IL RACKET CHE INTERDISCE.
Sane di mente o psichicamente disturbate? Lucide testimoni di gravissimi atti criminali avvallati dalla magistratura o instabili mitomani da sottoporre contro la loro volontà a trattamenti sanitari obbligatori?
A porre il dubbio due storie, pubblicate sul mensile Casablanca. Protagoniste due donne. Di età, città, vissuti diversi, ma con un unico filo conduttore: due cause di “interdizione”, avvallate dal Tribunale di Milano che si inseriscono in vicende per nulla chiare. Avendo conosciuto personalmente sia le vittime che i magistrati civili e penali interessati ai relativi casi ci sentiamo di spezzare una lancia in favore delle prime protagoniste dell’allucinante odissea psichiatrico-giudiziaria.
Secondo il codice civile si può richiedere l’interdizione quando una persona maggiorenne si trova in situazione di abituale infermità di mente. Si applica dunque in casi di incapacità legale a compiere atti giuridici.
Una sentenza del tribunale che dichiara l’interdizione dispone da parte del giudice tutelare la nomina di un tutore, scelto di preferenza tra: il coniuge che non sia separato, il padre, la madre, un figlio maggiorenne o la persona designata con testamento dal genitore superstite, con il compito di rappresentare legalmente l’interdetto e di amministrarne il patrimonio.
E qui il terreno inizia ad essere insidioso: abituale infermità di mente? Per abituale infermità di mente, la giurisprudenza non intende solo l’esistenza di una tipica malattia mentale, ma anche la semplice presenza i un’alterazione nelle facoltà mentali, tale da dar luogo ad un’incapacità totale o parziale di provvedere ai propri interessi.
Piera Crosignani è la prima vittima di una delle due storie ai limiti di ordinaria follia. Le cronache locali della toscana parlano di lei. La vicenda è clamorosa, non fosse altro per i 150 miliardi di lire che fanno da sfondo o, più propriamente, da protagonisti. A fine anni novanta, la signora è un’anziana ereditiera. Suo nonno materno nonchè ricco industriale del settore siderurgico, le lascia un tesoro valutato circa 150 miliardi. «Sono in un incubo senza via di uscita – ripeterà in quegli anni l’ereditiera -, anche se ho contattato un amico di vecchia data, medico, ora ministro (Umberto Veronesi, ndr) e spero che qualcosa per me possa cambiare. Intanto sono stata sbattuta fuori dalla casa dove ho abitato per cinquanta anni e tutti i miei beni sono stati assegnati ad un tutore». L’incubo di cui parla inizia il 9 giugno 1999, quando, con una sentenza del tribunale di Milano (pubblico Ministero Ada Rizzi, giudice tutelare Ines Marini – nomi da tenere presente, perché torneranno nella seconda storia), viene stabilita l’interdizione della Crosignani su richiesta dell’ex marito, un diplomatico di nazionalità austriaca. Ecco il punto: il marito va in tribunale e dice che la sua ricchissima moglie non ci sta con la testa, un giudice chiede una perizia; una udienza, una contro-perizia e il giudice decide. Tutto in venti minuti. E decide che sì, la signora Piera si trova in situazione di abituale infermità di mente, anzi, dirà la sentenza, «affetta da delirio paranoico». Il patrimonio naturalmente passa di mano, dalle sue a quelle dei tutori che si sono avvicendati [una in particolare, l’avvocato Cinzia Sarni è la moglie del magistrato di Cassazione Ersilio Secchi componente della Corte di appello di Milano (n.d.r. personaggio già tristemente noto ad altre vittime seguite dall’Associazione che dovrebbe venire trasferito per incompatibilità non potendo esercitare nello stretto distretto dove opera la moglie] e che – stando alle accuse formulate dalla donna e da chi la assiste – non si dimostreranno all’altezza di gestirlo con prudenza e oculatezza, anzi! Pur non potendo ancora affermarlo con certezza, l’ammanco patrimoniale subito nel giro di pochi anni potrebbe arrivare fino a 35 milioni di euro. La Crosignani, da ricchissima che era, rimane senza nulla. Si trasferisce nella provincia lucchese dove amici l’accolgono e la sostengono.
La paranoica Piera, maturità classica, quattro lingue parlate correntemente, studi alla Sorbona e a Cambridge, legge Sofocle e Ibsen quando incontra lo psichiatra Gian Luca Biagini all’Asl 2 di Lucca. E Biagini contesta da subito la perizia ammessa dal tribunale di Milano: «Piera Crosignani – affermerà – è perfettamente lucida, dotata di capacità critiche non comuni, sostenuta da un elevato patrimonio culturale. E’ del tutto esente da turbe psichiche. Ha esposto con accorati accenti fatti della sua vita. Nei colloqui non ho riscontrato elementi psicopatologici di sorta». Ma allora non è matta ne paranoica? Per Biagini «E’ sana di mente, sanissima, ed è un miracolo che il suo cervello sia uscito indenne da questa sconvolgente esperienza».
E lo psichiatra di Lucca va oltre: spedisce un esposto al Ministero della Giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura oltre che segnalare all’Ordine dei medici di Milano il comportamento del perito del tribunale e la validità della perizia a suo dire inspiegabile. Silenzio e ancora silenzio. Si susseguiranno perizie su perizie, finchè la Crosignani, matta per legge da anni, viene riabilitata da una revoca della sentenza di interdizione accolta nel giugno 2005. Della serie: “ci scusi tanto, ci siamo sbagliati!”. La signora Piera Crosignani è sanissima. Happy end? Neanche per sogno.
Il giudice tutelare del tribunale di Lucca impedisce alla signora di ritornare in possesso delle sue proprietà. Sana sì, ma che non tocchi il suo patrimonio (per quello ci sono i tutori, sempre). Delle due l’una: se la Crosignani proprio non è matta, allora il suo delirio paranoico diagnosticato può anche essere, al contrario, una lucida consapevolezza di essere divenuta vittima di una organizzazione truffaldina.
Ancora sette anni fa raccontava a Il Giornale del 17 settembre 2000 come il sospetto di non essersi imbattuta in un banale errore professionale di un perito frettoloso o inesperto le fu chiaro sfogliando Famiglia Cristiana. Il settimanale riportava, in un’inchiesta dal titolo piuttosto eloquente «Soli e assediati. Le truffe agli anziani», le parole di un magistrato milanese «su piani orditi per impossessarsi dei beni di anziani soli e abbienti, di notai manigoldi, di avvocati conniventi». Peccato che quel magistrato milanese che denuncia i piani truffaldini e professionisti senza scrupolo un mese e mezzo prima abbia firmato la sua interdizione e messa nero su bianco la sua infermità mentale!
«Su, ma molto su, sanno benissimo come stanno le cose – ha pochi dubbi in proposito la signora Piera – e io che ho sessantanove anni lo so che ci vuol poco a far passare per mentecatto un vecchio indifeso. Gli avvoltoi vanno al catasto, controllano chi ha delle proprietà. E lì si decide a chi tocca. E’ un racket!».
Facciamo il punto: per mettere su un ipotetico raggiro ci vuole un’organizzazione criminale, delle complicità nelle istituzioni giudiziarie e delle connivenze nelle professioni mediche e psichiatriche. Si individua una persona economicamente dotata ma in difficoltà, per l’età o – vedremo – per contingenze diverse; si utilizzano eventuali spazi discrezionali necessariamente esistenti nella normativa per interdirsi viene di fatto in possesso del patrimonio potendone disporre tramite il tutore o l’amministratore di sostegno a vantaggio proprio (vedasi svendite a prestanome o a complici di immobili a prezzi decisamente inferiori ai prezzi di mercato). E il gioco è fatto. la vittima.
Ecco il dubbio, ecco il sospetto, l’ipotesi di reato: un istituto giuridico dai principi e presupposti sacrosanti, introdotto a tutela di chi sia incapace davvero di compiere atti giuridici e per permettere a parenti, o persone vicine, di curarne gli interessi, utilizzato per scopi criminali.
Dubbio doveroso e sospetto legittimo che, per chi viene dichiarato matto per legge, diventano certezza di un raggiro, truffa in piena regola, dramma che si trascina negli anni in un susseguirsi di risvolti kafkiani. Il tutto in un rassegnato quanto complice silenzio.
A rendere il sospetto una certezza, ci ha pensato poi lo stesso marito della Crosignani, che dopo averla fatta interdire, si pente, e rivela di aver ricevuto forti pressioni per il suo operato poco limpido. In quanti hanno tratto beneficio da questa operazione?
A non avere dubbio alcuno sull’esistenza di un vero racket delle interdizioni e a denunciarlo pubblicamente e in ogni sede è Claudia Mariani, un’altra vittima di quel meccanismo perverso e criminale che ha rovinato l’esistenza di Piera Crosignani e di chissà quanti come loro.
La incontriamo in un bar della periferia milanese, accompagnata da Gian Luca Biagini, lo psichiatra di Lucca che ha combattuto per anni al fianco di Piera Crosignani. Forte e combattiva, nonostante il logoramento di 12 anni di persecuzioni giudiziarie, la Mariani è pronta a riversare come un fiume in piena la sua vicenda, a evidenziare paragrafi, righe, parole di documenti, perizie, esposti, denunce che escono dalle copie dei fascicoli aperti sul tavolino. «E’ tutto qui: qui ci sono i nomi, i collegamenti, tutte le prove».
Laureata in filosofia con orientamento psicologico, lucidissima e agguerrita, pronta a ripercorrere ancora una volta quei dodici anni che iniziano con la denuncia di un traffico illecito, passano per processi, minacce di morte,
divorzio, lutti familiari e, non una, ma ben quattro procedimenti di interdizione. Biagini, davanti alla tazzina di caffè, annuisce, conferma, puntualizza sempre con lo sguardo benevolo rivolto verso la sua, malgrado tutto, paziente che alza e abbassa gli occhiali mentre sfoglia il raccoglitore.
Ripercorrere gli ultimi dodici anni della sua vita vuol dire consultare un migliaio di pagine fra denunce, perizie, memoriali, documentazione legale, atti processuali. Il caso fu oggetto anche di 2 interrogazioni parlamentari.
Ma partiamo dall’inizio: nel 1989 Claudia sposa Sergio Bassanese, istriano di origine e residente in provincia di Alessandria. Insieme costituiscono durante il 1992 la B.M. International, socio accomandatario lui, accomandante lei. La società, dedita alla compravendita di autoveicoli, si rivela agli occhi della Mariani sempre di più una copertura di illeciti traffici internazionali di veicoli rubati. Le richieste al marito di spiegazioni circa il giro di affari in nero che man mano scopre transitare su conti correnti anche a lei intestati ricevono come risposta minacce e intimidazioni in un crescendo sempre più esplicito e violento.
E il giro d’affari nascosto dietro la B.M. e oggetto dunque di totale evasione fiscale si rivelerà – secondo le sue ricostruzioni – di un importo compreso fra i due e i quattro miliardi di lire mensili, con un guadagno netto da parte del marito di non meno di cento milioni al mese. Non poco per una persona che si dichiarerà poco più che nullatenente.
Basta e avanza per superare paure e inquietudini per le minacce. Claudia non vuol rendersi indirettamente complice degli illeciti del marito e informa Autorità pubbliche e magistratura di quanto scoperto, continuando, su loro indicazione, a raccogliere informazioni utili. E le informazioni documentali Claudia le porta copiose alla competente Procura di Tortona; ma l’inchiesta non prosegue, rallenta, si insabbia, e si ferma. Di più: il procuratore capo Aldo Cuva, che da lì a pochi mesi verrà radiato dalla magistratura per essere accusato di aver manomesso i verbali d’interrogatorio nell’inchiesta sui drammatici fatti dei sassi dal cavalcavia di Tortona, «cercò – dirà la Mariani – di farmi passare per pazza e colpevole, impedendo in tutti i modi il proseguimento delle indagini».
Emblematico a questo proposito un documento, di cui siamo in possesso, redatto a mano dal dottor Cuva su carta intestata della Procura indirizzato al comandante della Guardia di Finanza di Tortona con il quale si suggerisce di «farsi carico… di elementi di giudizio utili, eventualmente, sotto il profilo della calunnia».
Sembrano ora trovare conferma, nei fatti, le tante minacce rivolte dal marito e rintracciabili nelle numerose denunce depositate dalla Mariani negli anni: «Non immagini neppure chi sta dietro a sto giro!!! Abbiamo amici magistrati, finanzieri, poliziotti che lavorano per noi. Ti distruggiamo fino a farti interdire e internare in un manicomio. E quando sei lì dentro ti distruggiamo fisicamente e cerebralmente».
L’aria di questa città diventa per Claudia asfissiante e insopportabile. Il Bassanese chiede la separazione ma nega, in quanto nullatenente, ogni tipo di sostentamento alla moglie.
Mentre gli organi di stampa locali e le varie associazioni a difesa del cittadino iniziano ad occuparsi di questa strana vicenda, Claudia torna a Milano dalla madre anziana e malata, nella speranza di trovare, chissà, il giudice a Berlino nel tribunale di mani pulite. Ma per lei l’appuntamento con quel giudice non è stato ancora fissato.
Trasferitasi a Milano si fa pressante la condizione della madre, l’allora ottantenne Cesarina Fumagalli già affetta da patologie psichiche che peggiorano di giorno in giorno. La mamma si trascura, squallide le condizioni igieniche e personali, non paga le bollette, accumula debiti su debiti nonostante un sostanzioso conto corrente personale che si aggira intorno ai cinquecento milioni di lire. E la figlia provvede alle spese di volta in volta.
Si rivolge dunque alle strutture sanitarie per chiedere il Trattamento Sanitario Obbligatorio (il Tso è un provvedimento amministrativo che dispone che una persona sia sottoposta a cure psichiatriche contro la sua volontà, normalmente attraverso il ricovero presso un reparto di psichiatria) nella speranza che possa essere finalmente curata. Dati gli ormai numerosi decreti ingiuntivi e azioni di sequestro a carico della Fumagalli e la sua incapacità di provvedere a se stessa, alla propria salute e ai propri beni, la Mariani richiede al Tribunale di Milano l’interdizione della madre.
E qui i fatti si susseguiranno con una sequenza travolgente che ha dell’incredibile: il Tso viene revocato e la Mariani si ritrova una imputazione per sequestro di persona da parte del PM Ada Rizzi (la ricordate? La stessa della storia Crosignani); il giudice non ammette prima, per disporla poi, la perizia medico legale; ammette che sì, la Fumagalli «soffre di disturbi ansioso-depressivi già da parecchi anni, cade in uno stato confusionale, ora rigido, ora passionale» ma non ne trae alcuna conseguenza d’ordine medico psichiatrico.
Ma non basta: ora il caso Mariani si riannoda indissolubilmente con il caso Crosignani. Perché manca ancora il colpo di scena: non solo la domanda di interdizione per la madre è stata rigettata ma è ora la stessa Mariani che si dovrà difendere da una richiesta di interdizione. Ad avallare la causa c’è ancora lei, il PM Ada Rizzi. E a proporla, assistita dall’avvocato Calogero Lanzafame, la stessa Fumagalli.
Per Claudia e per quanto riportato nelle denunce depositate poi dalla stessa Cesarina Fumagalli «l’avvocato la minacciava, continuava a chiederle soldi in nero, le faceva firmare documenti senza spiegarle il contenuto, le negava l’accesso ai documenti relativi alla sue cose». Nel 1997 la dottoressa Mariani, sollecitata anche dai giudici tutelari della madre, denuncia Lanzafame per circonvenzione e reati connessi e presenta un ricorso urgente per la limitazione della capacità di agire della madre. Ma denuncia e ricorso, assegnate come sempre alla Rizzi, vengono naturalmente respinte.
Seguono negli anni: denunce e controdenunce; perizie e controperizie (saranno addirittura 12); istanze e controistanze; citazioni in giudizio, richieste di avocazioni, richieste di sequestri cautelari, archiviazioni in un via vai di fascicoli che appaiono e scompaiono interessando tutti i piani di Procura, Tribunale e Corte d’Appello di Milano.
Siamo nel 2000 quando il sostituto procuratore Gherardo Colombo, consultata la memoria presentata dalla Mariani, inoltra con urgenza per competenza alla Procura di Brescia i procedimenti aperti.
Mentre quella Claudia Mariani che chiede l’interdizione della madre malata, presenta alla procura di Brescia, su suggerimento del presidente di corte d’Appello Seriani e del sostituto Colombo, una denuncia per abuso d’ufficio contro il PM Rizzi. Di rimando, la Rizzi cita in giudizio la denunciante Mariani per richiederne l’interdizione, in quanto affetta principalmente da «querulomania».
Sì. E’ una querulomane! Che più o meno è un malato psichico con atteggiamento lamentoso protratto che nasce dalla persuasione reale o immaginaria di aver subito un torto. Persuasione reale o immaginaria? Ma c’è una bella differenza! I reati del marito, il racket delle automobili, le minacce, le percosse, le denunce insabbiate a Tortona, la persecuzione giudiziaria della Rizzi, i corridoi di centri medici e tribunali percorsi fino alla nausea, sono reali o immaginari? Sono pezzi di uno stesso disegno retto «dalla criminalità organizzata – sostiene la Mariani supportata ormai da associazioni, professionisti e magistrati – e da potenti organizzazioni occulte» o sono il frutto della creativa fantasia di una querulomane?
Mentre Brescia dice che la denuncia alla Rizzi è da archiviare, Milano da parte sua non accoglie la richiesta perché fosse designato altro magistrato a svolgere le funzioni di pubblica accusa nei procedimenti riguardanti la Mariani per – usando un termine forense – ragioni di obiettiva inimicizia.
Il 4 aprile 2007 presso il Tribunale di Milano all’udienza in appello per il giudizio di interdizione intentato contro la dottoressa Claudia Mariani dal pm Ada Rizzi, la corte ha preso atto della perizia del tutto favorevole redatta dal Consulente tecnico d’ufficio dottor Vittorio Boni. Sì, ha vinto lei. Il rendez-vous con il giudice a Berlino Claudia l’ha avuto. E’ ufficialmente sana di mente. Come lo è la Crosignani.
Dire che non sia stato facile pare davvero inappropriato! Anzi! Mancano però ancora troppi fili da riannodare, troppe vicende da chiudere. Andiamo a ritroso:
– Inchiesta giacente presso il Tribunale di Tortona: dodici anni sono più che sufficienti, per chi avesse preso parte al presunto racket delle auto rubate, per occultare ogni prova, ogni traccia, ogni piccola evidenza. L’ultima traccia che abbiamo dell’inchiesta risale al duemila. Pierluigi Vigna, ai tempi Procuratore nazionale Antimafia, dispone che i fascicoli passino da Tortona alla Dia di Torino dove, dicono, non ci sarebbero elementi per procedere. Basta come risposta a chi ha avuto il coraggio di denunciare tali reati, subendone – come abbiamo documentato – minacce di ogni sorta, fino a una possibile persecuzione giudiziaria.
– Processo per sequestro di persona a seguito della richiesta del TSO per la madre presso il Tribunale di Milano: la Mariani, pur contestando non pochi atti illegittimi da parte del pm Rizzi, è stata giudicata colpevole e le è stata inflitta una pena di due anni. La sentenza del processo di Appello ha confermato la colpevolezza pur con la sospensione della pena. All’inizio di quest’anno la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza.
– Caso Cesarina Fumagalli: in questo caso la parola fine non viene scritta da una sentenza ma dalla morte della signora nel 2003 Poco prima fu la Fumagalli a chiedere alla figlia di accompagnarla allo studio di Lanzafame per consegnare una revoca di mandato. Revoca che, pur spedita per raccomandata dopo il rifiuto dell’avvocato di ricevere congiuntamente la Fumagalli e la Mariani, venne disattesa da Lanzafame che ha continuato ben oltre a rappresentare la sua ex assistita.
Questo quanto è stato possibile ricostruire. Rimangono, però, troppe domande che aspettano una risposta:
Gli immobili svenduti del patrimonio Crosignani a chi sono andati?
C’è un collegamento fra le minacce dell’ex marito della Mariani e il seguente calvario giudiziario?
C’è davvero un racket che annovera avvocati, giudici e pubblici ministeri, psicologi asserviti o conniventi con poteri criminali?
Ma soprattutto: quante storie, quanti casi Crosignani o Mariani, aspettano di essere raccontati?
di Antonella Serafini
Questa inchiesta è stata pubblicata sul mensile dell’Associazione Antimafia Casablanca, che rischia di chiudere per “dimenticanze” dello Stato, e perchè forse l’antimafia è concepita solo se si parla di coppole e lupara.
http://www.censurati.it/2007/08/05/il-racket-che-interdice/