuso edilizio non ancora sanato.
Il signor Grimaldi era uno stimatissimo imprenditore, aveva un’impresa che andava a gonfie vele, tanto che aveva avuto la necessità di ampliare l’azienda, ma ancora una volta, grazie alle banche, alle leggine costruite ad hoc sulle famose cartolarizzazioni e i vari giochi derivanti,  le imprese vengono soppresse, i loro beni mandati all’asta per una manciata di pane, con l’assoluta “allegria” di curatori e vari professionisti che in un Paese civile agirebbero ben diversamente.
Daniela Russo
http://www.liberoreporter.it/index.php/2012/09/banche/caso-grimaldi-un-caso-aberrante-di-malabanca-ma-andra-meglio-con-la-giustizia.html

NUOVI MOTIVI DI APPELLO PER MASTROGIOVANNI?

Questa mattina è giunta sulla scrivania del Procuratore Generale di Salerno una nuova istanza da parte dell’Associazione Movimento per la Giustizia Robin Hood – Avvocati senza Frontiere, volta a sollecitare un’integrazione degli scarni motivi di appello proposti dal pm Martuscelli che già aveva preso le difese degli imputati avverso la sentenza del Tribunale di Vallo della Lucania. Sentenza come si ricorderà che condannava per sequestro di persona e morte conseguente altro delitto colposo a pene del tutto miti  il primario e i medici del lager psichiatrico di Vallo della Lucania, assolvendo invece del tutto incongruamente gli infermieri che lasciavano morire Franco Mastrogiovanni, ignorando cinicamente le sue ripetute richieste di aiuto riprese dalle telecamere interne.
Su quelle fatidiche 84 ore di ininterrotto supplizio e agonia, ove in una struttura sanitaria è stata clamorosamente negata a un essere umano la necessaria assistenza, l’Associazione chiede sia fatta piena luce, chiamando a rispondere tutti i responsabili, anche in sede politica, che hanno autorizzato il TSO e la successiva ingiustificata prolungata contenzione, a seguito della quale “per effetto di logiche criminogene” – come si legge nell’istanza al P.G. di Salerno – veniva barbaramente tolta la vita a Franco Mastrogiovanni“.
In buona sostanza l’Associazione censura non solo l’attività del pm Martuscelli ma anche la scelta del Procuratore Capo che nonostante la discussa gestione del giudizio di primo grado, le molteplici negligenze, omissioni e violazioni procedimentali, ha affidato la stesura dei motivi d’appello congiunto allo stesso Martuscelli, il quale in stridente contrasto con l’inpianto accusatorio del primo P.M. Dott. Rotondo, aveva chiesto la derubricazione in omicidio colposo, prendendo apertamente le difese degli imputati e in particolare del primario Dott. Di Genio.
Motivi di appello che a giudizio dei legali di Avvocati senza Frontiere risultano molto scarni ed eccessivamente superficiali nella ricostruzione dei fatti e delle responsabilità di medici ed infermieri.

Una nuova patata bollente torna quindi nelle mani del P.G. di Salerno chiamato a integrare i motivi di appello, anche ex art. 585 co. 4 c.p.p.  – come prosegue la nota dell’Associazione – “tenuto conto che la Procura di Vallo ha omesso qualsiasi richiesta di refomatio in pejus sostanziale (per omicidio preterintenzionale, etc. …), limitandosi al computo delle circostanze aggravanti, senza peraltro fornire elementi concreti per la prevalenza delle aggravanti, come invece circostanziatamente e diffusamente indicate nelle istanze ex artt. 570 e 572 c.p.p. di cui in premessa e nell’atto di appello dell’esponente Associazione, a cui si rimanda e ci si riporta integralmente”.

“Alla luce di ciò e della gravità dei reati che rischiano di restare impuniti – conclude l’Associazione – si rende pertanto necessario ed opportuno sollecitare le A.G.  in indirizzo, melius re perpensa, a voler richiedere una diversa e più grave qualificazione giuridica a carico sia degli infermieri sia dei medici ex art. 597 c.p.p., nonché a voler meglio approfondire le risultanze probatorie e riesaminare le singole responsabilità di medici ed infermieri, in particolare per quanto le posizioni di Casaburi, De Vita, Tardio e Russo, tutti responsabili di avere concorso e praticato senza soluzione di continuità sia le cc.dd. contenzioni di “polizia”, per “comodità”, per “tipo di autore” e “precauzionale”.
Nei prossimi giorni verrà anche depositato l’atto di appello nell’interesse della parte civile censurando la sentenza anche in relazione alla mancata liquidazione di una provvisionale in favore delle parti civili.
Per info: Segreteria A.s.F. 02-36582657- 329-2158780

ACCOLTO L'APPELLO PER DIRE NO AGLI ASSASSINI DI FRANCESCO MASTROGIOVANNI

Stamani la Procura Generale di Salerno ha reso noto al Movimento per la Giustizia Robin Hood – Avvocati senza Frontiere che il Procuratore e il P.M. di Vallo della Lucania, in accoglimento dell’istanza presentata dalla Associazione, costituita parte civile, hanno impugnato la sentenza di primo grado che pur condannando il primario e i medici, peraltro a pene del tutto miti, aveva incongruamente assolto gli infermieri per l’uso illegittimo della contenzione e trattamenti disumani assimilabili alla tortura, praticati nel lager psichiatrico di Vallo della Lucania.
«Si tratta di un risultato molto importante – commenta Pietro Palau Giovannetti (Presidente della Onlus), che oltre a rendere giustizia a Franco, almeno da morto, evidenzia quale ruolo possano svolgere le Associazioni nei processi e la pressione della Società Civile, per l’affermazione della legalità e del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge».
«L’impunità è sempre odiosa – denunciava l’Associazione alcuni giorni fa – ma lo è ancor di più quando la morte di una persona indifesa viene provocata mediante crudeli torture e la complicità di chi dovrebbe rappresentare la Pubblica Accusa, come nel caso di Mastrogiovanni e il pm Martuscelli, che ha cercato di minimizzare le responsabilità degli assassini».
«Ci siamo costituiti parte civile – proseguiva il comunicato – per impedire i soliti “inciuci giudiziari” e affermare la libertà di cure contro i TSO, tutelando l’interesse comune di potere accedere ad una giustizia giusta e uguale per tutti, inscindibilmente connesso alla più generale tutela del rispetto della persona umana, per cui nessuno può essere sottoposto a torture, tanto più in strutture sanitarie. Alla luce del tentativo di deviare il processo su un binario morto ci siamo posti come una spina nel fianco della Pubblica Accusa e ne abbiamo denunciato le deviazioni. Siamo così riusciti ad infondere coraggio e far luce sugli anomali comportamenti endoprocessuali e le frequentazioni del pm Martuscelli con taluni imputati (del caso se ne sta occupando il P.M. di Napoli)».
Alla luce di ciò è indubbio che il provvedimento del Procuratore e del pm di Vallo della Lucania costituiscano un’inversione di tendenza, che accoglie in pieno le istanze della Società Civile, aprendo nuove prospettive nell’ambito della tutela giurisdizionale dei diritti umani sul terreno dell’uso della contenzione nei reparti psichiatrici e sul rapporto tra persona umana e istituzioni.
A riguardo, occorre ricordare, che l’impugnata sentenza, pur riconoscendo il ruolo propulsivo delle Associazioni, ha reso giustizia solo a metà, anche se ha avuto il pregio di spezzare il clima persecutorio nei confronti di Franco, anche da morto, senza essere in grado di far piena luce sulle pratiche medievalistiche che coinvolgevano il personale sanitario, invece incongruamente assolto, senza tenere conto delle palesi responsabilità e indifferenza degli infermieri, verso l’altrui atroce sofferenza, come risultanti provate dall’impianto accusatorio del P.M. Rotondo e dalle video-registrazioni, elementi inchiodanti che sono state incomprensibilmente ignorati.
A pag. 175 della sentenza si afferma infatti assurdamente che la condotta degli infermieri possa venire ricondotta all’art. 51 c. 3 c.p., ritenendo che gli imputati mandati assolti non avrebbero potuto accorgersi dell’illegittimità dell’ordine di contenzione e del suo ingiustificato prolungamento. Tale conclusione è assolutamente paradossale poiché si è omesso di cogliere che anche il personale infermieristico è portatore di una posizione di garanzia ex art. 40 c.p. nei confronti dei pazienti sottoposti alla loro cura e vigilanza e, pertanto, è da ritenersi pacificamente responsabile ogni qualvolta violi gli obblighi di legge.
Ci auguriamo quindi che le pene scandalosamente miti comminate nei confronti dei medici, verranno quantificate correttamente nel grado di appello, condannando anche gli infermieri, tenendo conto della notevole gravità e allarme sociale dei reati consumati in danno di Franco, per cui è configurabile il reato di “omicidio preterintenzionale”. Nel caso di specie sussiste infatti sia il cd. “animus laedendi“, stante che la contenzione è stata attuata senza cure sino alla morte sia il cd. “animus necandi” che significa che l’agente non deve agire necessariamente con dolo di omicidio, ricadendo altrimenti nell’ipotesi di cui all’art. 575 c.p., bensì basta la previsione della morte, previsione di certo percepibile dal personale medico e paramedico, ben a conoscenza dei possibili esiti fatali di un regime contenitivo prolungato senza mai slegare la vittima per oltre 3 gg., lasciandolo privo di alimentazione e di idonea idratazione.
Da qui il sospetto ben più grave che il cinico e vile omicidio preannunciato dallo stesso Franco – il quale era a tal punto consapevole della fine che lo attendeva che implorò: «Se mi portano a Vallo non ne esco vivo» – possa promanare da una preordinata “vendetta politica”, maturata negli ambiti dell’estrema destra, che forse non ha mai perdonato al maestro elementare la morte del missino Carlo Falvella dirigente del FUAN di Salerno e la sua fede anarchica che lo spingeva a continuare a ricercare la verità sulla strage di Piazza Fontana.
Venerdì 28 giugno, ore 17,30, a Salerno, presso il punto Einaudi, Piazzetta Barracano, adiacente Corso Vittorio Emanuele, si terrà il dibattito su “il caso Mastrogiovanni”, promosso dal Comitato Verità e Giustizia per Francesco Mastrogiovanni, con la partecipazione dell’Avv. Michele Capano, legale di parte civile della Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood, Grazia Serra, Giuseppe Galzerano e Giuseppe Tarallo, Dott. P. Sangiorgio, Direttore UOSM Asl Roma H e Luigi Manconi, Presidente della Commissione Parlamentare sui Diritti Umani del Senato della Repubblica.
Per info: Segreteria Avvocati senza Frontiere 02/36582657 – 329/2158780

PER DIRE NO AGLI ASSASSINI DI FRANCO MASTROGIOVANNI: FATE GIRARE SUL WEB L'APPELLO AL P.G. DI SALERNO

L’impunità è sempre odiosa ma lo è ancor di più quando la morte di una persona indifesa viene provocata mediante crudeli torture e la complicità di chi dovrebbe rappresentare la Pubblica Accusa, come nel caso di Francesco Mastrogiovanni e il pm Martuscelli, che ha cercato di minimizzare le responsabilità degli assassini.
Ci siamo costituiti parte civile per impedire i soliti “inciuci giudiziari” e affermare la libertà di cure contro i TSO, tutelando l’interesse comune di potere accedere ad una giustizia giusta e uguale per tutti, inscindibilmente connesso alla più generale tutela del rispetto della persona umana, per cui nessuno può essere sottoposto a torture, tanto più in strutture sanitarie.
Alla luce del tentativo di deviare il processo su un binario morto ci siamo posti come una spina nel fianco della Pubblica Accusa e ne abbiamo denunciato le deviazioni.
Siamo così riusciti ad infondere coraggio e far luce sugli anomali comportamenti endoprocessuali e le frequentazioni del pm Martuscelli con taluni imputati (del caso se ne sta occupando il P.M. di Napoli). In linea di principio la sentenza ha riconosciuto il ruolo propulsivo delle Associazioni, smentendo e censurando il Martuscelli, ma ha reso giustizia solo a metà, anche se ha avuto il pregio di spezzare il clima persecutorio e d’odio politico nei confronti di Franco anche da morto.
Purtuttavia non è stata in grado di far piena luce sulle pratiche medievalistiche presso il lager psichiatrico di Vallo che coinvolgevano tutto il personale sanitario, invece incongruamente assolto, senza tenere conto delle palesi responsabilità e indifferenza degli infermieri, verso l’altrui atroce sofferenza, come risultanti provate dall’impianto accusatorio del primo P.M. dott. Rotondo e dalle video-registrazioni, elementi inchiodanti che sono state incomprensibilmente ignorati.
A pag. 175 della sentenza si afferma infatti assurdamente che la condotta degli infermieri possa venire ricondotta all’art. 51 c. 3 c.p., ritenendo che gli imputati mandati assolti non avrebbero potuto accorgersi dell’illegittimità dell’ordine di contenzione e del suo ingiustificato prolungamento.
Tale conclusione è assolutamente paradossale in quanto si è omesso di considerare che anche il personale infermieristico è portatore di una posizione di garanzia ex art. 40 c.p. nei confronti dei pazienti sottoposti alla loro cura e vigilanza e, pertanto, è da ritenersi pacificamente responsabile ogni qualvolta violi gli obblighi di legge.
I comportamenti contrari ai doveri di ufficio del pm sono stati da noi denunciati anche al P.G. di Salerno con istanza ex art. 570 c.p.p. chiedendo di sostituire il pm per incompatibilità e proporre motivato appello, non essendo consentito alle parti civili la diretta appellabilità che spetterebbe – sic! -allo stesso pm Martuscelli!
La sentenza avverso la quale auspichiamo il P.G. di Salerno vorrà proporre appello ha comminato peraltro pene scandalosamente miti, nei confronti dei medici, pur in presenza di reati di notevole gravità e allarme sociale, senza tener conto delle ns. diverse prospettazioni, secondo cui è configurabile il reato di “omicidio preterintenzionale”.
Nel caso di specie sussiste infatti sia il cd. “animus laedendi“, stante che la contenzione è stata attuata senza cure sino alla morte sia il cd. “animus necandi” che significa che l’agente non deve agire necessariamente con dolo di omicidio, ricadendo altrimenti nell’ipotesi di cui all’art. 575 c.p., bensì basta la previsione della morte, previsione di certo percepibile dal personale medico e paramedico, ben a conoscenza dei possibili esiti fatali di un regime contenitivo prolungato senza mai slegare la vittima per oltre 3 gg., lasciandolo privo di alimentazione e di idonea idratazione.
Da qui il sospetto ben più grave che il cinico e vile omicidio preannunciato dallo stesso Franco – il quale era a tal punto consapevole della fine che lo attendeva che implorò: «Se mi portano a Vallo non ne esco vivo» – possa promanare da una preordinata “vendetta politica”, maturata negli ambiti dell’estrema destra, che forse non ha mai perdonato al maestro elementare la morte del missino Carlo Falvella dirigente del FUAN di Salerno e la sua fede anarchica che lo spingeva a continuare a ricercare la verità sulla strage di Piazza Fontana.
Avvocati senza Frontiere invita pertanto la Società Civile e la stampa a sollecitare il Procuratore Generale di Salerno e la il Procuratore Capo di Vallo della Lucania ad impugnare la sentenza di primo grado, affinché siano comminate giuste condanne ai medici e affermata la resposabilità anche degli infermieri quali esecutori di ordini illegittimi come alla Diaz di Genova per i fatti del G8.
Scarica il testo integrale dell’istanza al Procuratore Capo di Vallo della Lucania e al P.G. di Salerno.

Accesso agli atti: Equitalia condannata per il silenzio-rifiuto

Accesso agli atti: Equitalia condannata per il silenzio-rifiuto
TAR Lazio-Roma, sez. III, sentenza 13.03.2013 n° 2660 (Alessandra Rizzelli, Maurizio Villani)

Con sentenza 6-3 marzo 2013, n. 2660 il Tar Lazio ha accolto il ricorso ex art. 116 c.p.a. proposto da un contribuente avverso il silenzio rifiuto di Equitalia Sud Spa formatosi su un’istanza di accesso agli atti.

Nello specifico, il ricorrente attraverso l’istanza de quo aveva richiesto di poter prendere visione ed estrarre copia di tutta una serie di documenti e, in particolar modo:
• degli atti e dei documenti sottesi ad un’avvenuta iscrizione ipotecaria su di un immobile di sua proprietà;
• degli atti e dei documenti dai quali poter evincere i nomi dei responsabili del o dei procedimenti sottesi a detta iscrizione.

Tale documentazione si rendeva necessaria per il contribuente al fine di poter esercitare il suo diritto di difesa, sia relativamente alla legittimità dell’iscrizione ipotecaria, sia con riferimento ad un processo penale pendente in fase di appello nei confronti del funzionario responsabile della cartella, sia infine per la richiesta di risarcimento del danno ex art. 30 c.p.a. per responsabilità del legittimo esercizio dell’attività amministrativa.

A seguito del silenzio rifiuto e all’impugnazione dello stesso innanzi ai giudici amministrativi, il Tar Lazio correttamente ha accolto il ricorso del contribuente sottolineando in particolare come <>.

I giudici amministrativi, infine, non hanno mancato di rilevare come il diritto di accesso agli atti sia un diritto soggettivo e, pertanto, è compito del giudice, laddove vi sia un interesse concreto, diretto e attuale del ricorrente all’ostensione richiesta, ordinare l’esibizione dei documenti richiesti, sostituendosi all’amministrazione e ordinando un “facere” pubblicistico.

(Altalex,4 aprile 2013. Nota di Alessandra Rizzelli e Maurizio Villani)