Archivio Autore: Palau Giovannetti Pietro - Pagina 24

CREDITO E MALAGIUSTIZIA IN BASILICATA – ROGNE LUCANE

 

Un pm che cambia improvvisamente rotta e contraddice se stesso e il suo operato. Un maxi perizia durata mesi e mesi, costata quasi 120 mila euro e poi buttata nel cestino. Poi un’altra frettolosa, misteriosa perizia bis, una cinquantina di paginette che cercano di contrastare, senza il becco di una motivazione plausibile, il monumentale lavoro svolto in precedenza. Ciliegina sulla torta, la richiesta ormai ovvia, super scontata a quel punto, per una sfilza di imputati eccellenti: “non luogo a procedere”. Per la serie, tutto quello che avete fatto ‘nun e’ reato.
Va in scena, questa pie’ce ai confini della realta’ ma tutta dentro il pianeta malagiustiza di casa nostra, in Basilicata, e coinvolge vertici economici, politici, istituzionali da novanta. Tutti a loro volta passati ai raggi x, circa tre anni fa, dall’allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris nell’ambito della maxi inchiesta Toghe Lucane, poi scippatagli per l’alto volere del Csm. Sotto i riflettori, in particolare, la disinvolta attivita’ della Banca del Materano, una delle “dieci sorelle” (ormai cosi’ le chiamano in mezza Italia), le Popolari che al centro-sud sono confluite tra fine 1999 e inizio 2000 sotto l’ombrello del colosso creditizio emiliano romagnolo BPER (Banca Popolare Emilia Romagna), di storiche simpatie prodiane e, nel Mezzogiorno, legato all’ex segretario Dc, il nuschese Ciriaco De Mita (storico amico, a sua volta, del padrone di Parmalat Callisto Tanzi e dell’altro crakkista eccellente Sergio Cragnotti).
E’ proprio di quell’epoca, inizio 2000, la maxi fusione di una decina di popolari centro-meridionali. Spiccano fra le altre, oltre a quella del Materano, le Popolari di Salerno e dell’Irpinia. E chi non lo ricorda, lo “Sportello di Famiglia” ai tempi dell’Irpiniagate, ovvero la razzia di fondi post sisma del 1980? Una popolare, quella avellinese, presieduta per un ventennio dall’inossidabile Ernesto Valentino, grande amico di De Mita e – confermano ancora oggi nel capoluogo irpino – dell’ex ministro degli Interni e attuale vicepresidente del Csm Nicola Mancino. Banca a dir poco allegra, viste le falle in bilancio e le sofferenze arcimilionarie, dimostrate dalle frequenti visite degli ispettori di Bankitalia: 10 mila miliardi di vecchie lire, sono in parecchi a denunciare. E a documentare. Come fa un costruttore locale, Giuseppe Testa, che esposti su esposti, inoltrati in procure di mezza Italia, mette nero su bianco il “copione”, la “sola”, la classica vendita della fontana di Trevi stile Toto’ portata a segno dai vertici della BPER (che aveva appena inglobato l’Irpinia e le sue nove sorelle). «Per gestire tutta l’operazione – carica Testa – la Bper ha inghiottito, e poi cartolarizzato, un mare di crediti del tutto presunti, attraverso una societa’ di comodo creata ad hoc, la Mutina». Per la gran parte inesigibili, quei crediti; quindi carta straccia. Stesso copione a Salerno, dove e’ sceso in campo il Sinpa (sindacato nazionale piccoli azionisti), che da inizio 2000 denuncia errori, orrori e omissioni di Bankitalia proprio su questa vicenda. E in Basilicata, dove da anni sta dando battaglia un imprenditore stretto nella morsa creditizia e autore di denunce al vetriolo contro i vertici della Popolare del Materano, Michele Zito. All’affare Bper-Mutina la Voce ha dedicato una serie di articoli, a partire dall’inizio 2006. Storie di credito border line con l’usura, di malamministrazione. Di controlli che non esistono. E, soprattutto, di malagiustizia. Come ora cerchiamo di sunteggiare, tappa per tappa, anno per anno.

FIAMMATE GIALLE
Novembre 2000. Ha inizio la prima ispezione Bankitalia alla popolare materana. Dura quattro mesi, vengono rilevate palesi «inosservanze della normativa vigente». A partire dal vertice, il direttore generale Giampiero Maruggi, che allegramente «dispone, in eccesso alle sue facolta’, l’effettuazione di transazioni in proprio e di segno opposto, che hanno comportato perdite aziendali». Tra firme apocrife e crediti allegri, insomma, e’ un vero e proprio via vai di amici, «debitori agevolati», corsie preferenziali e controlli inesistenti.
Febbraio 2004. Il comando della Guardia di Finanza di Matera, che ha svolto per mesi e mesi indagini su ordine della procura di Matera, guidata da Giuseppe Chieco, redige un fascicolo di 89 pagine sull’attivita’ della Popolare. Eccone alcuni rapidi stralci. Esiste, viene sottolineato, «una sorta di sodalizio costituito al fine di perseguire nel tempo il medesimo disegno criminoso, realizzato attraverso l’attivita’ creditizia della Banca Popolare del Materano a favore di una ristretta cerchia di individui, mediante la concessione di benefits in dispregio dell’interesse comune dei sottoscrittori dell’ente creditizio e del bene patrimoniale della banca».
E via giu’ con una sfilza di «condotte penalmente rilevanti» portate a segno con «sistematicita’» da «dirigenti di banca e da professionisti in favore di una certa selezionata clientela che di fatto viene finanziata e in taluni casi sovvenzionata». «Si puo’ ipotizzare – veniva sottolineato nei roventi rilievi – l’esistenza di un ristretto comitato d’affari, realizzato attraverso la gestione clientelare del credito, la truffa, l’appropriazione indebita, il mendacio bancario, il falso ideologico». E via.
Giugno 2004. Sono trascorsi solo pochi mesi dal primo rapporto di fuoco – e’ il caso di dirlo – delle fiamme gialle, ed eccoci ad una seconda informativa, meno accalorata ma piu’ specifica: siamo a giugno 2004 e riguarda i finanziamenti facili ad una concessionaria auto, evidentemente “amica”.
Settembre 2004. Il comando del nucleo provinciale di polizia tributaria chiude le indagini e consegna al procuratore capo Chieco il “super dossier”, ossia il documento che riassume tutte le indagini fin qui svolte a carico dei vertici della Popolare. Ma il dossier “sparisce”, si volatilizza: non compare, infatti, tra i voluminosi faldoni del procedimento giudiziario. Riesce miracolosamente a ritrovarlo la procura di Salerno, che indaga sulla querelle ormai al vetriolo fra De Magistris e la pletora di “toghe lucane” (e non solo) coinvolte nella maxi inchiesta del pm di Catanzaro.
Marzo 2007. All’istituto materano arrivano di nuovo gli 007 di Bankitalia, che lavorano per tre mesi, fino al 22 giugno. Una bordata. Parole di fuoco, quelle degli ispettori, che puntano i riflettori, in particolare, sugli affaire Mutina e cartolarizzazione. Ecco cosa mettono nero su bianco: «il business plan compilato all’atto della cessione del portafoglio crediti cartolarizzato (2002) non ha stimato in modo sufficientemente attendibile il valore dei titoli junior, sui quali non erano state formulate previsioni di recupero». Il pasticciaccio brutto viene confermato dalle fiamme gialle che redigono un rapporto al calor bianco, riscontrando «violazioni alla normativa vigente» e poi chiedendo l’aiuto di una consulenza tecnica.

LA FRITTATA DI CHIECO
Cosa fa, a questo punto, l’imperturbabile Chieco? Chiude un occhio, anzi due. Perche’ gira la frittata e chiede l’archiviazione di tutto il filone d’inchiesta, sostenendo che l’operazione-cartolarizzazione e’ regolare e trasparente, come osserva la Guardia di Finanza. La quale, invece, aveva documentato esattamente il contrario, descrivendo le innumerevoli performance del “sodalizio criminoso”. Le fiamme gialle, fra le altre cose, sottolineavano le frequenti “manchevolezze” nei procedimenti di valutazione degli immobili, posti a garanzia dei crediti allegri concessi a correntisti “eccellenti”. Come nel caso di Iside Granese, toga di punta della procura lucana, che per ottenere un maxi prestito all’incredibile tasso del 3 per cento, da’ a garanzia un immobile da 150 mila euro, pluri-ipotecato (si parla di una stratosferica cifra da 1 milione e 200 mila euro).
Nel mezzo di questa tempesta, cosa pensa bene di fare il direttore generale della Popolare di Matera, Maruggi? Esattamente un anno fa, ad aprile 2008, annuncia il lieto evento: «La buona notizia – gongola – e’ che quell’iter ispettivo si e’ concluso povitivamente, non ci e’ stato mosso alcun rilievo». Non contento, aggiunge: «Per questo siamo tra quell’elite, quel gruppo ristretto di banche, non piu’ di una decina, che non subiscono rilievi dalla Banca d’Italia». Beato lui. L’unico a “non sapere” che il maxi gruppo da una decina di banche sparse per il centro sud – sotto l’attenta regia della maxi popolare, BPER – ha cartolarizzato per palate di milioni di euro i suoi debiti sdoganandoli presso i soliti, ignari, risparmiatori. «Che si ritroveranno in braghe di tela fra qualche anno – commentano parecchi a piazza Affari – cosi’ come e’ capitato con tanti crac da novanta, dai bond argentini fino a Parmalat, Cirio e compagnia bella».

SCENEGGIATA, AVANTIe#8200;TUTTA
Ma riprendiamo in rapida carrellata l’iter giudiziario. Sei anni di indagini condotte dal pm Annunziata Cazzetta, una perizia tecnica costata circa 120 mila euro, una montagna di carte e documenti prodotte da Fiamme gialle e Bankitalia in prims, una sfilza di riscontri. E poi? Mesi e mesi per formulare la richiesta di rinvio a giudizio, mesi e mesi in attesa della firma del procuratore capo Chieco. Alla fine della sceneggiata? Il gip, Angelo Onorati, a due anni dalla chiusura delle indagini, invece di decidere, rinvia. Anzi, fa peggio: ordina una nuova perizia tecnica, affidata ad Angelo Menichini, ex dirigente del defunto Banco di Napoli (poi passato sotto l’ombrello del gruppo San Paolo) e membro dell’Abi. «Quindi del tutto incompatibile – tuonano all’Adusbef, la battagliera associazione animata da Elio Lannutti che per prima ha denunciato lo scandalo Bper e annesse cartolarizzazioni a go go – per palesi conflitti di interesse, dal momento che nell’inchiesta sono indagati numerosi esponenti della stessa Abi e di vertici bancari nazionali». Come, per fare solo qualche nome, Guido Leoni (amministratore delegato Bper, indagato per appropriazione indebita), lo stesso Maruggi (associazione per delinquere, appropriazione indebita, truffa e violazione della legge bancaria), Francesco Lucifero (un cognome, un programma: presidente Banca Popolare del Mezzogiorno, stessi capi d’accusa di Maruggi), Attilio Caruso (ex presidente Banca Popolare del Materano, uguali capi d’accusa), Donato Masciandaro (presidente della Popolare del Materano, appropriazione indebita).
Ma cosa chiede Onorati al nuovo perito? Se quei vertici bancari hanno violato la legge. Tutto e niente. O meglio, il vuoto assoluto. E in poche settimane il solerte Menichini butta giu’ una cinquantina di pagine dove dice: non hanno violato la legge. «Proprio come chiedere – commentano in parecchi a Potenza – al fruttivendolo se la merce che vende e’ buona o no». Oppure all’acquaiolo se la sua acqua e’ potabile.
Ecco la comica finale. La Cazzetta fa un’inversione a U e cambia diametralmente parere, chiedendo il non luogo a procedere per gli imputati e vanificando la monumentale inchiesta precedente (perizia tecnica numero uno, lavoro degli ispettori di Bankitalia e della Gdf). Onorati ratifica e sentenzia: il fatto non costituisce reato.
Un denominatore comune in tutta questa storia di malcredito, malapolitica e malagiustizia? Emilio Nicola Buccico, senatore di An, ex sindaco di Matera, gia’ membro del Csm e, soprattutto, avvocato. Di uno stuolo di inquisiti nella maxi inchiesta Toghe Lucane scippata a De Magistris. E in ottimi rapporti con parecchi magistrati che hanno lavorato sull’affaire Bper e dintorni. Ecco cosa scrive Carlo Vulpio, fresco candidato per l’Italia dei Valori alle europee, giornalista di razza del Corsera (e per questo emarginato dai vertici del quotidiano) nel suo “Roba Nostra” (edizioni il Saggiatore): «L’amicizia e’ amicizia e Buccico e’ un amico. Del procuratore di Matera, Giuseppe Chieco, e dei pm a lui piu’ fedeli, da Paola Morelli, che aveva archiviato la pratica Marinagri (una maxi speculazione edilizia, ndr) come non avrebbe fatto nemmeno con una mansarda abusiva, ad Annunziata Cazzetta, Valeria Farina Valaori, Rosa Bia e Angelo Onorati. Mentre a Potenza Buccico e’ molto amico del procuratore generale Vincenzo Tufano e del capo della procura Giuseppe Galante. Ed e’ molto amico anche del procuratore vicario Felicia Genovese e di suo marito, il manager ospedaliero Michele Cannizzaro, che contemporaneamente sponsorizza la campagna elettorale di Buccico e si propone come uno dei volti nuovi dell’Ulivo». Protagonisti e interpreti del copione di “Toghe Lucane”.

da lavocedellevoci.it

PATROCINIO A SPESE DELLO STATO

L’istituto del Patrocinio a spese dello Stato, meglio conosciuto come “gratuito patrocinio“, sinora scarsamente tutelato dallo Stato, che lo ha reso di difficile attuazione e divulgazione, tanto da essere utilizzato da una percentuale molto bassa dei cittadini aventi diritto, costituisce, invero, il principale meccanismo legale, attraverso cui una società che voglia definirsi “civile”, possa concretamente garantire la legalità e il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

Il gratuito patrocinio è infatti quel diritto cardinale, inviolabilmente garantito dall’art. 24 della Costituzione, attraverso cui chiunque può agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.

Tale fondamentale norma, posta a base di principi di civiltà giuridica, assicura quindi a tutti i non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti a ogni giurisdizione e va raccordata con l’articolo 3 della medesima Costituzione che sancisce appunto il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, indipendentemente dalla loro condizione personale e sociale, senza distinzione di razza, lingua, religione, opinioni politiche.

È, cioè, il diritto ad essere difesi gratuitamente e diligenza da un avvocato, in ogni giurisdizione e grado, nonché ad essere gratuitamente assistiti anche da un consulente tecnico ed investigatore privato, nei processi civili, penali, amministrativi, tributari, comprese le azioni civili connesse per risarcimento dei danni da reato.

Ed, anche, infine, per quanto attiene il diritto ad avviare un procedimento penale, in cui il cittadino non abbiente è parte lesa e intende sporgere una denuncia-querela o un semplice esposto, oppure proporre un’opposizione all’archiviazione, ex art. 410 c.p.p.

Tutti diritti che lo Stato e le istituzioni giudiziarie stentano a divulgare nella maniera più consona, dando modo a tutti i cittadini non abbienti di riuscire, effettivamente, ad accedere all’istituto del gratuito patrocinio, a cui spesso si è costretti rinunciare per mancanza di adeguata informazione istituzionale e inottemperanza degli Avvocati e dei relativi Ordini, protesi a coprire anche i casi più eclatanti di infedeltà professionale e violazione dei più elementari imperativi deontologici.

Stato, partiti e corporazioni forensi sono evidentemente intimoriti che si inneschino incontrollabili processi, peraltro, ormai, in atto, dagli anni ’60-’70, di democratizzazione della giustizia e di un aumento della domanda di effettiva legalità, cosa che una più adeguata diffusione del gratuito patrocinio, alla maggiorparte degli aventi diritto, comporterebbe, mentre, viceversa, allo stato la stragrande maggioranza degli abusi resta del tutto impunita, proprio a fronte dei costi per approntare un’adeguata difesa tecnica e della difficoltà di accedere al gratuito patrocinio; cosa che, in ogni caso, molto spesso lascia il tempo che trova per la scarsa preparazione, diligenza e/o correttezza deontologica degli avvocati indicati nelle liste “chiuse” dei locali Consigli dell’Ordine, da secoli asserviti ai poteri forti che controllano la società.

Il limite di reddito per beneficiare del patrocinio a spese dello Stato è di € 10628,16: si tratta del reddito imponibile ai fini IRPEF, risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi, tenuto conto anche dei redditi che per legge sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ovvero ad imposta sostitutiva.

Se l’interessato convive col coniuge o con altri familiari, viene considerata la somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo dai componenti la famiglia dell’istante, compreso l’istante.

Si tiene conto del solo reddito dell’interessato, quando gli interessi del richiedente siano in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare, conviventi.

Di seguito potete trovare il testo integrale della legge sul gratuito patrocinio e un fac-simile delle istanze sia in sede penale sia in sede civile per procedimenti civili amministrativi e contabili. Per quanto riguarda i procedimenti civili pubblichiamo anche i moduli degli Ordini di Milano e Roma, segnalando che ogni locale ordine degli avvocati dovrebbe disporre della proprio modulistica scaricabile dai singoli siti internet.

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PISTA MASSONICA NEL CRAC PARMALAT

Spunta la pista massonica a Parma un dossier su Mutti

MILANO – Mancava solo l’impronta della massoneria, per rendere il pasticcio della Parmalat un riassunto quasi perfetto della italian way alla criminalità economica. Ed ecco la tessera che mancava. Sta in un plico partito a metà della scorsa settimana dalla Procura della Repubblica di Milano per Antonella Ioffredi e Silvia Cavallari, i due pm emiliani titolari dell’ indagine sul gruppo di Calisto Tanzi. Nel plico, il resoconto di una perquisizione eseguita nell’ abitazione e negli uffici di un personaggio che finora nelle cronache sul crac Parmalat era entrato solo di striscio: Mario Mutti, imprenditore di lungo corso, già direttore generale della Federconsorzi, buon amico di Silvio Berlusconi (che lo piazzò nel 1989 alla guida della Standa e poi lo inviò in Spagna come proconsole del gruppo Fininvest) e oggi patron di un’ azienda finita gambe all’ aria, la Tecnosistemi. Mutti è indagato per bancarotta fraudolenta da due pm milanesi, Laura Pedio e Luigi Orsi. Ed è dalla perquisizione a suo carico che saltano fuori documenti di impronta inequivocabilmente massonica. Mutti è un “grembiulino”, come si dice in gergo. E non solo. Il suo nome compariva nelle liste di Stay behind, ovvero della rete Gladio, l’ organizzazione segreta creata dall’ Alleanza atlantica negli anni Sessanta per scatenare la guerriglia in caso di presa del potere comunista in Italia. La Guardia di finanza, quando perquisisce la casa di Mutti, trova anche documenti di Gladio, e anche questi finiscono insieme alle carte del Grande oriente nel plico inviato a Parma. Ma non si tratta solo di folklore o di curiosità. Perché tra le carte sequestrate a Mutti ce ne sono alcune che documenterebbero con dettagli preoccupanti l’ intreccio tra i due capitomboli finanziari. Un dettaglio, su tutti, unisce i dissesti di Parmalat e Tecnosistemi all’ altro grande buco di questi mesi, l’ affare Cirio. Un dettaglio il cui senso è ancora tutto da interpretare. Sia Cirio sia Parmalat sia Tecnosistemi hanno robusti interessi in Brasile. E tutte sono rappresentate in Brasile dalla stessa persona: Giampaolo Grisendi, il manager indicato da Fausto Tonna, nelle sue confessioni, come il regista delle operazioni che segnarono l’ inizio dei guai di bilancio per il gruppo di Collecchio. Oggi le filiali locali delle tre società sono andate gambe all’ aria, e un magistrato di San Paolo, Carlos Henriques Abrao, ipotizza che dietro a questo scenario di finanza allegra e di fallimenti ci sia un corposo flusso di riciclaggio di denaro sporco. In Italia, d’ altronde, le piste del massone Mutti e del cattolicissimo Tanzi hanno iniziato a incrociarsi già anni fa, quando Parmalat decise di sbarcare in Borsa: l’ operazione passò attraverso una società di Mutti, la finanziaria Centro Nord, che si fuse con Parmalat. Mutti è stato fino al 1998 consigliere d’ amministrazione di Parmalat. Parmalat ha posseduto fino all’ anno scorso una quota di Tecnosistemi. Partecipazioni incrociate che denotano, se non altro, sintonia d’ intenti. E anche dopo l’ uscita dal Cda di Parmalat Mutti ha continuato a fare affari con Tanzi: insieme i due detengono una parte delle azioni della Aranca, una società palermitana che produce succo di agrumi, sui motivi reali della cui acquisizione hanno parlato con i pm alcuni ex collaboratori di Tanzi. La Tecnosistemi di Mutti – che oggi è in amministrazione straordinaria, cioè tecnicamente fallita – era finita sui giornali un paio d’ anni fa, quando Mutti aveva realizzato una joint venture assai chiacchierata con l’ Enav, l’ ente pubblico di assistenza al volo. Intercettando i telefoni dei vertici Enav (nell’ ambito dell’ inchiesta sulla strage di Linate) la Procura milanese aveva scoperto che Mutti era legato a filo doppio ai vertici lombardi di Forza Italia. Ne erano nate una serie di interrogazioni parlamentari e l’ affare era naufragato. 

Luca Fazzo e Marco Mensurati (Repubblica — 15 febbraio 2004   pagina 13   sezione: ECONOMIA)

Parmalat, crac annunciato:¨Fallita già degli Anni 80¨

Vorrebbero farci creedere con buona pace dei risparmiatori gabbati che la “banda dei ragionieri di Collecchio” per anni è riuscita a prendere per il naso società di revisione, società di rating, banche nazionali e internazionali, analisti finanziari, fondi di investimento, Consob e la “ignara” magistratura

Ed è così che il braccio della legge e dell’economia corrotta che la controlla si abbatte sulla Parlamat con oltre 20 anni di ritardo, rispetto al crac annunciato, previdibile secondo gli analisti già dagli anni ’80, onde mettere in campo la solita sceneggiata secondo cui la magistratura “solertemente” fa la sua parte (nella commedia), in difesa dei cittadini e della legalità.

Il 17 dicembre 2003 la Bank of America fa sapere a un’Italia imbambolata dalle menzogne e dai numeri, che il conto corrente intestato a Bonlat presso la sede di New York non esiste. Non c’è. Non c’è mai stato (forse, come vedremo). Come non ci sono i 3, 95 miliardi di euro che avrebbero dovuto esserci a sentire gli amministratori della Parmalat e i revisori dei bilanci.       E’ il sorprendente, straordinario, inaspettatissimo schianto dell’ottavo gruppo industriale italiano. Dieci giorni dopo. 27 dicembre 2003. Sono le otto della sera. Milano. Un investigatore della Guardia di Finanza chiede a un signore ingobbito ma sorridente, reduce da sette giorni in giro per il mondo (Parma, Lisbona, Fatima, Lisbona, Madrid, Quito e Guayaquil ? in Ecuador ? Madrid, Zurigo, Milano, Collecchio): ¨è lei, il dottor Tanzi?¨. Calisto Tanzi trova la forza (o l’avventatezza) di fare ancora un mezzo sorriso e ciao ciao alle telecamere prima di infilarsi nell’auto degli investigatori e trasferirsi nel carcere di San Vittore. Novantauno giorno dopo. 17 marzo 2004. Procura di Milano. I pubblici ministeri appaiono stanchi del tour de force, ma alquanto soddisfatti. Ancora 24 ore e sono in grado di chiedere il giudizio immediato contro Calisto Tanzi, i manager di Collecchio, i dirigenti delle sedi estere della Parmalat, i revisori ¨primari¨ (Deloitte) e ¨secondari¨ (Grant Thornton), i ¨controllori¨ (internal auditors), e tre dirigenti di Bank of America, l’avvocato d’affari Gianpaolo Zini e, infine, come ¨persone giuridiche¨ Bank of America, Deloitte e Gran Thornton. Ipotesi di reato: aggiotaggio, ostacolo alla Consob e concorso nel falso dei revisori. Il reato di aggiotaggio è disciplinato dall’art. 501 del codice penale: ¨Chiunque, al fine di turbare il mercato interno dei valori o delle merci, pubblica o divulga notizie false, esagerate o tendenziose o adopera altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo dei valori ammessi nelle liste di borsa è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da uno a cinquanta milioni di lire?.¨. Dicono in Procura: ¨Sarà un processo senza storia perché gli imputati, da Calisto Tanzi al vero dominus finanziario della società Fausto Tonna, hanno confessato e dimostrato di aver falsificato i bilanci, deformandone le poste, occultandone le perdite, inventato di sana pianta liquidità inesistenti¨. A giudicare dalle facce rassegnate degli avvocati delle difese i pubblici ministeri non esagerano: l’esito del giudizio appare molto prevedibile. Tira un sospiro di sollievo soltanto Gian Piero Biancolella, avvocato di Tanzi. Il patron di Collecchio, seduto accanto agli uomini di Bank of America, intravede una possibilità di poter ridimensionare le sue responsabilità. Da Milano a Parma. Qui i pubblici ministeri ipotizzano contro Tanzi & soci la bancarotta fraudolenta, la truffa aggravata, il falso in bilancio.
Come a Milano, i procuratori non hanno incertezze sulla conclusione del processo. ¨Le distrazioni di denaro dalle casse della Parmalat sono dimostrate per tabulas e di conseguenza la truffa e il falso bilancio. Contiamo di andare a giudizio entro giugno¨. Dicembre 2003/Giugno 2004. In soli 180 giorni, indicando responsabilità e assegnando colpe, la giustizia italiana offre una (prima) conclusione al crac industriale e finanziario più clamoroso della storia italiana, un default pari a 14,4 miliardi di euro (quasi 28 mila miliardi di lire), lo 0,7 per cento del nostro prodotto interno lordo. Anche in quest’ultimo atto della Parmalat, come in molti degli atti precedenti, il padrone della scena (e della sceneggiatura) è il ragioniere Fausto Tonna. Tanzi (pare) gliel’ha lasciata volentieri. Gli interrogatori di don Calisto sono sempre zoppicanti, monchi di circostanze e punti fermi. Si sviluppano come un tormentone. Di questo tipo: ¨E’ vero, con promissory notes verso terzi, cambiali finanziarie insomma, abbassavamo l’indebitamento delle società, ma per i dettagli di questa o quella operazione dovete chiedere a Tonna, lui sa tutto? E’ vero, per aumentare l’attivo di Bonlat abbiamo fatto degli swaps con il fondo Epicurum che avevamo creato apposta. No, non ricordo quanti. Uno, forse tre, forse quattro? Dovete chiedere a Tonna, queste cose le sa lui?¨. Alter ego e doppio di Calisto Tanzi. Arrogante. Irascibilissimo. Decisionista. Consapevole di sé fino al punto da coltivare, con la nipote del patron Paola Visconti, l’ambizione di ¨scippare¨ al ¨padrone¨ addirittura la società (come è emerso in alcuni interrogatori), Fausto Tonna indica ai pubblici ministeri di Milano e di Parma la strada da percorrere e undici tappe da seguire e vagliare. Undici come ¨i protocolli¨ per creare dal nulla voci attive nel bilancio e cancellare nel nulla le perdite. Gli interrogatori di Fausto Tonna, le sue visite negli uffici della Parmalat in via Oreste Grassi a Collecchio, diventano così il canovaccio dell’inchiesta e l’intreccio della pubblica ricostruzione della truffa. Il ¨servo padrone¨ di don Calisto ha in mano tutti i fili dello spettacolo, quali che siano spettatore e attore. Delle magie finanziarie che hanno tenuto in vita e sui mercati Parmalat, conosce i segreti e il doppio fondo. Dell’inchiesta giudiziaria è il pivot. E’ consapevole di poter dire, tacere o dissimulare piegando nella direzione voluta le indagini. Soprattutto sa di poter rallentare o accelerare il gioco del disvelamento. Quanto tempo occorrerebbe ai pubblici ministeri per decrittare i ¨protocolli¨ della falsificazione dei bilanci, ammesso che senza il suo aiuto l’impresa riesca? E quanto ancora sarebbe il tempo necessario agli investigatori per correre in tre continenti, dove è presente Parmalat, per rintracciare le prove della truffa e le ragioni del crack? Fausto Tonna regala preziosissimo tempo ai magistrati – non v’ha dubbio – e i magistrati, tra Milano e Parma, non stanno lì a tormentarlo più di tanto. Per il momento, anzi, gliene sono addirittura grati.
Chi con entusiasmo (¨La collaborazione di Tonna all’inchiesta ha avuto anche un segno etico¨, si sente dire). Chi con più diffidenza e maggiore pragmatismo: ¨Sappiamo che Tonna non ci ha detto tutto. Come sappiamo che la sua confessione non scioglie il garbuglio. Semplicemente stiamo facendo di necessità virtù perché non abbiamo le forze né il tempo per dare una risposta a tutte le domande dell’affare e ci accontentiamo, dobbiamo accontentarci delle risposte che ci permettono di istruire il processo con solide fonti di prova¨. Buona ragione, perché economica, se si ha la toga sulle spalle. Non una ragione adeguata se si vuole capire che cosa è accaduto a Collecchio. Come è potuto accadere? Domande essenziali per comprendere dove il ¨sistema¨ finanziario (con i suoi controlli e le sue istituzioni e le sue regole) non ha funzionato. Il tableau disegnato da Fausto Tonna, nella lunga confessione, è minimalista fino al grottesco. Una banda di ragionieri di Collecchio per anni prende per il naso società di revisione, società di rating, banche nazionali e internazionali, analisti finanziari, fondi di investimento, Consob e soprattutto risparmiatori, con pochi tratti di penna, un computer e uno scanner. E’ uno scenario che, accanto al buon senso, lascia in un canto troppe questioni. Non solo quella che naturalmente fiorisce sulla bocca di tutti: come è potuto accadere? Ma soprattutto, se Tonna non la racconta tutta, quella essenziale: che cosa è accaduto; da quanto tempo accadeva, e perché? Altri interrogativi ne sono il necessario corollario: chi è davvero Calisto Tanzi? Di quali protezioni ha goduto? Di quali capitali si è avvantaggiato per sopravvivere, e come?  ¨Chi è davvero Calisto Tanzi?¨ pare la prima domanda da affrontare. Cominciamo con definirlo furbissimo, e non per (non solo per) i trucchi dei bilanci della Parmalat. Tanzi è un furbissimo soprattutto perché ha fatto lievitare di sé, intorno a sé, su di sé, un’immagine efficacissima per il suo marketing personale e vincente per il marchio dell’azienda di famiglia. Religiosissimo. Morigeratissimo. Perbenissimo. Attaccatissimo alla moglie e ai figli (che poi curiosamente coinvolgerà nella catastrofe e rovinerà). Modernissimo imprenditore: non per caso, si diceva, Parmalat è l’unico marchio ¨globale¨ del Paese. Unicamente interessato ai prodotti delle sue fabbriche, e a null’altro. (Null’altro, se si esclude il football). Bene, ma era, è davvero così Calisto Tanzi? Per dirne una. Leggi che, nella cena di celebrazione in Italia dei cento anni della Chase Manhattan Bank, lo avevano sistemato alla sinistra di David Rockfeller che aveva alla sua destra Gianni Agnelli. Quella seggiola accanto al banchiere americano lo assegna a un empireo industriale, ne testimonia il successo e il prestigio personale, la collocazione in un ambito internazionale che nessun industriale italiano ha mai toccato, se non l’Avvocato e per via diciamo così ¨dinastica¨. Scopri poi, però, che non è vero niente, che quella storia è una delle tante favolette della storia di Tanzi. Chi c’era quella sera ricorda: ¨La cena è del 1994 e Tanzi non era seduto né alla destra né al tavolo di Rockfeller, per l’ovvia ragione che nessuno è tanto matto o scortese da far sedere chi non parla una parola di inglese accanto a chi parla solo inglese. Sicuramente Tanzi sedeva a uno tavolo importante, ma non accanto a Rockfeller. Quel che è certo è che la cosa non sembrò allora dare a Calisto alcun brivido o gratificazione. E’ un pessimo conversatore e le occasioni mondane in società servivano soltanto ad appagare la sua ansia di offrire un’immagine di sé e del suo nome. Non aveva alcun interesse a conoscere Rockfeller, né era curioso di scambiarci due parole¨. Così era fatto, così è fatto don Calisto. ¨Apparire¨ è apparso a Tanzi sempre più essenziale che ¨essere¨. Apparire ¨liquido¨, molto ¨liquido¨ era, poi, il primo degli imperativi della sua strategia. Liquido, Tanzi? Anche questa era una bufala. Parola di un banchiere: Gianmario Roveraro, che organizzò per Parmalat la quotazione in borsa alla fine del 1990. ¨La collocazione delle azioni – racconta Roveraro (prima di venire ammazzato) – aveva avuto, prima del nostro arrivo, qualche difficoltà per un motivo noto a tutti: Tanzi non pagava i fornitori. Lo sapevano tutti tra l’Emilia e la Lombardia, così le banche erano sul ¨chi vive¨ e prudenti i risparmiatori¨. Tanzi non pagava perché le casse della Parmalat erano stente, perché – in quel 1989 – era già ridotto maluccio. Tanto che, appena due anni dopo la quotazione in borsa, è costretto a chiedere, con un secondo aumento di capitale, ancora denaro fresco al mercato. L’aumento di capitale è di 430 miliardi. Per la metà lo avrebbe dovuto conferire la famiglia di Collecchio. Ma lo fece e, se lo fece, dove prese il denaro? ¨Mah! – sospira Roveraro – Allora Tanzi mi disse che aveva attinto al patrimonio della moglie¨. Per 215 miliardi? ¨Così mi disse e io gli credetti anche se cominciai ad avere dei dubbi quando, subito dopo, chiese a me come all’avvocato Sergio Erede e a Renato Picco (Eridania-Ferruzzi) di lasciare libero il posto nel consiglio d’amministrazione che da quel momento è stato sempre composto da familiari di Tanzi o da dipendenti della Parmalat¨. Le manipolazioni di bilancio cominciano in quell’anno, dunque, con le poste che la famiglia doveva conferire all’aumento di capitale. ¨E’ – scrivono i pm di Milano – riscontrare oggettivamente che la contabilità del gruppo Parmalat è stata totalmente falsificata quanto meno dal 1990¨. A voce un pubblico ministero dice di più: ¨Saremo in grado di dimostrare che, già alla fine degli anni Ottanta, la Parmalat era tecnicamente fallita¨. Tecnicamente fallita alla fine degli anni Ottanta. Si sa come don Calisto si salvò in quell’occasione. Ricorse ai buoni uffici di Giuseppe Gennari, un finanziere tanto oscuro quanto aggressivo che gli fu presentato da Mario Mutti, gladiatore dello ¨stay behind¨ e massone.
Meno di pubblico dominio è che la società di Gennari, la Finanziaria Centronord (Fcn), come ricorda Florio Fiorini che vi investì una parte della sua liquidazione dell’Eni, fosse ¨più o meno una società di strozzo che erogava modesti prestiti a piccoli imprenditori, a commercianti e artigiani scontando i crediti presso il Monte dei Paschi di Siena dov’era direttore generale Carlo Zini che la Fcn aveva fondato e poi abbandonato¨. Sarà per questi nomi e questi metodi e questa storia che il 1989 e il 1990 sono gli anni più oscuri dell’avventura di Tanzi. In una delle principali merchant bank del tempo si ritenne (lo ha ricordato Marco Vitale), che la società fosse ¨opaca, la natura dei nuovi capitali entrati ambigua, la fiducia nell’imprenditore Tanzi bassa¨. Non si comprende infatti con quali risorse Tanzi sia entrato, con la finanziaria di famiglia (la Coloniale), in Fcn e con quali quattrini Gennari abbia potuto fare ingresso nella Coloniale prima e in Parmalat poi (fino a possederne, a sentir lui, più del 50 per cento). Un uomo d’affari di Milano seppe, qualche tempo dopo, che ¨fu il gran maestro della massoneria Armando Corona a salvare il cattolicissimo Tanzi¨. Non ci mancava che questa. La massoneria. Il rumor, senza conferma, si diffonde. E ingrassa se si prende per buona la convinzione che il Monte Paschi fosse controllato dai massoni toscani e che a mediare tra Tanzi, la banca di Siena e Gennari fosse, come s’è detto, il massone Mario Mutti. Guai però a parlare di massoneria con Carlo Zini che, dei Paschi, era in quegli anni provveditore (direttore generale). ¨Ma quale massoneria – dice oggi – Che bisogno della massoneria aveva Tanzi! In quel tempo era la politica a governare il credito. La deputazione del Monte dei Paschi era composta con il bilancino. Otto membri. Tre alla Dc, due al Pci e due al Psi, uno alternativamente al Psdi e al Pri. Il provveditore nominato dal ministro del Tesoro. Tanzi non aveva bisogno dei massoni, gli era sufficiente l’amicizia dei politici. Anzi, a Siena era sufficiente saperlo amici dei politici¨. Così si spiega perché, nella primavera del 1989, la merchant bank dei Paschi (la Centrofinanziaria) organizzò in gran fretta alla Parmalat un prestito di 120 miliardi a patto che Tanzi si liberasse della disastrosa proprietà di Odeon Tv e si impegnasse, in caso di mancato rimborso entro tre anni, a consegnare alle banche il 22 per cento dell’azienda. ¨Che – ricorda oggi Zini – eravamo già pronti a cedere alla Kraft¨. Ancora debiti. Ancora con il fiato sospeso. Tuttavia Tanzi ce la fa. Ancora una volta, non si sa come. ¨Fu salvata – ha scritto Marco Vitale (Corriere della Sera) – dalla brillante operazione condotta dalla Akros di Gianmario Roveraro, mobilitando capitali imprenditoriali non chiarissimi e facendo ricorso al mercato¨. C’è chi sostiene che, fallito il tentativo di Gennari appoggiato dal Monte dei Paschi, sia stata l’Opus Dei a tirare fuori dai guai don Calisto.
E, in effetti, tutti gli uomini chiave dello sbarco di Parmalat in Piazza Affari sono dell’Opus. Lo è Gianmario Roveraro, poi misteriosamente “giustiziato” . Lo è Ettore Gotti Tedeschi che introduce Tanzi da Roveraro. E’ stato scritto che per ottenere i favori dell’Opus, don Calisto furbissimo abbia organizzato addirittura ¨un circolo di preghiera¨. ¨Posso dire – taglia corto, gentile e infastidito, Roveraro – che Calisto Tanzi non ha mai partecipato a iniziative dell’Opus Dei né a quelle collettive di dottrina né a quelle individuali di ascesi. E comunque l’Opus non c’entra nulla in questa storia e non si occupa di queste cose. La finanza non è cattolica né laica o massonica: è semplicemente finanza¨. Prendiamone atto e annotiamo qualche prima conclusione. Per i pubblici ministeri, che si preparano a portare in giudizio Tanzi, a soli tre mesi dal crac, Parmalat è ¨tecnicamente fallita¨ già alla fine degli Anni Ottanta. I capitali che vi affluiscono in quella stagione (consentono la quotazione alla Borsa di Milano) sono, nell’opinione della comunità finanziaria, ¨oscuri e non chiarissimi¨. A cavallo del 1990, la formidabile politica di acquisizioni all’estero aggrava ancora di più l’indebitamento di Calisto Tanzi. Fausto Tonna manipola i bilanci, nasconde le perdite, gonfia gli attivi. Tutto indisturbatamente per ulteriori 13 anni, sino ai tempi più recenti con un tracollo che sfiora  i 15 miliardi di euro!

 

ROGOREDO: BOMBA BIOLOGICA A SANTA GIULIA

Il business delle nuove costruzioni è lo smaltimento dei veleni tossici.  Si sbanca, si sversa, e poi si costruisce. Al Sud come al Nord, soprattutto al Nord e specialmente a Milano, la capitale immorale d’Italia alla quale manca la penna di un Saviano per essere sputtanata in tutto il mondo. Se l’Universo criminale della Camorra e della distruzione della Campania è “Gomorra“, l’hinterland milanese è “Sodoma“. In Lombardia si compiono crimini contro l’umanità nell’indifferenza dei politici (Mortizia Moratti: “A Milano non c’è la mafia“) e con il concorso delle banche che finanziano la distruzione del territorio, da City Life, all’Expo 2015 a Santa Giulia Montecity. Un mega quartiere residenziale usato per seppellire ogni tipo di rifiuto cancerogeno. Per mesi, di notte i camion hanno seppellito senza sosta sostanze tossiche. Dov’erano le autorità sempre pronte a multare i cittadini per ogni piccola irregolarità? Un milione di metri quadri per un valore speculativo di un miliardo di euro. Il terreno è ora sotto sequestro a seguito di una denuncia dell’Arpa. Due falde acquifere avvelenate con solventi clorurati, mercurio, tricloroetilene. I valori dell’inquinamento sono cento volte superiori ai limiti di legge e possono produrre danni irreparabili alle donne in attesa. Nel quartiere è stato costruito un asilo con 60 bambini, anche il vicino parco Trapezio è contaminato. La società Risanamento, quotata in Borsa, è proprietaria dell’area, il nome più adatto per le bonifiche della ‘Ndrangheta.

www.beppegrillo.it//2010/07/bomba_ecologica_a_santa_giulia/index.html?s=n2010-07-31

INTERVISTA A GIANNI BARBACETTO

Santa Giulia è la storia di un colossale imbroglio, è una storia di cui si comincia a parlare negli anni 80, quando le fabbriche vengono dismesse, si liberano grandi aree periferiche, alcune a Rogoredo, in realtà questo è il vero nome di Santa Giulia, un quartiere periferico di Milano, anzi paese alla periferia di Milano, un tempo.
Vengono fatte varie ipotesi, proposte, promesse, alla fine invece cosa si realizza dopo alcuni decenni di attesa? Cemento, case, viene dato un bel nome Santa Giulia. Vengono fatti degli spot mirabolanti in cui si dice che qui sorgerà, su questa area sfigata, periferica, proprio fuori Milano, il nuovo quartiere che rinnoverà la maniera di vivere dei fortunati che riusciranno ad andarci a abitare. Ci fanno un po’ di case, ci fanno delle case di lusso, le vendono a caro prezzo, sono in un’area sfigata della periferia milanese, vengono vendute come fossero aree e case preziosissime. I poveretti che ci cascano avranno delle orribili sorprese perché in questa città, in questa Milano che un tempo era la capitale morale d’Italia, si fanno piani urbanistici come quello imbellettato di Rogoredo chiamato Santa Giulia con sotto i piedi arsenico e altri veleni. Si vanno a vendere case di pregio a caro prezzo in luoghi insalubri dove viverci significa avere il rischio di poter contrarre il cancro, per esempio, questa è la storia di Santa Giulia.
Chi sono i protagonisti di questa storia? Un immobiliarista che era riuscito a farla franca ai tempi dei furbetti del quartierino e che si chiama Zunino, che acquista l’area, riesce a farci su questo suo mirabolante progetto meraviglioso di quartiere modello Santa Giulia, dà all’amico Giuseppe Grossi l’incarico di bonificare il terreno, in realtà la bonifica non viene fatta, viene fatta malissimo, vengono lasciati veleni, se non portati addirittura da fuori, veleni inquinantissimi, dall’arsenico in giù e con l’ombra anche che coinvolto nel movimento terra, come succede sempre dove c’è movimento terra nell’area milanese, ci siano anche gli uomini della ‘ndrangheta. Perché sono loro gli specialisti del movimento terra, sono loro i monopolisti del movimento terra, dove c’è da spostare terra ci sono le famiglie, i camion dell’‘ndrangheta e dentro i camion dell’ ‘ndrangheta spesso insieme alla terra buona c’è la terra cattiva, i veleni.
uesta è la storia di Santa Giulia in una città che ormai è spappolata, in una città come Milano in cui fin dentro il palazzo del governo municipale, fin dentro il Municipio, fin dentro il luogo da dove Letizia Moratti credeva di poter governare la città, c’è corruzione, malaffare, persone che si mettono d’accordo per dare le licenze ai night anche in cambio di tangenti, tangenti prese all’uscita del palazzo municipale poco distante, è una città che ha perso la sua anima, che ha perso la sua capacità di fare buona amministrazione, una città profondamente corrotta e in cui ormai si fa fatica anche a indignarsi e si va avanti tranquilli anche sapendo che sotto i piedi di un quartiere venduto a caro prezzo, ci sono veleni, veleni mortali.
Formalmente sulla carta ci sono regole rigorosissime per lo smaltimento dei veleni o anche dei normali materiali inquinanti, gli oli, le pile, i medicinali, questo sulla carta, nella realtà i controlli si possono aggirare, chi fa le cose in piccolo è costretto a seguire i controlli e a fare gran fatica anche solo per buttare via un vecchio televisore, chi invece fa le cose in grande e porta veleni mortali, può farlo tranquillamente, aggirando i controlli, pagando tangenti, dando incarichi agli uomini dell’‘ndrangheta i quali fanno buoni prezzi per forza, perché non smaltiscono secondo le regole e senza che nessuno abbia la possibilità di intervenire.

Gianni Barbacetto

STATO E MAFIA UNA "COSA SOLA". L'AGENTE NINO AGOSTINO ATTENDE GIUSTIZIA DA 21 ANNI

PROVOCATORIAMENTE, nel 2006 il padre dell’agente ucciso 21 anni fà denunciava agli “Stati generali dell’Antimafia”: “Sono pronto a tutto, e se lo Stato continua a non darmi risposte, sono disposto persino a chiedere aiuto alla mafia purchè sia fatta luce sull’uccisione di mio figlio Nino”.  Così si esprimeva Vincenzo Agostino padre del poliziotto ucciso insieme alla moglie, Ida Castellucci (incinta di 5 mesi) a Villagrazia di Carini, Palermo, lanciando il suo disperato appello.  Pare che nell’uccisione dell’agente e della moglie siano coinvolti come al solito i “servizi segreti” e che sia da collegarsi al noto episodio del rinvenimento di un ordigno esplosivo nell’estate del 1989 presso la villa estiva all’Addaura del giudice Falcone, come risulterebbe da due memoriali consegnati dai familiari dell’Agostino e di un altro agente ucciso al Gip per riaprire le indagini.  Sembra che seppure ufficialmente l’Agostino risultasse solo un agente del commissariato San Lorenzo, addetto alle volanti, in realtà avrebbe svolto missioni antimafia delicate, e soprattutto coperte. “Mi confidò che collaborava con i servizi segreti per la cattura di Provenzano”, ha svelato ai magistrati un collega di Agostino. Ma i servizi segreti hanno sempre negato, frapponendo infine anni fa, di fronte all’ennesima richiesta dei pm, il segreto di stato. Dall’agosto di 21 anni la famiglia di Nino attende ancora di sapere chi siano i mandanti e gli esecutori di quell’omicidio per il quale non ha pagato ancora nessuno.  La madre non ha ancora tolto il lutto, mentre il padre dal quel tragico 5 di agosto del 1989 non ha più tagliato barba e capelli che sono cresciuti lunghi e canuti sulle sue spalle tanto da renderlo ormai un’icona dei familiari delle vittime della mafia, giurando di farli crescere fino a che non saprà perchè hanno ammazzato suo figlio Nino.
A tutt’oggi, sull’omicidio grava ancora il peso del segreto di Stato, un osceno sigillo applicato a storie di sicuro interesse pubblico. Cerchiamo la verità su Cogne e  Garlasco, ha sottolineato Sonia Alfano, e non sul barbaro assassinio di un servitore dello Stato?  D’altronde, osserviamo noi, la verità non è di questo Paese in cui da oltre 50 anni a questa parte pur cambiando i governi (destra o sinistra nulla è mai cambiato) resta governato da amici di mafiosi dove è difficile distinguere i contorni tra Stato e antistato.  Nel 2006, quando il padre di Agostino lanciò la sua provocazione a Roma agli “Stati generali dell’Antimafia”, Presidente del Consiglio era Romano Prodi, vicino alla Loggia di San Marino e Ministro della Giustizia il faccendiere Clemente Mastella, esponente della camorra e nulla è stato fatto. Ora che capo del governo è l’esponente di una’altra nota loggia massonica (la P2),  che ha fondato il suo partito-azienda con Dell’Ultri, non si vede quali speranze possano sensatamente nutrire i familiari delle vittime di mafia, in un regime dove le logge, le corporazioni e i partiti sono una “cosa sola” con lo Stato.

La Scheda: La storia dell’ agente di polizia, Nino Agostino, ucciso il 5 agosto del 1989 a Villagrazia di Carini, insieme alla moglie Ida Castellucci, in cinta di cinque mesi di una bambina, è certamente una delle più drammatiche ed oscure vicende della storia di un’ Italia retta, allora come adesso, da poteri deviati e da un’ antistato che troppo spesso diviene Stato.
Sulla morte di Nino Agostino non è ancora stata fatta luce ed i suoi assassini, insieme ai mandanti, sono a tutt’oggi uomini liberi esattamente come qualsiasi altro onesto padre di famiglia. Sul fascicolo relativo alle indagini sul suo assassinio è stato apposto quello che non esitiamo a definire “il sigillo della vergogna” ovvero il Segreto di Stato.
Nino e Ida, quel giorno, si trovavano davanti alla villa di famiglia per partecipare al compleanno della sorella di Nino. Furono trivellati di colpi da due sicari in motocicletta sotto gli occhi dei genitori Vincenzo ed Augusta.
Suo padre, Vincenzo Agostino, un anziano uomo che ha percorso qualsiasi strada pur di ottenere giustizia da quello Stato per il quale suo figlio Nino ha consapevolmente sacrificato la vita, ha promesso di non tagliare più la propria barba bianca fino a che non otterrà quello che gli spetta; giustizia per suo figlio, per la sua famiglia, per la nuora Ida e per sua nipote mai nata.
Di recente, nel registro degli indagati in merito all’inchiesta sulla morte di Nino Agostino e della moglie Ida Castellucci, è stato iscritto Guido Paolilli, poliziotto in pensione, indagato per favoreggiamento aggravato e continuato a Cosa Nostra. Il collega e amico di Nino Agostino, che svolse le indagini immediatamente dopo la sua morte, fornì una pista che conduceva ad un “delitto passionale”. In Sicilia questa è quasi una tradizione che se non fosse perchè si tratta di omicidi verrebbe a buon diritto inserita negli alamnacchi di storia e cultura popolare; prima li ammazzano e poi li fanno passare per pazzi o puttanieri.
L’ iscrizione nel registro degli indagati è scattata in seguito ad una conversazione intercettata a marzo nella sua casa di Montesilvano a Pescara. Paolilli ed ill figlio stavano ascoltando, su RAI UNO, Vincenzo Agostino, padre dell’ agente, che in quel frangente citava le parole scritte su un biglietto trovato nel portafogli di Nino: “Se mi succede qualcosa andate a cercare nell’armadio di casa”. Il figlio di Paolilli, chiedendo al padre quale fosse il contenuto dell’armadio, si sentì rispondere: “Una freca di carte che ho distrutto”. Sul conto di Paolilli anche Vincenzo Agostino ha rivelato elementi interessanti: “un giorno Guido Paolilli, che era amico di mio figlio, insistette per venire con noi al cimitero. Incalzato dalle nostre domande sulle indagini, disse che la scoperta della verità non avrebbe fatto piacere. Disse pure che avrebbe fatto il possibile per mostrarci sei fogli”.
I sei fogli non sono mai stati mostrati alla famiglia Agostino ne ve ne è più traccia.
Paolilli ha dichiarato che i sei fogli vennero sequestrati durante la terza perquisizione nell’appartamento di Nino Agostino. Negli atti della Squadra Mobile risultano però solo due perquisizioni. Un’ altra incongruenza di non poco conto nelle dichiarazioni di Paolilli è quella relativa alle mansioni svolte. Paolilli ha dichiarato di svolgere servizio presso il nucleo scorte ma diversi suoi colleghi hanno asserito, smentendolo, che l’indagato svolgeva attività antimafia.
Paolilli era persona di fiducia di Bruno Contrada ed ha testimoniato a sua difesa nel processo a suo carico. Si riferiva proprio a Paolilli l’agente Agostino quando disse ad un collega: “Sto collaborando con un amico per la cattura di latitanti?”.
Ad oggi esiste un solo pentito che ha raccontato di questo omicidio, Oreste Pagano, il quale ha affermato: “Ero al matrimonio di Nicola Rizzuto, in Canada. C’era un rappresentante dei clan palermitani, Gaetano Scotto. Alfonso Caruana mi disse che aveva ucciso un poliziotto perché aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura. Anche la moglie sapeva, per questo morì”.
I servizi segreti italiani hanno sempre negato che l’agente Agostino abbia svolto servizio presso il SISMI ma la recente riapertura delle indagini sarebbe giustificata dal ritrovamento di nuovi documenti nell’archivio della Squadra Mobile che attesterebbero l’attività di antimafia del poliziotto tra le fila dei servizi segreti. Inoltre, una nota riservata del 1993, a firma del capo del centro di controspionaggio di Palermo alla prima divisione Sismi di Roma, testimonia il grande interesse dei servizi nei confronti dell’ operato dei giudici inquirenti sulla morte del poliziotto: “Centro controspionaggio di Palermo. Riservato. Oggetto: riapre l’indagine sul delitto Agostino. Data 5 marzo 1993. Secondo quanto è stato possibile apprendere il gip titolare dell’inchiesta sarebbe in possesso di due memoriali consegnati dai familiari dell’Agostino e del Piazza che avrebbero indotto il magistrato a riaprire i due casi, unificandoli. Nei memoriali di cui sopra, acquisiti dal gip, pare che siano contenute affermazioni di una certa gravità in merito al noto episodio del rinvenimento di un ordigno esplosivo nell’estate del 1989 presso la villa all’Addaura del dottor Falcone”. http://www.familiarivittimedimafia.com/index.php?option=com_content&view=article&id=897:nino-agostino&catid=104:sto&Itemid=278

A distanza di 35 anni l’omicidio di Pierpaolo Pasolini è ancora avvolto dal mistero.

Il caso dello scomodo intellettuale bolognese è stato nuovamente iscritto a ruolo per ulteriori indagini dalla Procura di Roma (Pm Di Martino e Minisci) dopo un esposto dell’Avv. Stefano Maccioni e della criminologa Simona Ruffini che hanno compiuto investigazioni private e ascoltato testimoni, tra cui Silvio Parrello il quale ha raccontato che uno degli autori dell’aggressione omicida che costò la vita a Pasolini potrebbe essere un certo Antonio Pinna, poi misteriosamente scomparso. La vettura del signor Pinna fu ritrovata a Fiumicino (Roma) il 16 febbraio del 1976. Il Pinna, facoltoso pregiudicato, che conosceva Pasolini da molti anni, nell’immediatezza della morte dell’intellettuale avrebbe portato ad un carrozziere una Alfa Romeo simile a quella di proprietà di Pasolini per farla riparare: l’auto era ammaccata e sporca di fango. Il carrozziere pensando che l’auto fosse in quello stato per una ragione legata alla morte di Pasolini aveva rifiutato di ripararla; tanto che il Pinna aveva dovuto portarla ad un altro carrozziere. Le dichiarazioni del testimone confermerebbero la tesi secondo la quale ad uccidere Pasolini sarebbero state più persone e non il solo Pino Pelosi che fu come noto condannato in via definitiva per omicidio compiuto dopo un incontro con lo scrittore.

Vi sarebbero conferme in tal senso raccolte all’Idroscalo di Ostia da Sergio Citti che ha girato un video conservato a Bologna alla Cineteca (Archivio Pasolini).

La presenza di altre persone è confermata dallo stesso Pelosi nella sua ritrattazione mandata in onda dalla trasmissione televisiva “Ombre sul Giallo” di Franca Leosini, ove ha riferito di essere stato aggredito da tre persone che parlavano con accento siciliano che lo avrebbero picchiato e quindi avrebbero massacrato Pasolini, aprendo quindi nuovi scenari politico-mafiosi sulle cause dell’efferato delitto. Il racconto di Pelosi, pur con tutte le riserve del caso, ha alcuni spunti importanti. Pelosi potrebbe averle inventate, ma riferisce due parole che appartengono al gergo stretto catanese: “fitusu” e “iarrusu”: quest’ultima parola è un termine fortemente dispregiativo col quale a Catania si indica un omosessuale che si prostituisce. Ma inoltre, Pelosi ha fatto il nome di un avvocato legato all’estrema destra.

La perizia psichiatrica di parte viene affidata ad Aldo Semerari, psichiatra e criminologo fondatore dei Nar, poi ucciso e decapitato. Semerari dichiara Pelosi incapace di intendere, ma la sua perizia viene respinta dal giudice Moro che condanna Pelosi e indica in sentenza la presenza di altri soggetti sul luogo del delitto.

Fatti inquietanti che inducono molti a ritenere che la morte di Pasolini possa trarre origine dalla sua curiosità di intellettuale privo di collari scomodo al potere.  

”Pasolini aveva paura e qualche mese prima di morire fece cambiare il numero di telefono di casa perché riceveva minacce”. Lo ricorda Ines Pellegrini, una delle sue attrici preferite che il regista volle nel suo film ‘Le Mille e una notte’. Ines, eritrea, era tra le persone vicine a Pasolini: ”Mi voleva bene, diceva che lo ispiravo”. Il regista era stato colpito dal suo volto guardando una sua fotografia e la volle nel film nella parte di Zummurud senza che avesse avuto  nessuna  esperienza nel cinema. Era il 1974. ”Provavo da diversi giorni a chiamarlo, ma non era più possibile prendere la linea. Avevo cominciato a preoccuparmi. Poi mi chiamò Pier Paolo e mi disse che aveva cambiato il numero: ‘Mi arrivano telefonate di minaccia, io sono pronto… se mi vogliono colpire. Ma l’importante è che non parlino con mia madre’. E aggiunse: ”Ti dò il nuovo numero: qui mi possono rintracciare solo gli amici”. Ines Pellegrini vive ora a Los Angeles e si occupa degli homeless della città, gira di notte portando cibo ai diseredati insieme alle Sorelle di Calcutta, alternandolo al suo lavoro in una boutique alla moda. ”Ho sentito che si riapre il capitolo sulla morte di Pasolini e ho deciso di raccontare quello che lui mi disse allora”, racconta. ”Ripeto: aveva paura e io non riuscivo a capire il perché e a chi si riferiva, oggi forse quelle parole hanno un senso più chiaro”.

“Ho confermato di aver visto un manoscritto che mi è stato detto essere il capitolo mancante dell’opera pubblicata postuma ‘Petrolio’ di Pier Paolo Pasolini”. Così il senatore Marcello Dell’Utri sentito per circa trenta minuti in Procura nell’ambito dell’inchiesta sulla morte dello scrittore Pier Paolo Pasolini avvenuta all’Idroscalo di Ostia nel 1975. Un’audizione disposta dopo le dichiarazioni del politico che in alcune interviste disse di aver letto un dattiloscritto di 78 pagine riconducibile al capitolo scomparso di “Petrolio”, il romanzo-inchiesta su cui stava lavorando lo scrittore prima della morte e pubblicato postumo dello scrittore nel 1992. Nel documento in questione si parlerebbe dell’Eni, di Enrico Mattei, di Eugenio Cefis. “Era un volume di circa 70 pagine dattiloscritte su fogli di carta velina – ha detto Dell’Utri lasciando gli uffici di piazzale Clodio – Il titolo era ‘Lampi su Eni’, l’ho sfogliato rapidamente e ho notato che aveva delle correzioni e note fatte a mano. Mi fu fatto vedere da una persona che non mi disse il suo nome e che incontrai all’inaugurazione della mostra su Curzio Malaparte a Milano. Voleva vendermi il dattiloscritto e gli chiesi quale fosse il prezzo, ma lui mi disse che si sarebbe rifatto vivo e gli diedi il mio numero di telefono, ma non mi ha mai chiamato. Questa persona mi mostrò anche una copia del libro ‘Questo è Cefis’ del 1972 che fu fatto ritirare dal mercato proprio dallo stesso Cefis. Mi disse che l’ultimo capitolo di ‘Petrolio’ contiene molto di più di quello che c’è in questo libro. Il volume su Cefis, che ho letto, narra di cose inquietanti e non è possibile trovarlo sul mercato”.

C’è poi la verità scomoda del regista Sergio Citti che il 2 novembre del 1975 filmò la scena del crimine all’idroscalo di  Ostia, rivelando le incongruenze delle dichiarazioni di Pino Pelosi, e la testimonianza di un ex ragazzo di vita Silvio Parrello, già resa a ‘Chi l’ha visto?’, che con un’indagine personale avrebbe individuato i nomi di “ignoti”, il carrozziere che ripulì e riparò la “seconda macchina” che materialmente uccise lo scrittore, e la persona che quella notte gliela portò. Da questi elementi parte la riapertura delle indagini sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini illustrata alla Casa del Cinema da Guido Calvi incaricato dal Comune di Roma che nel 2005 (a trent’anni dalla morte) si costituì parte civile nella causa.

“Siamo davanti ad un magistrato che sta accertando con un nuovo atto giudiziario possibili ignoti e possibili mandanti – dice Calvi – compiendo finalmente passi in avanti. Ringrazio il Comune di Roma nell’affidarmi l’incarico di riaprire l’istruttoria e trovare la verità. Ringrazio Martone che mi ha consentito di avere un atto giudiziario, l’intervista a Sergio Citti perché ci dicesse quello che sapeva e mostrasse il suo filmato per consentire al giudice di vedere uno scenario sconosciuto. Ho depositato l’atto qualche giorno fa. Questo Stato ha un grande debito nei confronti dell’indagine – continua Calvi – La morte di Pasolini fu chiusa subito dopo l’arresto di Pelosi, e non fu fatto più nulla con la cancellazione di elementi fondamentali. Era evidente che Pelosi non diceva il vero. Basta vedere il filmato di Pelosi che entra in carcere senza una macchia di sangue quando il corpo di Pasolini era devastato. Sul luogo del delitto la più  elementare delle indagini prevede di circoscrivere l’area quando invece  fu consentito a tutti di entrare e disperdere le tracce di una seconda macchina che portava altri protagonisti. L’autovettura di Pasolini tenuta per giorni e giorni nel parcheggio della polizia sotto la pioggia (era novembre). Voglio ricordare che già il giudice del Tribunale dei Minori Carlo Alfredo Moro, fratello di Aldo Moro, presidente di Cassazione che condusse l’indagine, arrivò ad una sentenza di condanna di Pelosi per omicidio volontario in concorso con ignoti. In Italia è stata coperta con velo di omertà questa morte. Noi abbiamo  continuato per merito del Comune di Roma, perché le verità emergessero. Abbiamo fatto riaprire per due volte il caso ma con indagini sommarie. Stavolta qualche speranza in più la nutro. Primo mi sembra che questo giovane magistrato la stia conducendo con scrupolo… Il mio convincimento è che qualcuno voleva che quella voce non parlasse più, una voce che non doveva essere più ascoltata o letta.

Scheda: Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Ostia 2 novembre 1975) è una delle più significative personalità del panorama culturale del Novecento. Fu poeta (in dialetto e in italiano), romanziere, critico letterario, saggista, drammaturgo, sceneggiatore e regista, sempre attento ad una “continua ridefinizione del rapporto tra la vita personale, le scelte culturali, l’orizzonte storico, politico e sociale. Per Pasolini, la cultura è in ogni momento presenza nel mondo, intervento nell’attualità, modo per affermare esigenze imprescindibili, di valore universale, che riguardano la realtà nella sua interezza” (G. Ferroni). La cifra della sua produzione è forse nella ricerca di una purezza, di una semplicità di matrice contadina, non intaccata quanto ai suoi valori cardine e al suo spirito dal Fascismo, bensì uccisa dal consumismo  capitalistico in cui si muove la classe borghese. “Per la sua esperienza di omosessuale, egli vive il rapporto con la realtà sotto il segno dell’impurità e dello scandalo”.

Pasolini fu ucciso nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 in un campetto sterrato nella zona dell’idroscalo di Ostia. Il cadavere fu trovato la mattina del 2 novembre, sfigurato dai colpi e da un’auto che gli passò sopra. Il regista fu colpito più volte alla testa e poi investito da una macchina. Vicino furono trovati attrezzi usati per il pestaggio: un paletto e una tavoletta nera macchiati di sangue. Per la morte dello scrittore fu condannato Pino Pelosi, detto “Pino la rana”, un ‘ragazzo di vita’ all’epoca  diciassettenne, che fu fermato a bordo dell’Alfa Romeo 2000 Gt di Pasolini. In primo grado Pelosi fu condannato a nove anni di reclusione con una sentenza che ipotizzò la presenza di altre persone sulla scena del delitto; in secondo grado la condanna venne inflitta per omicidio senza concorso di altri.

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 A cura dello staff di Avvocati senza Frontiere.———————————————————–
Continua il viaggio nei tribunali più corrotti d’Italia. Vi ricordate il caso eclatante del Tribunale di Treviso? Quello da noi denunciato lo scorso numero a proposito della mafia delle aste giudiziarie? – N.d.R. Per chi non se lo ricordasse o non l’abbia letto:
http://www.lavocedirobinhood.it/Articolo.asp?id=142&titolo=VIAGGIO%20TRA%20I%20TRIBUNALI%20PIU’%20CORROTTI%20D’ITALIA.%20TREVISO Ebbene, nelle scorse settimane, nell’assoluta inerzia delle Procure via via adite per competenza territoriale, ex art. 11 c.p.p., da Trento, Trieste, Bologna, Ancona (oltre a Prefettura di Treviso, Ministero dell’Interno, C.S.M. e D.I.A.), l’anziana pensionata M.C., vittima di una preordinata azione estorsiva ed usuraria da parte della Banca di Credito Cooperativo Alta Marca e di un gruppo di speculatori locali, ben introdotti negli ambienti giudiziari trevigiani, è stata spogliata della sua abitazione con il “sigillo della legge” e parrebbe la mediazione dello stesso neo-Presidente del Tribunale, dott. Giovanni Schiavon e di strani personaggi che sembra abbiano indotto l’anziana vittima lasciata sola dallo Stato a rinunciare ad ogni tutela giurisdizionale.
A fronte di un modesto prestito per ristrutturare l’immobile, interamente restituito, la Banca chiede ed ottiene l’illegittima vendita all’asta che viene disposta in favore di un Consulente d’Ufficio del medesimo Tribunale di Treviso (tale Ing. Gottardo Visentin), in qualità di legale rappresentante di una società immobiliare: la Visefin di Visentin G. e C. s.a.s. che si aggiudica l’immobile in asta deserta e a quotazione del tutto vile: soli € 123.000 per un complesso abitativo di 525 mq. ristrutturati, oltre ad un terreno edificabile di mq. 1100, del complessivo valore di almeno € 600.000.
La vicenda che nessun quotidiano italiano ha pubblicato appare veramente sorprendente e ai limiti del reale. Della vittima del racket delle vendite giudiziarie si è persa ogni traccia. Si sa solo che il giorno prima del rilascio con la forza pubblica, vi è una strana riunione nella stanza del Presidente del Tribunale, Giovanni Schiavon, in cui M.C. (tramite l’intervento di un ex vice-sindaco di un paese limitrofo, tale I.B., che afferma di essere in buoni rapporti con il neo-Presidente del Tribunale), viene convinta ad abbandonare ogni denuncia ed opposizione esecutiva intrapresa, rinunciando ad ottenere giustizia alla luce del sole. Fatto molto strano ed inquietante se si considera che avviene nella stanza di Presidenza del Tribunale di Treviso e non nel retro di un bar della locride o del mercato del pesce di Mazara del Vallo.
L’informale incontro avviene a porte chiuse e non vi partecipa alcun difensore, che non viene informato del contenuto degli anomali accordi neppure nei giorni successivi, di cui però pare siano informati tutti i giudici denunciati, assegnatari dei procedimenti. Quello che è certo che ad M.C. viene richiesto di tagliare i ponti con Avvocati senza Frontiere che l’ha assistita per oltre due anni e mezzo gratuitamente e di rilasciare una procura notarile in bianco in favore di I.B., che avvocato non è, il quale millanta però di essere in grado di risolvere le cose per “altre vie“, senza ricorrere alla denuncia dei giudici, da lui ritenute inopportune.
Ciò, nonostante, la VIII Commissione Referente del C.S.M., prendendo atto della illegittimità delle decisioni sin qui assunte dal Tribunale di Treviso, avesse già aperto più procedimenti disciplinari a carico dei giudici della sezione esecuzioni immobiliari [in particolare dei Got Grecu e Cafiero, ai sensi dell’art. 42 sexies II c. lett. c) e III c. dell’Ordinamento Giudiziario], i quali si ricorda, nonostante la pendenza dei giudizi di merito sulle molteplici opposizioni, tuttora sub iudice, disponevano contro ogni previsione di legge che l’esecuzione nei confronti di M.C., vittima dell’usura, potesse avere luogo, addirittura, al primo accesso dell’Ufficiale Giudiziario, coadiuvato dal fabbro e dalla forza pubblica … !
Del tutto singolarmente, in tale fantagiuridico contesto, ignorando tali autorevoli provvedimenti del C.S.M., nessuno dei giudici ricusati e indagati anche in sede penale, provvedeva ad astenersi dal giudicare la causa, dando atto del palese conflitto di interessi e motivi di incompatibilità. Anzi, insieme al Presidente del Tribunale Giovanni Schiavon, che li invitava espressamente a non astenersi, alcuni giudici ricusati della sezione esecuzioni immobiliari, provvedevano a denunciare alla Procura di Trento e al Consiglio dell’Ordine Avvocati di Treviso sia il difensore aderente alla rete di Avvocati senza Frontiere sia il Presidente dell’Associazione.
Le Autorità competenti, tra cui la stessa Prefettura, non solo restavano del tutto inerti, lasciando la vittima dell’usura e della malagiustizia alla mercede della speculazione affaristico-giudiziaria, ma ponevano in essere una serie di comportamenti apertamente faziosi e illegittimi.
Il Procuratore Capo di Trento, Dr. Stefano Dragone incriminava sia il difensore di M.C. sia il Presidente di Avvocati senza Frontiere con l’infamante e pretestuosa accusa di “diffamazione aggravata” e dell’ancor più grave e infondata ulteriore accusa di aver addirittura concorso nel reato di “calunnia”, nei confronti dei magistrati di Treviso Schiavon, Casciarri e altri, in relazione al contenuto processuale di taluni atti difensivi e denunce ad istanza della propria assistita e dell’Associazione intervenuta. Ciò, senza tenere conto che il Procuratore Capo di Trento, Dr. Dragone, risultava già essere oggetto di denuncia da parte di M.C. e di Avvocati senza Frontiere per avere concorso con il P.M. Dr. Giuseppe Di Benedetto all’affossamento delle indagini dei pregressi connessi procedimenti a carico dei magistrati di Treviso, nei cui confronti stanno ora indagando le Procure di Trieste, Bologna e Ancona.
La Prefettura di Treviso, invece, dopo svariate settimane dal rilascio dell’immobile, giungeva a restituire laconicamente l’istanza di sospensione dell’esecuzione con la richiesta proroga di gg. 300, invocata ai sensi della Legge antiusura, affermando inveritieramente che l’originale non sarebbe stato firmato dall’interessata.
Il Consiglio dell’Ordine Avvocati di Treviso da parte sua in pendenza dei procedimenti penali deliberava illegittimamente l’apertura di due procedimenti disciplinari, sollecitati dallo stesso Presidente del Tribunale di Treviso, Schiavon e da altri magistrati indagati. A riguardo, si evidenzia la natura strumentale dei provvedimenti del Consiglio dell’Ordine Avvocati, in palese contrasto con le proprie funzioni istituzionali, volti con tutta evidenza a paralizzare l’attività defensionale del legale di Avvocati senza Frontiere, stante che per consolidata giurisprudenza della Suprema Corte di legittimità, qualora l’addebito disciplinare abbia ad oggetto i medesimi fatti contestati in sede penale, si impone ai sensi dell’art. 295 c.p.c. la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza di quello penale, atteso che dalla definizione di quest’ultimo può dipendere la decisione del procedimento disciplinare.

Il nuovo G.E. Dr. Antonello Fabbro, nominato dallo stesso Presidente Schiavon, in sostituzione dei giudici indagati Donà, Valle, Casciarri,  Bigi, Fratamico (queste due ultime repentinamente dimissionarie dalla magistratura), continuando a fare quadrato in difesa dei propri colleghi indagati che lo avevano preceduto, negava qualsiasi provvedimento inibitorio di sospensione della procedura esecutiva, giungendo financo ad omettere di disporre Consulenza Tecnica Contabile d’Ufficio, onde accertare ex art. 512 c.p.c., in sede di opposizione alla distribuzione del ricavato, l’esatta consistenza  delle somme indebitamente pretese dalla Banca di Credito Cooperativo Alta Marca, ovvero se le stesse siano gravate ta tassi usurari e/o anatocistici.     
In conclusione, appare veramente sorprendente che nessuno indaghi nei confronti dei giudici di Treviso e che l’abitazione di una vittima dell’usura possa essere stata messa all’asta a valore di pura ricettazione e con procedure manifestamente fraudolente, avvallate dal Tribunale, senza che nessuna Autorità dello Stato e Procura adita abbiano allo stato provveduto ad esercitare l’azione penale nei confronti dei magistrati denunciati e del Presidente Giovanni Schiavon.
Storia veramente singolare se si considera che in un’intervista al quotidiano “Il Giornale” di qualche anno fa, Giovanni Schiavon afferma che i suoi guai sarebbero cominciati “quando era a capo degli 007” del Ministero di Giustizia, indagando anche sul giudice Baccarini, che si accaparrò il fallimento della Immobiliare Europa, che aveva acquistato il patrimonio immobiliare della vecchia D.C. – “Ho visto cose incredibili“, afferma Giovanni Schiavon, dopo essere stato incaricato dall’ex Ministro Castelli di approfondire segnalazioni ed esposti sulle gravissime anomalie all’interno della sezione fallimentare del Tribunale di Roma (n.d.r.: quella del Giudice Paolo Adinolfi sparito nel nulla mentre indagava sui fallimenti pilotati). “Iniziai a lavorare e mi imbattei presto in una gestione domestica, direi allegra, delle procedure fallimentari. Vennero a galla situazione gravi, fallimenti pilotati, ho visto cose incredibili. Ci nascondevano le carte; (i giudici) non collaboravano con noi, fui costretto a protestare col Presidente del tribunale Scotti e venne fuori di tutto“.

E’ stato un fallimento pilotato non ci sono dubbi. Si sono calpestate regole e procedure. Mai visto niente del genere“, conclude lapidario Schiavon (n.d.r.: dimenticando i panni ssporchi del Tribunale di Treviso!) che poi lamenta di essere caduto in disgrazia e sostituito alla guida della <task force> degli Ispettori ministeriali che dovrebbero indagare  sulla corruzione dei magistrati,  da Arcibaldo Miller, l’ex P.M. napoletano che ha condotto l’istruttoria disciplinare sui P.M. Gherardo Colombo e Ilda Bocassini nata da una denuncia di Cesare Previti.
Storia, dunque, veramente molto strana quella di Giovanni Schiavon che dopo oltre 10 anni di assenza dalla sua città ritorna al Tribunale di Treviso, da Presidente, senza nulla accorgersi di quanto avviene sotto i suoi occhi, che non è certo meno grave di quanto afferma avere lui stesso constatato e denunciato al Tribunale di Roma.
Singolare coincidenza vuole che prima di andarsene da Treviso nel 1997 l’ex 007, venne già denunciato dal Movimento per la Giustizia Robin Hood e sottoposto a procedimento disciplinare dal C.S.M., in relazione alla sua attività di Presidente della sezione fallimentare e al Fallimento pilotato del Mobilificio F.lli Bernardi s.n.c., il cui ingente patrimonio immobiliare venne svenduto illegalmente all’asta dai medesimi giudici del caso in esame dell’anziana M.C., per favorire un’altra società immobiliare, la Basso Costruzioni s.r.l., vicina alla Cassa di Risparmio di Venezia S.p.A. e alla giunta municipale del ricco Comune di Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso.

Altra singolare coincidenza vuole anche poi che tale pregresso procedimento penale a carico dei giudici di Treviso sia stato insabbiato dal 2005 proprio dalla Procura presso il Tribunale di Trento, che ora pretestuosamente procede per “diffamazione aggravata” e “calunnia” nei confronti di chi ha avuto il coraggio civile di difendere in giudizio le vittime del racket dei fallimenti e delle aste giudiziarie. 

Ieri come oggi la storia si ripete. Il lupo perde il pelo ma non il vizio.
In tale contesto, se le istituzioni continueranno a restare latitanti e a prendersela con i più deboli e di coloro che stanno dalla parte della Giustizia, è lecito supporre che chi opera nell’oscuro e torbido mondo delle aste giudiziarie, come il Ctu del Tribunale di Treviso, Ing. Gottardo Visentin e i giudici che lo hanno favorito, sia munito di una vera e propria “procura a delinquere“, rilasciata in bianco dalla magistratura e dallo Stato Italiano. http://www.lavocedirobinhood.it/Articolo.asp?id=168

ECOMAFIE E RETI DELL'ILLEGALITÀ ISTITUZIONALIZZATA

GLI OSCURI INTERESSI DEL TRIBUNALE DI MILANO

 ULTRAOTTANTENNE INVALIDO SFRATTATO CON VIOLENZA E MINACCIA DALLA CASA POPOLARE DOVE AVEVA VISSUTO OLTRE 35 ANNI. NON PAGAVA IL PIZZO ALL’ALER E AI PARTITI CHE AMMINISTRANO IL PATRIMONIO PUBBLICO IMMOBILIARE, CONTROLLANDO LA MAGISTRATURA E IL GRANDE BUSINESS DELLA GIUSTIZIA. E’ accaduto a Milano, in pieno inverno, lo scorso 27 gennaio 09, nell’assoluto silenzio dei media, occupati a parlare in termini astratti della crisi economica mondiale e dei massimi sistemi, senza essere  in  grado di affrontare i casi concreti e di individuare le cause profonde della bancarotta delle moderne democrazie partitocratiche, insite nel sistema di malaffare politico, economico e giudiziario che mina in radice le regole della democrazia e i diritti dei cittadini. Non dovrebbe infatti accadere nè tantomeno venire tollerato in un paese civile, fondato sul diritto, che un Tribunale come quello di Milano, disponga l’impiego della forza pubblica per allontanare coattivamente dalla sua abitazione una persona anziana e malata in stato di bisogno.Si è parlato a ragion veduta della casa come paradigma della crisi economica.

Ma nessuno ha avuto il coraggio di denunciare che all’origine vi è la corsa sfrenata alla speculazione edilizia, il saccheggio del patrimonio pubblico  immobiliare da parte delle lobby di mercanti e il mancato contenimento dei valori immobiliari, che ha generato un progressivo degrado dell’economia, falsando il mercato. Di seguito pubblichiamo il comunicato del gennaio scorso a cui nessun media ha dato voce, in cui si denunciava uno dei tanti casi emblematici che ben spiegano i termini  della crisi e delle ragioni per cui non ci sarà ripresa sino a quando la legge non sarà veramente uguale per tutti e i tribunali cesseranno una volta per tutte di giudicare in nome della speculazione edilizia.    

Comunicato stampa 27.1.09.

Avvocati senza Frontiere denuncia che mentre stiamo mettendo in rete il comunicato è in corso l’illegittima esecuzione di sfratto di un anziano, malato di cuore, conduttore di un alloggio popolare che da oltre 35 anni rivendica il diritto di riscatto della propria abitazione.
Dopo il caso della famiglia sfrattata per la ridicola somma di € 20 di morosità, dall’ex Presidente di Banca Popolare Milano Roberto Mazzotta, pubblicata sul sito www.avvocatisenzafrontiere.it (nella pagine web della mappa della magiustizia), altra vicenda destinata a fare discutere e suscitare iinquietanti nterrogativi sulle oscure collusioni e interessi che muovono i magistrati del Tribunale di Milano, ovvero sul livello di civiltà giuridica della società è sicuramente quello del Prof. Bruna Fiorentino, assegnatario dal 1973 di un alloggio popolare nelle case ex Gescal di Via Lucca 41, a Milano, da cui sta venendo allontanato con la forza pubblica, senza disporre di altra abitazione e mezzi economici.
Ciò, seppure sia tuttora in corso la causa di merito e il titolo esecutivo azionato sia costituito da una mera ordinanza provvisoria di rilascio, che ben potrà venire revocata con la sentenza definitiva, emessa dal Giudice, Dr. Manunta, Presidente della XIII sezione civile del Tribunale di Milano, che si occupa esclusivamente di locazioni, il quale è già stato denunciato alla Procura di Brescia e al C.S.M. per favoreggiamento dell’Aler, avendo con detto abnorme provvedimento di fatto già anticipato il giudizio, precludendo qualsiasi difesa del conduttore.
Una vera e propria deportazione coattiva per fare spazio alla logiche della speculazione, coltivate dall’Aler s.p.a. e dalla magistratura milanese, di cui Avvocati senza Frontiere denuncia da annni la vasta corruzione ambientale.
L’abnormità dell’esecuzione del provvedimento di rilascio deriva dal fatto che il  Prof. Bruna Fiorentino si è infatti tempestivamente opposto allo sfratto, contestando il diritto dell’Aler di fissare unilateralmente i canoni di locazione, in spregio alle pattuizioni sottoscritte dalle parti nei contratti di locazione e nei bandi di assegnazione che prevedevano tra l’altro il diritto di riscatto.
Una questione che si trascina da oltre 35 ANNI, senza trovare soluzione nelle aule di giustizia e per cui Avvocati senza Frontiere è in procinto di adire la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo, denuciando alcune centinaia di casi analoghi di assegnatari a rischio sfratto.
Il caso del Prof. Bruna Alfredo Fiorentino riguarda infatti svariate migliaia di famiglie di anziani che, anziché venire aiutati dalle Istituti Case Popolari e dalle istituzioni, rischiano di vedersi buttare in mezzo alla strada e spogliati della loro unica abitazione, dove sono vissuti per oltre 35 anni.
La vicenda nasce con il passaggio dalla gestione Gescal a quella dell’Istituto Autonomo Case Popolari (Iacp); cioè allorquando l’ex IACP (e in seguito l’ALER) pongono in essere una serie di condotte, denunciate come estorsive, volte a sottrarsi all’obbligo di alienare gli alloggi agli assegnatari aventi diritto, alle condizioni previste nella L. n. 60/63, onde conseguire un flusso incessante di profitti extra legem, nei confronti delle svariate diecine di migliaia di famiglie assegnatarie degli alloggi popolari della Lombardia, le quali in base alla legislazione previgente (che prevedeva il diritto di riscatto con un canone mensile costante inclusivo delle spese), avrebbero dovuto divenire proprietarie degli immobili a loro assegnati o continuare a godere del canone sociale e di condizioni agevolate rispetto a quelle di mercato oggi invece indebitamente pretese.
Il meccanismo truffaldino utilizzato da Aler S.p.A. per ottenere il pagamento di somme eccedenti quelle pattuite nei contratti è lo stesso utilizzato dagli speculatori del settore immobiliare e dai veri e propri usurai professionali:
da una parte gonfiare le spese accessorie (quali riscaldamento, servizi…) e i canoni di locazione, invitando a pagare mediante l’unilaterale emissione di bollettini di versamento, dietro minaccia di sfratto e azioni monitorie (che i giudici in genere concedono senza neppure istruire le cause e leggere gli atti);
dall’altra presentarsi minacciosamente nei quartieri delle case popolari con largo impiego di uomini e mezzi (Digos, Ufficiali giudiziari, camion per gli sfratti, operai sottoproletari e facchini), per imporre, a chi non ce la fa, la firma di cambiali a garanzia di tali indebite pretese, dietro minaccia di sloggio forzoso. Cosa appunto successa questa mani al Prof. Bruna Fiorentino che si è visto però anche rifiutare l’assegno di € 10.000 e un rinvio sino all’esito della causa di merito, perchè il pagamento offerto non era per contanti…!
Forse, neppure, il clan dei Casalesi
o i picciotti dei racket che taglieggiano i negozianti siciliani non avrebbero concesso una dilazione, tenuto conto che l’anziana vittima degli usurai dell’Aler era ricoverato al Pronto Soccorso per un principio di infarto e aveva la disponibilità di pagare.    
Tali gravi abituali comportamenti, a nostro avviso, non possono essere certo ignoti ai vertici delle istituzioni di governo della magistratura, della Regione Lombardia e  dei partiti che controllano l’Aler, dalle cui casse, da sempre, traggono un flusso ininterrotto di finanziamenti illeciti.
Confidiamo, pertanto, che i mass media indipendenti, i giornalisti, i magistrati e le associazioni della società civile, non asserviti alle logiche dei partiti e delle logge massoniche che controllano le istituzioni, lancino un’azione di denuncia sulla gestione del patrimonio publico immobiliare e sul diritto dei cittadini di avere giudici imparziali che rispondono solo alle leggi.
Per maggiori informazioni sulla denuncia sporta nei confronti del Dott. Manunta: 02-36582657 – 3292158780

http://www.lavocedirobinhood.it/Articolo.asp?id=165