“UNA TRUFFA DIETRO QUELLA VENDITA”.
L’errore di due notai blocca l’eredità, congelato fino al 2018 il patrimonio Plasmon.
Repubblica — 18 agosto 2010 pagina 5 sezione: FIRENZE
Repubblica — 18 agosto 2010 pagina 5 sezione: FIRENZE
NONOSTANTE la condanna in via definitiva della Cassazione a 16 mesi di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per abuso d’ufficio per favoreggiamento in appalti, la Regione Val d’Aosta è ancora guidata da Augusto Rollandin.
Dopo 14 anni di processo, la sentenza definitiva. La Corte dei Conti condanna gli ex presidenti della Val d’Aosta, Rollandin e Lanivi, a pagare rispettivamente, 480mila e 300mila euro.
L’accusa per cui sono stati riconosciuti colpevoli, è di aver danneggiato la Regione, attraverso una cattiva gestione dei contributi alle società concessionarie per i trasporti pubblici su gomma. Ai due presidenti sono stati contestati oltre nove miliardi di lire di contributi pubblici concessi in dieci anni alle aziende di trasporto pubblico locale.
Nonostante la pendenza di questi procedimenti giudiziari ed il fatto che diversi esponenti del suo stesso movimento lo contestino apertamente, Rollandin nel 1998 riesce ancora a costruire intorno a sé un consenso tale da imporre una sua ricandidatura. Viene eletto ed immediatamente dichiarato decaduto. Successivamente, nonostante la condanna, nel maggio 2001 si candida al Senato e viene eletto (l’interdizione dai pubblici uffici non si applica al parlamento). La rielezione di Rollandin alle regionali del 2008 non viene ostacolata neppure dalla condanna della Corte dei Conti, seppure per entrare nuovamente in Consiglio Valle avrebbe dovuto pagare per intero – e di tasca propria – il maxi risarcimento di 480.000 euro confermato dai giudici della Corte dei Conti in grado d’Appello a Roma.
Rollandin e Lanivi sono infatti stati riconosciuti responsabili dei danni causati alla Regione nella gestione dei contributi alle società concessionarie per i trasporti pubblici.
Ciò nonostante, in seguito Rollandin viene riabilitato dai magistrati per quella condanna, o meglio vengono dichiarate estinte le pene accessorie della condanna, tra le quali l’interdizione dai pubblici uffici (che causa l’ineleggibilità a consigliere regionale), tant’è che nel 2008 ripropone con grande faccia tosta la sua candidatura.
Questo provvedimento giudiziario dovuto per legge non costituisce ovviamente una sorta di riabilitazione morale dello scaltro Presidente della Regione Val d’Aosta, condannato in via definitiva, che oltre ad essere riuscito a farsi rieleggere, dal 2008 viene anche nominato Presidente dell’università della Valle d’Aoosta e nel 1992 viene insignito dell’onorificenza francese della Légion d’Honneur dal Gran Maestro dell’Ordine.
Le vie degli ordini cavallereschi e delle logge sono infinite….
Per “par condicio” lo sapete che la percentuale di pregiudicati in parlamento è del 15% ?
ELENCO PARLAMENTARI CONDANNATI IN VIA DEFINITIVA
Massimo Maria Berruti (deputato FI):
8 mesi definitivi per favoreggiamento nel processo tangenti Guardia di Finanza.
Alfredo Biondi (deputato FI):
2 mesi patteggiati per evasione fiscale a Genova.
La sentenza di condanna a suo tempo resa dal tribunale di Genova nei confronti di Alfredo Biondi è stata revocata in data 28 settembre 2001 per intervenuta abrograzione del reato.
Vito Bonsignore (eurodeputato Udc):
2 anni definitivi per tentata corruzione appalto ospedale Asti.
Umberto Bossi (eurodeputato e segretario Lega Nord):
8 mesi definitivi per tangente Enimont.
Giampiero Cantoni (senatore FI):
Come ex presidente della Bnl in quota Psi, inquisito e arrestato per corruzione, bancarotta
fraudolenta e altri reati, ha patteggiato pene per circa 2 anni e risarcito 800 milioni.
Enzo Carra (deputato Margherita):
1 anno e 4 mesi definitivi per false dichiarazioni al pm su tangente Enimont.
Paolo Cirino Pomicino (eurodeputato Udeur):
1 anno e 8 mesi definitivi per finanziamento illecito tangente Enimont, 2 mesi patteggiati per
corruzione per fondi neri Eni.
Marcello Dell’Utri (senatore FI e membro del Consiglio d’Europa):
condannato definitivamente a 2 anni per frode fiscale e false fatturazioni a Torino (false fatture
Publitalia); ha patteggiato 6 mesi a Milano per altre vicende di false fatture Publitalia.
Antonio Del Pennino (senatore FI):
2 mesi e 20 giorni patteggiati per finanziamento illecito Enimont; 1 anno 8 mesi e 20 giorni
patteggiati per i finanziamenti illeciti della metropolitana milanese.
Gianni De Michelis (eurodeputato Socialisti Uniti per l’Europa):
1 anno e 6 mesi patteggiati a Milano per corruzione per le tangenti autostradali del Veneto; 6
mesi patteggiati per finanziamento illecito Enimont.
Walter De Rigo (senatore FI):
1 anno e 4 mesi patteggiati per truffa ai danni del ministero del Lavoro e della Cee per 474
milioni di lire in cambio di falsi corsi di qualificazione professionale per la sua azienda.
Gianstefano Frigerio (deputato FI):
condannato a Milano a oltre 6 anni di reclusione definitivi per le tangenti delle discariche (3
anni e 9 mesi, corruzione) e per altri due scandali di Tangentopoli (2 anni e 11 mesi per
concussione, corruzione, ricettazione e finanziamento illecito).
Giorgio Galvagno (deputato FI):
ex sindaco socialista di Asti, nel ’96 ha patteggiato 6 mesi e 26 giorni di carcere per
inquinamento delle falde acquifere, abuso e omissione di atti ufficio, falso ideologico, delitti
colposi contro la salute pubblica (per l’inquinamento delle falde acquifere) e omessa denuncia
dei responsabili della Tangentopoli astigiana nello scandalo della discarica di Vallemanina e
Valleandona (smaltimento fuorilegge di rifiuti tossici e nocivi in cambio di tangenti).
Lino Jannuzzi (senatore FI):
condannato definitivamente a 2 anni e 4 mesi per diffamazioni varie, è stato graziato dal capo
dello Stato proprio mentre stava per finire in carcere.
Giorgio La Malfa (deputato Pri, ministro Politiche comunitarie):
condanna definitiva a 6 mesi e 20 giorni per finanziamento illecito Enimont.
Roberto Maroni (deputato Lega Nord e ministro Lavoro):
condannato definitivamente a 4 mesi e 20 giorni per resistenza a pubblico ufficiale durante la
perquisizione della polizia nella sede di via Bellerio a Milano.
Augusto Rollandin (senatore Union Valdôtaine-Ds e attuale Presidente Regione Valle d’Aosta ):
ex presidente della giunta regionale Valle d’Aosta è stato condannato in via definitiva dalla
Cassazione nel ’94 a 16 mesi di reclusione, 2 milioni di multa e risarcimento dei danni alla
Regione per abuso d’ufficio: favorí una ditta “amica” nell’appalto per la costruzione del
compattatore di rifiuti di Brissogne. Dichiarato decaduto dalla Corte d’appello di Torino, in
quanto “ineleggibile”, nel 2001 si candida al senato con l’Union Valdotaine, i Ds e i
Democratici e nel 2008 alla Presidenza della Regione Valle d’Aosta.
Vittorio Sgarbi (deputato FI):
6 mesi definitivi per truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato, cioè del ministero dei
Beni culturali.
Rocco Salini (gruppo misto)
condannato in Cassazione a un anno e 4 mesi per falso ideologico.
Calogero Sodano (senatore Udc):
già sindaco di Agrigento, condannato definitivamente a 1 anno e 6 mesi per abuso d’ufficio
finalizzato a favorire i costruttori abusivi in cambio di favori elettorali.
Egidio Sterpa (deputato FI):
condannato a 6 mesi definitivi per tangente Enimont.
Antonio Tomassini (senatore FI):
Medico chirurgo, condannato in via definitiva dalla Cassazione a 3 anni per falso.
Alfredo Vito (deputato FI):
2 anni patteggiati e 5 miliardi restituiti per 22 episodi di corruzione a Napoli.
Vincenzo Visco (deputato Ds):
Condannato definitivamente dalla Cassazione nel 2001 per abusivismo edilizio, per via di alcuni
ampliamenti illeciti nella sua casa a Pantelleria: 10 giorni di arresto e 20 milioni di ammenda.
Piú l’“ordine di riduzione in pristino dei luoghi”. Cioè la demolizione delle opere abusive.
Il magistrato, che in questi anni da indagato è riuscito prima a farsi trasferire alla Corte d’appello di Genova e ad andare poi in pensione, è stato arrestato ieri e portato da Torino nel carcere di Pavia insieme al commercialista Ruggero Ragazzoni. Gli altri due ammanettati di giornata, il professionista Mario Emanuele Florio e il ginecologo, medico legale anche per pm torinesi e collettore delle tangenti, Dario Vizzotto, sono stati destinati al carcere di Opera. Ma il secondo a sera era ancora in procura, a Milano, interrogato su richiesta del suo legale (Mauro Anetrini). Tirava aria di confessione.
Le 106 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Stefania Donadeo danno conto della «palingenesi» del procuratore e del giro di commercialisti che aveva radunato: 27 sono indagati, tre notissimi a Torino (Alberto Ferrero, già candidato per Forza Italia alla presidenza della Provincia) e i due arrestati, Ragazzoni storicamente vicino alla sinistra, tutti e due ex revisori dei conti del Comune di Torino. Con la regia esterna di Vizzotto, Marabotto costruiva terne di consulenti per moltiplicare l’ammontare delle risibili consulenze contabili: migliaia fra il 2001 e il 2005. Solo in due anni intermedi fece controllare, si fa per dire, 375 società del Pinerolese. Lo Stato pagava (30 mila euro, più Iva, a botta) e il procuratore archiviava. L’importante è che girassero carte e soldi.
Questo scandalo è stato bloccato nel 2005 da alcuni pm torinesi: un’ispezione ministeriale aveva registrato l’«anomalia», sicché il procuratore fu costretto a iscrivere alcuni dirigenti di società nel registro degli indagati malgrado non avesse in mano niente e ad inviare gli atti, in alcuni casi, ad altri uffici giudiziari per competenza territoriale. A Torino si accorsero dell’«irritualità» di quei fascicoli e misero in moto la procura milanese. Un giudice e un pm di Pinerolo hanno messo a verbale i loro sospetti. Perquisizioni, avvisi di garanzia, e nient’altro. Sino al settembre scorso, quando, dopo una segnalazione dell’Agenzia delle Entrate alla procura torinese su uno studio di commercialisti che evadeva le imposte, emerse che quei professionisti avevano deciso di pagarle solo sul 70 per cento delle parcelle, quanto restava loro.
Marabotto a uno dei suoi: «Ho già preparato una lettera al Comando generale della Guardia di Finanza dicendo che è vergognoso che vadano a fare indagini che riguardano compensi, e che quindi chiamano in causa il modo di agire della Procura… che vengano affidate a persone talmente incompetenti… per cui lo stesso procuratore deve spiegare a un deficiente di maresciallo come stanno le cose». Le intercettazioni svelano il mondo particolare di Marabotto che faceva arrestare gente spessa – in questo caso dei marocchini con un negozio di abbigliamento a Pinerolo – e poi ne diventava amico. Tanto che questi gli propongono di comprare una collina in Marocco. Il denaro non gli mancava. E si sentiva al sicuro. Donatella Giovannini, fra i professionisti che hanno rivelato il sistema Marabotto, ha rivelato che il procuratore aveva detto a Vizzotto: «I soldi li ritiri tu, così in galera ci vai tu».
BIELLA. MENTRE E’ IN CORSO IL PRIMO PROCESSO SFREGIATA LA SECONDA VOLTA PERCHE’ MAROCCHINA… E PERCHE’ IL TRIBUNALE NON ASSUME NESSUNA MISURA RESTRITTIVA NEI CONFRONTI DELL’AGGRESSORE!
Oriana, la ragazzina biellese con madre marocchina e padre italiano che era stata sfregiata con una svastica su un braccio, ha denunciato a distanza di un anno e mezzo un secondo episodio di violenza pressoché simile al primo e con lo stesso protagonista. Ma non è l’unica. Al liceo Giulio Cesare di Roma sarebbe avvenuta la stessa cosa, che però non ha trovato risalto sui giornali. Anche lì la ragazza è stata fermata dai compagni, che con un temperino le hanno disegnato una svastica sulla guancia. Un episodio inquietante.
Quanto è accaduto nuovamente alla giovane di Biella, alla quale è stata di nuovo inciso sulla pelle una sorta di croce uncinata. L’autorità giudiziaria, secondo quanto riferito dal quotidiano «La Stampa», ha avviato accertamenti. Ma oltre alle solite procedure di rito pare non sia stata in alcun modo in grado di fermare la mano dell’aggressore e il ripetersi della violenza.
La ragazza ha 15 anni e l’accusato 17. Gli investigatori stanno cercando di appurare che cosa sia realmente successo nuovamente a Tollegno, dove la famiglia di Oriana vive ancora anche se, proprio per colpa di quella vicenda, la mamma della ragazza aveva chiesto che le fosse assegnata una casa popolare a Biella.
La prima volta era avvenuto alla fine di settembre 2005, quando la giovane era stata aggredita dal «branco». Secondo la sua ricostruzione era andata ad un appuntamento per difendere il fratellino dalle angherie dei ragazzi più grandi.
Il processo davanti al Tribunale per i minorenni di Torino non è ancora concluso.
L’unico imputato è il giovane che avrebbe tracciato la svastica, che non è mai stato oggetto di provvedimenti restrittivi, nonostante le accuse di ingiurie (chiamava in modo dispregiativo la ragazza «negra»), lesioni, tentata estorsione e rapina per la sottrazione al fratello di Oriana di un cellulare. Ma anche altre quattro persone sono state querelate dalla famiglia per aver cercato di depistare le indagini. Gli avvocati di Oriana, inoltre, avevano promosso anche una causa civile parallela per chiedere il risarcimento dei danni.
LA NUOVA DENUNCIA DI ORIANA
«Ho un’altra svastica sul braccio» . Oriana dice che gliel’ha fatta lo stesso ragazzo: quello che venti mesi fa, a fine settembre 2005, l’aggredì in un vicolo, urlandole «sporca negra».
Lei aveva 13 anni, lui 16. Lei italo-marocchina, lui biellese di Tollegno, paese di collina. Da quel giorno diventò la ragazzina «marchiata» (con una pietra). Ora la storia si ripete: c’è una denuncia, un’indagine in procura, ci sono le foto del segno sulla pelle, che assomiglia più a una croce che al simbolo nazista. L’inchiesta è aperta, tutti tacciono. Perfino i legali della famiglia, quelli di «Avvocati senza frontiere»: «In questo momento – dicono – non possiamo parlare, per il bene della ragazza».
Il bis
Gli investigatori stanno cercando di capire che cosa sia successo. E, soprattutto, come sia potuto accadere di nuovo: alla stessa persona e nello stesso modo. Già la prima svastica aveva segnato la ragazza più nell’anima che sulla pelle. Quella pelle bruna che i giovani del «branco» avevano preso di mira: erano andati avanti per giorni, prima dell’aggressione, a dirle che era «una negra» e che tornasse in Africa. In realtà il padre di Oriana era italiano (è morto da alcuni anni), la madre marocchina abita nel nostro Paese da una vita. Ha altri due figli, Oriana è stata picchiata la prima volta proprio per difendere uno dei fratelli. Anche lui era stato preso di mira dal branco: minacce, vessazioni, il furto di un telefonino. La ragazza, per fare giustizia, una mattina accetta la sfida: con la scusa di gettare la spazzatura va nel vicolo, per un incontro di chiarimento col sedicenne. Ne esce pesta e graffiata ma alla madre non dice nulla. Si scioglie i capelli per non far vedere i lividi, tiene le maniche abbassate per non far vedere la svastica. Solo dopo, a scuola, racconterà tutto, piangendo.
Quel giorno Oriana, alla madre che cercava di consolarla, disse parole disarmanti: «Perché non mi dai una pillola per diventare bianca? Voglio che mi lascino stare». Qualche politico, come il presidente della Provincia, si precipitò a portarle «la solidarietà di tutti i biellesi che non sono razzisti», e l’invitò a non andarsene. Difatti la famiglia della ragazza è rimasta a Tollegno, anche se la madre ha chiesto che le venga assegnata una casa popolare a Biella.
Il sindaco. Continuare a vivere in paese, dove comunque molte persone l’hanno sempre aiutata e difesa, fa ricordare troppe cose brutte. «Mia figlia ora vive nella paura», aveva detto la mamma, Ilhame Ajid, davanti alle telecamere del Maurizio Costanzo Show. Il caso di Oriana era stato cavalcato anche dalla Iadl, la Lega contro la diffamazione anti-islamica, e il sindaco di Biella aveva proposto di costituirsi parte civile, al processo, per difendere l’immagine di una città «bollata come razzista». Ora un altro segno sul braccio torna a svegliare i fantasmi dell’intolleranza, anche se solo le indagini della procura potranno chiarire come stiano davvero le cose.
Il processo per il primo episodio non è concluso.
L’imputato è uno solo: il ragazzo dell’aggressione. È accusato di ingiurie, lesioni gravi, tentata estorsione e addirittura di rapina, per via del furto del cellulare al fratello della giovane. I legali della famiglia, però, hanno querelato altre quattro persone, fra cui una ragazza, che avrebbero fatto pressioni su Oriana per non farle raccontare nulla. Nel 2005 non era servito. E anche stavolta Oriana ha denunciato tutto.
Comincialitalia.net
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2007/05_Maggio/25/svastica_nuovo_episodio.shtml
Pubblichiamo qui di seguito “La storia segreta del ciclone Teardo”, scritta da Luciano Corrado su Trucioli Savonesi.Data l’ampiezza del documento inseriamo la sola introduzione e l’indice, rinviando gli interessati al sito di Trucoli Savonesi. | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
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21 anni fa Albenga tremava per i molti arresti nello “scandalo-invalidità”.
I giornali titolavano: “Nomi noti e di grido tra le persone coinvolte. Sequestrati contratti. Il ruolo massonico.
Il giudice Filippo Maffeo: “Ci sono manovre per intorpidire le acque e nascondere…”.
Eppoi, infatti, come sempre succede nell’Italia delle logge tutto è stato messo a tacere.
Per leggere tutto l’articolo:
1) un medico (Francesco Narducci nel primo caso, Micheal Ostrog nel secondo, ma nel film From Hell si ipotizza un’altra pista, sempre collegata ad un medico);
2) uno scrittore (Alberto Bevilacqua per i delitti di Firenze e Oscar Wilde pe quelli di Londra);
3) un pittore (Claude Falbriand per i delitti italiani e Walter Sickert per quelli inglesi).
Altra analogia non da poco è che i delitti del Mostro di Firenze sembrano apparentemente terminare con il ritrovamento del cadavere di Narducci nel lago Trasimeno; i delitti di Jack lo Squartatore paiono terminare nel 1888 con il ritrovamento nelle acque del Tamigi di John Druitt.
Per John Druitt si ipotizzò il suicidio, come per Narducci, ma sappiamo che le piste successive portarono altrove.
Curiosamente, anche John Druitt era figlio di un medico, come Narducci. Altrettanto curiosamente, in entrambi i casi venne fuori che facevano parte di un’organizzazione esoterica, e si ipotizzò che fossero stati eliminati dalla stessa organizzazione cui appartenevano, perché ormai erano diventati scomodi. Druitt pare facese parte di un gruppo esoterico chiamato “Gli apostoli”, mentre Narducci pare facesse parte proprio della Rosa Rossa.
In entrambi i casi si ipotizzò ad una certo punto la pista esoterica e satanica. Per il Mostro di Firenze, ricordiamo che la pista esoterica e i collegamenti con la Rosa Rossa vengono fatti addirittura dal commissario che si è occupato del caso, Michele Giuttari, nel suo libro “Il Mostro”.
Un’altra analogia fu l’atteggiamento della stampa. In entrambi i casi i giornali si occuparono a fondo del caso, solo che, dopo un iniziale “tifo” per gli inquirenti, successivamente si è passati ad una fase distruttiva, denigratoria, con accuse di incapacità ecc.
Questo atteggiamento trova la sua causa in un fattore che ancora una volta è comune ad entrambe le vicende. Infatti i sospetti degli investigatori si accentrarono di volta in volta su personaggi sempre diversi, che poi inevitabilmente venivano scagionati.
Il che è logico, perché gli inquirenti partivano dall’errato presupposto che si trattasse di delitti seriali, di un maniaco. Ovviamente non potevano ipotizzare che si trattasse di un’organizzazione strutturata, efficiente, di rilievo addirittura internazionale, e che i delitti fossero compiuti da più persone contemporaneamente.
Quindi, nella logica semplicistica del serial killer unico, quando gli indizi portavano a qualcuno nuovo, questo escludeva che il precedente indiziato fosse coinvolto. A maggior ragione, se il sospettato era in carcere, il compimento di un altro delitto lo faceva immediatamente scagionare, come accade con Vincenzo Spalletti, che verrà incarcerato ma che verrà rilasciato quando gli assassini colpiranno ancora. Analoga sorte toccherà a Francesco Vinci.
E un’altra analogia sono gli incredibili depistaggi, gli inquinamenti delle indagini, e le protezioni ad altissimo livello di cui gli assassini godevano, tanto che è ormai chiaro che i mandanti dei delitti del Mostro non erano certo Narducci e Calamandrei, ma personaggi ai più alti livelli dello Stato.
D’altronde anche alcuni particolari più piccoli coincidono.
Gli assassini avvenivano tutti nel quartiere londinese di Whitechapel (cappella bianca); uno dei delitti del Mostro di Firenze avvenne in località Villa Bianca; del resto, la famosa villa di cui tanto si parlò e che venne messa sotto sequestro, era (ed è) una bellissima villa completamente bianca.
Le vittime hanno subìto gravi mutilazioni ma in entrambi i casi sui corpi non c’era segno di violenza sessuale. E in entrambi i casi le mutilazioni sono fatte da mani esperte (ecco perché in entrambi i casi si parlò di un chirurgo e si indagò nell’ambiente medico).
Sia al procuratore Silvia Della Monica, a Firenze, che agli investigatori di Londra, vennero inviate per posta delle parti di cadavere.
Insomma. Queste due vicende non solo sono state volute dalla stessa organizzazione esoterica, l’Ordine della Rosa Rossa e della Croce d’Oro, ma hanno seguito andamenti molto simili tra loro; uccisioni molto simili, stesse tappe, stesse vicende, stessi protagonisti, e stesse conclusioni, quasi come un remake, come un film già visto. Come se fosse stato seguito un copione preciso fin dall’inizio.
Un film che poi ha lo stesso finale, perchè nessuno ha mai capito chi è l’assassino. Il che è logico, perché gli assassini sono molti, e i mandanti si trovano ai più alti vertici dello Stato, il che rende impossibile capire la verità effettiva.
Un’ipotesi sul movente.
A vedere le cose da questa angolazione, però, salta agli occhi in modo evidente una incongruenza apparente.
Non quadra il fatto che questa organizzazione, ovvero l’Ordine della Rosa rossa e della Croce d’Oro, nata nell’ambito della Golden Dawn, ha il potere di mettere a tacere tutto ciò che la riguarda e allora non si spiega il motivo per cui questi delitti siano stati compiuti alla luce del sole, con grande eco di stampa.
Ricordiamo ad esempio che tempo fa il Tg disse che erano stati trovati i corpi di tre prostitute in sacchi della spazzatura, tagliati a pezzi. Alla notizia è stato dedicato qualche secondo, e il cronista ha appena solo accennato all’ipotesi di un serial killer, ma nessuno si è occupato della vicenda.
A Roma, negli anni ’80, furono uccise dodici donne in due anni; delitti che, per le loro modalità, erano simili a quelli del Mostro (e anche dietro a questi c’era quasi sicuramente la Rosa Rossa), ma tutto è stato messo a tacere. Lo raccontiamo nell’articolo:
http://paolofranceschetti.blogspot.com/2008/09/dodici-donne-una-solo-assassino.html
In altre parole: quando su un omicidio rituale commesso dalla Rosa Rossa deva calare il silenzio (quindi quasi sempre, fatta eccezione per i soliti triti e ritriti delitti di Cogne, Erba, Meredith e Garlasco), il silenzio cala. Inesorabilmente. E senza che nessun giornalista se ne occupi davvero.
D’altronde nella mia breve esperienza in questi anni, sono venuto a conoscenza di stragi molto più efferate di quelle perpetrate a Londra e Firenze, e di cui nessun giornale o telegiornale si è mai occupato.
Allora viene spontaneo domandarsi come mai invece, per questi delitti, ci sia stata questa eco mediatica; e viene altrettanto spontaneo pensare che tale eco sia stata assolutamente voluta.
La domanda è perché? Perché l’organizzazione ha voluto dare la vicenda in pasto ai media?
Facciamo alcune considerazioni e poi traiamo le nostre conclusioni.
Salta agli occhi, a riflettere su questi delitti, che sono entrambi delitti della Rosa Rossa; ma soprattutto salta agli occhi la località.
Londra: luogo della nascita della Golden Dawn. La Rosa Rossa viene infatti fondata proprio nel 1887 da William Wynn Westcott (che era membro della Società Rosacrociana in Anglia), Samuel Liddell MacGregor Mathers e William Robert Woodman.
Ricapitolando… I delitti seriali di cui maggiormente si è parlato sono avvenuti proprio nelle città simbolo della Golden Dawn e dei Rosacroce, di cui la GD è una filiazione.
Non può essere un caso che su migliaia di città in Europa, i delitti di maggiore impatto su un intero continente, siano stati commessi proprio nelle città simbolo dell’organizzazione che li ha ideati ed eseguiti.
E a questo punto, il rilievo mediatico dato alla vicenda non può essere casuale, ma deve necessariamente essere voluto, come parte integrante del significato esoterico di questi delitti.
In realtà è probabilmente corretto affermare che le due città sono state scelte proprio perché sono fondamentali per la Golden Dawn. A livello esoterico, infatti, uccidere le vittime serve ad accrescere l’energia di chi uccide, e dell’organizzazione.
Quando i delitti hanno rilievo mediatico e vengono riproposti in TV in tutte le salse, a livello esoterico si ha un’amplificazione del significato esoterico di essi.
In tal senso credo che abbia ragione Gabriella Carlizzi quando dice che questi delitti sono compiuti per marcare il territorio.
A pag. 135 del libro di Gabriella Carlizzi “Gli affari riservati del Mostro di Firenze”, troviamo la spiegazione di alcuni delitti. Con riferimento al delitto della coppia francese Jean-Michel Kravechvili e Nadine Mauriot la Carlizzi sostiene che furono scelti due francesi per “fertilizzare” il territorio francese, ovverosia per rafforzare la potenza esoterica dell’organizzazione in territorio francese.
L’ipotesi è plausibile, in questo caso la stessa cosa vale per le due vittime tedesche Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch.
In altre parole queste due vicende, servivano a sacralizzare i territori di Londra e Firenze, consacrandoli alla Rosa Rossa, e accrescendo la forza dell’organizzazione per i suoi scopi a venire.
E per dispiegare gli effetti benefici di tali delitti non solo al territorio italiano, ma anche negli altri territori ove la Rosa Rossa è più potente, cioè la Germania e la Francia (ricordiamo poi che è proprio a Kassel, in Germania, che i Rosacroce fanno la prima apparizione pubblica; mentre la Francia è la nazione dove nasce l’Ordine Cabalistico della Rosacroce, fondata da Stanislav De Guaita e da Papus).
Tali delitti, dovevano essere pubblicizzati il più possibile, perché questo a livello esoterico accresce i benefici del “rito”, in tutti i sensi. Quindi la localizzazione territoriale di questi delitti, e la loro risonanza mediatica, erano senz’altro collegate all’importanza che questi due luoghi assumevano per l’intera organizzazione della Rosa Rossa.
Allora, dare eco mediatica a questi delitti significa indebolire le energie di chi ascolta il Tg o legge il giornale, e da questo indebolimento queste organizzazioni accrescono in realtà la loro forza.
Un po’ come la domenica alcune televisioni mandano la Santa Messa, la Rosa Rossa ha spesso cura che il valore mediatico di certi eventi venga enfatizzato ad arte affinché a livello esoterico gli effetti di questi riti vengano diffusi sulla popolazione.
La stessa cosa vale per tutti i delitti a cui è dato ampia eco mediatica.
Ecco spiegate quindi le oltre 30 trasmissioni di Bruno Vespa sul caso Cogne, ad esempio.
Ed ecco il motivo per cui sul Mostro di Firenze le notizie, le ipotesi, le ricerche, gli scoop, ecc… ancora non sono sopiti.
Ricapitolando, quindi, i delitti del Mostro di Firenze e quelli di Jack lo Squartatore furono delitti rituali, che servivano per sacralizzare i territori di Londra e Firenze, mentre il clamore su giornali e TV, serviva ad amplificare gli effetti di tale rito, propagandone gli effetti esoterici anche alla cittadinanza.
Le uccisioni, e tutte le conseguenze successive, compreso quindi l’immenso clamore dei mass media, sono state in realtà pianificate e volute e facevano parte del piano, fin dall’inizio.
Il giornalista del Sole 24Ore Roberto Galullo ha dedicato quattro puntate (16-19 giugno 2009) della trasmissione radiofonica “Un abuso al giorno toglie il codice d´intorno” al caso della strana morte del giovane urologo Attilio Manca.
Attilio Manca venne trovato morto in circostanze misteriose la mattina del 12 febbraio 2004 nel suo appartamento di Viterbo.
La sua morte fu causata dall´assunzione di un cocktail di farmaci, eroina ed alcool.
La procura di Viterbo, titolare delle indagini sulla morte dell´urogolo, ha chiesto per due volte l´archiviazione del caso come suicidio.
La famiglia Manca, assistita dall´avvocato Fabio Repici, si è opposta alla richiesta di archiviazione che è stata respinta dal giudice per le indagini preliminari Gaetano Mautone il 18 febbraio 2006.
La famiglia Manca ha evidenziato come diversi fatti inerenti gli ultimi mesi vita di Attilio smentiscano l´ipotesi del suicidio e rafforzino il sospetto che si sia trattato di un vero e proprio omicidio legato all´attività professionale di Attilio.
Il giovane urologo si trovò infatti nell´anno 2003 ad operare in strutture ospedaliere del sud della Francia ed è stato accertato che il capo di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, si fece operare alla prostata nell´ottobre 2003 in una clinica di Marsiglia.
La procura di Viterbo sembra intenzionata a chiedere per la terza volta l´archiviazione del caso come suicidio.
La famiglia Manca si oppone in modo netto a questa richiesta di archiviazione anche perchè ha constatato come le indagini coordinate dalla procura di Viterbo siano state lacunose ed incomplete.
Al fine di informare i lettori sul caso di Attilio Manca riportiamo alcune delle importanti dichiarazioni rilasciate da Gianluca Manca, fratello di Attilo, e dall´Avv. Fabio Repici durante la trasmissione radiofonica condotta da Roberto Galullo per Radio24.
1) “La strana morte di Attilio Manca”, puntata del 16 giugno 2009, intervista di Roberto Galullo a Gianluca Manca:
Roberto Galullo: “Può dire sinteticamente, dott. Manca, perchè quel suicidio appare così strano ad un uomo di legge come lei ed al sentire comune in un certo senso. Basta infatti andare a leggere quello che riporta il sito che avete dedicato a suo fratello, http://www.attiliomanca.it/, per rendersi conto di una serie di incredibili avvenimenti. Prego dott. Manca”.
Avv. Gianluca Manca: “Brevemente posso riassumere gli elementi essenziali che ci fanno ravvisare che si tratti di omicidio. Innanzitutto come è stato ritrovato Attilio. Inizialmente ci dissero che Attilio era morto per un´aneurisma celebrale, mentre poi si accertò che era morto per un cocktail di farmaci e sostanze stupefacenti che sono state rinvenute all´interno del suo organismo”.
Roberto Galullo: “Ricordiamo che suo fratello non era un tossicodipendente. Nel suo corpo sono stati rinvenuti oltre che i principii attivi dell´eroina anche quelli di sedativi abbastanza potenti”.
Gianluca Manca: “Sì, sono state rinvenute anche tracce di alcool. Attilio non era tossicodipende. Consideri tra l´altro che Attilio operava dal lunedì al giovedì e, fatta eccezione per alcuni giorni, Attilio era sempre in sala operatoria dalla otto del mattino al pomeriggio inoltrato. Una persona che avesse fatto di sostanze stupefacenti era molto improbabile che potesse tenere ferma la propria mano e che l´ospedale Belcolle potesse fare affidamento su una persona che fosse tossicodipendente. La cosa più strana è che Attilio era un mancino ed operava addirittura con la mano sinistra. Gli unici due buchi che sono stati trovati all´interno del corpo di Attilio sono sul braccio sinistro”.
Roberto Galullo: “Potete trovare sul sito una serie infinita di stranezze tra le quali quella di un setto nasale rotto segno di una collutazione o forse di un omicidio avvenuto in precedenza perchè poi stranamente la stanza era in perfetto ordine.
Sul sito troverete una cosa straordinaria: Attilio era tra i pochi chirurghi in Italia, parliamo di una decina di anni fa, in laparoscopia segnatamente per la prostata. Aveva studiato in Francia, aveva affinato le sue tecniche in Francia, era uno dei migliori allievi che avevamo in Italia.
Perchè questo è importante? Perchè Attilio Manca nell´ottobre del 2003 si reca in Francia a Marsiglia. Contemporaneamente chi c´è in quel periodo a Marsiglia? Una persona molto educata, molto in gamba: si chiama Bernardo Provenzano, un vanto per l´Italia. Fu operato sotto falso nome con una serie di complicità incredibili.
Perchè altrimenti uno non parte probabilemente dal messinese ed arrivare lì ed operarsi.
I destini di Attilio Manca e Bernardo Provenzano sembrano incrociarsi. Perchè dico sembrano? Dobbiamo rendere atto a degli atti ufficiali che parlano di archiviazione, ma dobbiamo anche rendere atto all´intelligenza della famiglia che vuole perseguire la ricerca della verità. Allora sig. Manca, suo fratello e Bernardo Provenzano erano contemporaneamente nello stesso periodo a Marsiglia. È così?”
Gianluca Manca: “Consideri che il setto nasale di Attilio è stato trovato totalmente deviato ed il suo volto tumefatto. All´inizio le persone che rinvenirono Attilio ci dissero che il setto nasale era stato deviato perchè Attilio era caduto su un telecomando. Attilio cade su un letto matrimoniale e la cosa strana è comunque che il telecomando non fu trovato sotto il suo volto bensì sull´avambraccio.
Roberto Galullo: “Io direi di andare però a questa fatidica data dell´ottobre del 2003 in cui il destino di suo fratello sembra incrociarsi con quello di Provenzano.”
Gianluca Manca: “Consideri che mio fratello fece una telefonata che non è mai stata trovata o che non si è voluta mai trovare.
Mio fratello parlò con i miei genitori, credo con mia madre, dicendole che si trovava sulla costa azzurra, dicendo che si trovava lì perchè doveva effettuare un intervento, non dicendo però ovviamente a chi doveva effettuare questo intervento. La cosa strana è che i miei genitori chiesero al procuratore che si occupa del caso di Attilio se era possibile trovare questa telefonata.
Non solo non rinvenirono questa telefonata, ma addirittura questa telefonata é sparita. Gli dissero che non si trovava anche l´ultima telefonata fatta da Attilio pochi giorni prima di morire ai miei genitori. L´ultima telefonata dell´undici di febbraio ci era stata confermata anche dallo stesso dirigente della squadra mobile di Viterbo”.
Roberto Galullo: “Nel sito c´è anche un´onesta autocritica perché troverete che ad un certo punto entra in ballo un personaggio, un cugino dei fratelli Manca, che si chiama Ugo Manca, che ha dei precedenti penali ed una storia abbastanza pesante di contiguità con ambienti mafiosi e malavitosi.
Le chiedo questo Manca: ammesso e non concesso che suo fratello abbia operato Bernardo Provenzano, quali segreti doveva custodire per giungere ad una morte così cruenta?”
Gianluca Manca: “Io credo che Attilio non custodisse dei segreti, io suppongo che probabilmente Attilio abbia capito quale fosse la rete che proteggeva Bernardo Provenzano e che partiva dal nostro paese di Barcellona Pozzo di Gotto sino ad arrivare alle Istituzioni politiche molto grosse di quel periodo.
Probabilmente alcune di esse fanno ancora parte delle cosiddette Istituzioni deviate.
Probabilmente lui all´inizio non capì che si trattasse di Bernardo Provenzano, probabilmente sentendolo alla radio o alla televisione lui capì che la persona che stava operando poteva trattarsi presumibilmente di Bernardo Provenzano”.
2)”La strana morte di Attilio Manca”, puntata del 17 giugno 2009, Roberto Galullo intervista l´Avv. Fabio Repici:
Roberto Galullo: “Vorrei partire da un dato che non abbiamo affrontato con Gianluca Manca. Ne abbiamo dette tante di stranezze ma oggi io vorrei partire con lei da un´altra stranezza che forse è più vicina alla sua professione di avvocato. Gianluca Manca ci diceva che mai sono stati fatti dei controlli incrociati sui tabulati telefonici sul cellulare di Attilio Manca. Se questo è vero cosa vuol dire?”
Avv. Fabio Repici: “L´azione della Procura di Viterbo fin dal ritrovamento del cadavere di Attilio Manca si è caratterizzata per l´assoluta lacunosità.
Le indagini sono state fatte poco e male. Direi pochissimo e malissimo.
Fin dal primo momento in cui ho io iniziato ad occuparmi del caso segnalai l´opportunità di fare le acquisizioni di tabulati telefonici sia di Attilio Manca sia di altri soggetti il cui rilievo emergeva dalle indagini.
In realtà ciò venne fatto solo per acquisizioni relative a brevissimi periodi ed in modo così confuso e superficiale che la squadra mobile di Viterbo ha attestato in un´informativa dei dati che erano esattamente contrari alla realtà.
Additrittura in un caso affermarono l´insussistenza di contatti telefonici fra Attilio ed il cugino Ugo Manca, uno degli indagati, nonostante da quei pochi tabulati acquisiti le telefonate risultassero.”
Roberto Galullo: “Lei ha ricordato che Ugo Manca è il cugino di Attilio e Gianluca Manca. Si tratta di una persona non propriamente di specchiata moralità ed onestà. Questo va dato atto alla famiglia Manca perchè leggendo anche sul sito trovate la storia di questo personaggio che in primo luogo la stessa famiglia pone in evidenza proprio perché non così “pulito”.”
Fabio Repici: “Più che la stessa famiglia è il comportamento dello stesso Ugo Manca nell´immediatezza del ritrovamento del cadavere di Attilio Manca”.
Roberto Galullo: “Qual è stato il ruolo del cugino e si è indagato abbstanza sul suo ruolo?”
Fabio Repici: “Ribadisco: quanto alle indagini si è fatto poco e male.
Non si è indagato abbastanza su nulla.
Quanto al ruolo del cugino, al momento dell´arrivo della notizia a Barcellona Pozzo di Gotto circa il ritrovamento del cadavere di Attilio Manca, notizia che per puro paradosso ai genitori di Attilio Manca è arrivata tramite il padre di Ugo Manca, attraverso un canale contorto di comunicazioni partito dall´ospedale di Viterbo, Ugo Manca si è messo in luce per un insolito attivismo funzionale ad impedire che i genitori di Attilio Manca, ed in particolare la madre, partissero immediatamente per Viterbo.
L´intervento era mirato anche alla presenza di Ugo Manca a Viterbo.
Fatto sta che Ugo Manca nella notte fra il 12 ed il 13 febbraio 2004 si precipitò a Viterbo dove arrivò nella mattina del 13 con un comportamento che lasciò sbigottiti coloro che lo videro perchè si presentò alla procura di Viterbo per chiedere il dissequestro dell´immobile dell´abitazione di Attilio Manca con giustificazioni che sembravano delle arrampicate sugli specchi perchè disse che doveva andare lì per andare a reperire degli abiti per il cadavere di Attilio Manca ed altri comportamenti di questo tipo”.
Roberto Galullo: “Tra gli elementi che la famiglia Manca pone come strani c´è anche quello che l´autopsia sul cadavere di Attilio Manca è stata condotta dalla moglie del professor Rizzotto che era il primario del reparto di urologia dell´ospedale di Viterbo ed era messinese.
Così come della provincia di Messina era Attilio Manca, di Barcellona Pozzo di Gotto. L´autopsia è stata condotta, voi dite, in maniera superficiale dalla moglie del prof. Rizzotto, medico legale. È normale che la moglie di un primario esegua l´autopsia sul cadavere del vice-primario di quel reparto?”
Fabio Repici: “Qui il problema non è se sia normale che a condurre l´autopsia sia la moglie del primario. Qui sono dei dati documentali. Quanto alla superficialità dell´autopsia lo dicono le stesse carte dell´autopsia perchè il medico legale visitò il cadavere di Attilio Manca già nella mattina del dodici ed il tredici condusse gli accertamenti autoptici e non fu in grado di affermare un dato che era il più rilevante nell´immediatezza delle indagini e cioè la data e l´ora della morte di Attilio Manca, cioè la prima cosa che un medico legale deve fare quando fa un´autopsia.
Consideri che è rimasto ancor oggi un buco nero nelle indagini perchè abbiamo ormai prova che la morte di Attilio Manca sia avvenuta nella notte fra l´undici ed il dodici febbraio dell´anno 2004 e dunque si ha la prova che non abbiamo alcuna notizia di tutto ciò che Attilio abbia fatto nell´ultima giornata dell´undici febbraio 2004.
Le ultime sue notizie risalgono alla sera del dieci febbraio.
Quanto al ruolo del medico legale, qui la stranezza non riguarda il fatto che il medico legale è la moglie del primario.
Il problema è che prima ancora che il medico legale ricevesse l´incarico dalla procura, la stessa procura aveva già sentito come testimone il marito.
Quindi qui il consulente tecnico del pm è la moglie del testimone.
E poichè la prima cosa che un consulente tecnico è chiamata a fare quando assume un incarico è di segnalare l´insussistenza o meno di ragioni a ricevere l´incarico, mi pare ovvio che…
Di cosa pensate che abbiano parlato a tavola la sera del dodici febbraio marito e moglie, se non della morte di Attilio Manca? E poi il tredici febbraio la signora dott.ssa Ranelletta firma un verbale in cui attesta l´insussistenza di incompatibilità ad assumere l´incarico. E non sapeva che il marito era già stato sentito come testimone?”
Roberto Galullo: “Le voglio chiedere un´ultima cosa. Quanti poteri si saranno mossi affinchè a suo giudizio la morte di Attilio Manca come eventuale omicidio diventasse un suicidio?”
Fabio Repici: “Guardi io non voglio fare illazioni e fare affermazioni che possano far immaginare chissà cosa.
Qui il punto è uno e ci tengo a sottolinearlo.
Nel resto del paese non si è ancora compresa la centralità nelle dinamiche criminali dell´intera nazione che assume un luogo che si chiama Barcellona Pozzo di Gotto che è il luogo da cui è partito Attilio Manca e da cui sono partiti molti degli indagati per la sua morte.
È un luogo che nell´ultimo quindicennio della storia di Cosa Nostra è servito per la tutela della latitanza dei più importanti boss di Cosa Nostra”.
3) “La strana morte di Attilio Manca”, puntata del 18 giugno 2009, Roberto Galullo intervista Guido Travaini, professore di Principi di diritto presso la facoltá di Medicina dell´Università di Milano, e Claudio Bossi, esperto di psicopatologia forense.
4) “La strana morte di Attilio Manca”, puntata del 19 giugno 2009, Roberto Galullo intervista il prof. Antonio Rizzotto, primario di urologia presso l´ospedale Belcolle di Viterbo.
Dal sito: www.19luglio1992.com
http://paolofranceschetti.blogspot.com/2009/06/la-strana-morte-di-attilio-manca.html
DA OLTRE 35 ANNI IN LOTTA PER L’EREDITA’
Sono le figlie legittime ma non hanno diritto all’ eredità. Ida e Grazia Mazziotti, ultranovantenni, hanno combattuto per oltre 35 anni nelle aule di giustizia italiane. Sino alla Suprema Corte di Cassazione. Per essere prese in giro.
Questo pare essere l’amaro epilogo di una vita dedicata a fare emergere la giustizia, rivendicando i loro sacrosanti diritti ereditari.
Infatti, se la corte d’appello aveva, almeno in parte, dato loro ragione, la Cassazione ha cancellato quella sentenza «con tre righe». I giudici del Palazzaccio, secondo l’ avv. Paolo Gamberale che ha cercato di ottenere la revocazione straordinaria della scandalosa sentenza sono incorsi in una «svista». Un «errore di fatto», per rimediare al quale l’ordinamento, in sede civile, offre una unica possibilità, quella di ottenere l’ annullamento della decisione, ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c.
La storia è una storia d’altri tempi. Che comincia alla fine dell’Ottocento in Calabria, a Saracena, provincia di Cosenza. Qui il barone Giovanbattista Mazziotti, avvocato, possiede circa 120 ettari di terreni e fabbricati rurali. È ricco e celibe, ma non è solo: ha una relazione con Tommasina Ferrari, sposata e abbandonata da un marito che è emigrato in America subito dopo il matrimonio e non è più tornato. In 40 anni, tanto dura il legame «clandestino», vengono al mondo tre maschi e tre femmine. Fra cui Grazia e Ida, oggi, sono le sole superstiti. «Il barone – ci racconta una nipote delle anziane signore, Vittoria Maradei – allevò e si curò dell’educazione e della crescita dei figli, ma non riconobbe mai la paternità». I rampolli ebbero il cognome del padre sparito, Di Pace, e quando Mazziotti morì, nel 1969, scoprirono che il patrimonio già non c’ era più. La metà era stata regalata al nipote (da parte del fratello) Domenico, anch’ egli avvocato, in occasione delle sue nozze: anno 1945. Altri 60 ettari erano stati ceduti, sotto forma di rendita vitalizia, al pronipote dodicenne, Carlo, nel 1958. Il testamento, per quel poco che restava, nominava erede universale ancora Domenico Mazziotti, l’attuale controparte delle cugine. La causa inizia il 31 agosto ‘ 71, quando due dei figli del barone già non ci sono più. Inizia e subito finisce, in quanto gli altri quattro fratelli Di Pace non possono dimostrare che il padre, in realtà, è un altro. La corte d’appello, alla quale si rivolgono dopo la sconfitta in tribunale, sospende il giudizio in attesa dell’ accertamento della paternità, sentenza che si fa attendere 15 anni. Ma è il passaggio fondamentale. I Di Pace (a questo punto Mazziotti) riprendono la vertenza e vincono il primo round: le sorelle (anche il terzo fratello nel frattempo è morto) sono le eredi legittime, benchè possano aspirare soltanto al recupero dei pochi beni elencati nel testamento e della donazione nuziale del ‘ 45. Per la parte ceduta al pronipote, invece, non c’ è nulla da fare. Per motivi diversi la sentenza viene impugnata sia dalle figlie del barone (ormai due), sia da Domenico Mazziotti. Questi sostiene che il regalo avuto dallo zio per il matrimonio non può essergli sottratto, perchè le eredi hanno tralasciato di sottoporre la questione al collegio quando la causa è ricominciata, nel ‘ 98. La tesi, bocciata dai giudici d’ appello, viene invece accolta dalla Cassazione. E le anziane sorelle si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Per le signore Mazziotti è una doccia fredda. Ma come? La donazione nuziale, spiega l’ avvocato Gamberale, era menzionata alle pagine sette e otto del ricorso per l’eredità. Si è trattato senza dubbio di un errore «obiettivamente e immediatamente rilevabile». Che, si augurano Ida e Grazia, la Suprema Corte possa cancellare, come riferisce, Lavinia Di Gianvito, nella minuziosa ricostruzione dei fatti pubblicata sul Corriere della Sera e sopra riassunta.
Ma le cose non vanno come dovrebbero. L’elementare diritto di eredi legittime, “scippato” dal potente cugino (Domenico Mazziotti), vicino alle locali logge templari, non viene ancora una volta riconosciuto, neppure in sede revocatoria.
Della lunga odissea giudiziaria delle due anziane sorelle, che ha le sue origini nella Calabria latifondista e baronale, dove il padre Avv. G. Mazziotti ha una relazione durata 40 anni, con la madre delle sorelle, già coniugata con un precedente marito (che dopo il matrimonio l’abbandonava, emigrando in America), ne da notizia anche la stampa nazionale, nonché la trasmissione televisiva Mi Manda Rai 3, ben illustrando grazie alla nipote Vittoria Maradei, gli inquietananti retroscena ambientali che hanno impedito alle due battagliere vecchine di ottenere il riconoscimento dell’ingente patrimonio paterno, costituito da vari fabbricati, 120 ettari di terreno e conseguenti rendite per il valore di svariati miliardi delle vecchie lire.
Si trattava, in un buona sostanza, di smascherare una lampante simulazione di una finta donazione che il padre fece al nipote e pronipote Domenico Mazziotti, escogitata in punto di morte (il padre Giovanbattista Mazziotti morì nel 1969), dietro minacce, per diseredare completamente i figli naturali, mai riconosciuti, nemmeno nel testamento, seppure la madre e il padre avessero com già detto vissuto “more uxorio”, per oltre 40 anni, unitamente ai figli, sotto lo stesso tetto, in un rapporto famigliare quasi perfetto, pur non essendosi mai, formalmente, sposati, a causa delle resistenze della famiglia paterna che vantava altolocate discendenze templari, ritenendo la madre, Ferrari Tommasina, di umili origini.
A tale contesto etnosociologico, in cui nel corso degli anni è stato tentato veramente di tutto per impedire alle eredi legittime di intraprendere la causa e di proseguire l’azione intentata nei confronti del cugino, si aggiunge il contesto clientelare della giustizia, che impedisce di ottenere quella giustizia, apparentemente elementare, codificata prima nella Costituzione, eppoi nel codice civile, con l’equiparazione legale e sostanziale dei figli naturali a quelli legittimi.
LA SCANDALOSA LUNGAGGINE E RETROSCENA DELL’ITER PROCEDIMENTALE
Nel 1970, dopo varie peripezie e rifiuti, dipesi, soprattutto, dalle reticenze dell’ambiente calabrese (Castrovillari è ai piedi del Pollino), ancora caratterizzato da una sorta di feudalesimo, le sorelle riuscirono finalmente a trovare un avvocato disposto ad intraprendere la causa – cosa di per sè a volte difficile anche al nord in casi consimili – al fine di ottenere di essere riconosciute figlie legittime del padre che non volle mai riconoscere i figli coi quali visse fino alla morte insieme alla sua convivente perché questa, non aveva origini sociali ritenute dalla famiglia compatibili con il matrimonio.
Ma, ciò che pur appare “prime facie” un diritto naturale, nell’attuale aberrante sistema di tacite connivenze, contiguità e aperte collusioni istituzionali, privo di effettivi controlli sull’operato della magistratura, assai spesso non trova quella equa riparazione che ogni persona di buon senso e buona fede si aspetta. Ciò, semplicemente, perché molto spesso gli interessi lesi da riconoscere riguardano le logge massoniche, i locali ambienti forensi, la politica, l’economia e, insomma, chi insomma gode di <protezioni altolocate>, con capacità di pilotare le decisioni su magistrati compiacenti – e, nel caso, se necessario – oliare i meccanismi del potere decisionale, sino alla Suprema Corte di Cassazione.
Ed è così che una semplice causa ereditaria di facile soluzione, quando le controparti sono affiliati a fratellanze, consorterie politico-affaristiche od amici di amici, viene, scientemente, aggrovigliata e dilatoriamente rinviata sine die la sua definizione, per rendere impossibile alle malcapitate vittime di tali artefizi e manovre processuali, il riconoscimento di quegli elementari diritti che in un paese normale e con una magistratura veramente indipendente verrebbero affermati nel giro massimo di tre anni.
Nella specie, dopo ben 35 anni, tenuto conto che le anziane sorelle 92enni erano ancora in vita e non si davano pace, interviene nel novembre 2004, una prima sconcertante sentenza della II sezione civile della Corte di Cassazione (Relatore Dr. Schettino, C. n. 21903/04) che, contro il parere dello stesso Procuratore Generale, con poche righe, incorrendo in palesi errori di fatto e nell’erronea lettura di atti interni, annulla ben 35 anni di cause, cassando la precedente sofferta decisione della Corte d’Appello di Catanzaro, favorevole alle sorelle, con la quale erano stati, invece, riconosciuti i loro diritti di eredi.
E’ a questo punto che viene inoltrato ricorso per revocazione, ex art. 391 bis c.p.c., fondato sull’errore di fatto, contenuto nella sentenza di annullamento della decisione della Corte di Appello di Catanzaro, che riconosceva la ricostruzione dell’asse ereditario e la riduzione della cosidetta “donazione obnuziale”, attraverso cui il cugino si è indebitamente impossessato dell’intero patrimonio ereditario. Il ricorso straordinario viene ancora una volta respinto con motivazioni palesemente capziose, senza tenere in alcun modo conto delle specifiche censure mosse dal legale alla precedente sentenza (C. n. 22835/05).
L’epilogo di questa esemplare quanto amara vicenda dimostra non trattarsi di mero “errore revocatorio”, come abilmente cercato di rappresentare dal difensore per mediare (a cui i giudici di Cassazione ove in buona fede ben avrebbero potuto porre rimedio), bensì di vero e proprio “dolo revocatorio”, disciplinato dall’art. 395 c.p.c., sia da parte dei membri del collegio giudicante sia dello stesso P.G. di udienza, che in stridente contrasto con il precedente favorevole parere già espresso nel pregresso giudizio di legittimità, oggetto di revocazione, chiedeva del tutto inopinatamente il rigetto del nuovo ricorso.
Dall’esame degli atti risulta infatti in maniera eclatante e incontrovertibile la sussistenza del dolo revocatorio in cui è incorsa per ben due volte consecutive la Cassazione, in quanto è falso che nel precedente ricorso avanti alla Corte di Appello di Catanzaro “non siano state riproposte le domande di riduzione della donazione“, come capziosamente e infondatamente affermato nelle decisioni contestate da avvocati senza frontiere, che si ritengono l’effetto di probabili oscure pressioni e interessi, oltre che affette da palesi falsità ideologiche e dolo degli organi giudicanti, stante la gravità del loro comportamento sul piano strettamente giuridico e giurisdizionale. Attraverso tale espediente i giudici di Cassazione hanno probabilmente inteso continuare a favorire una parte in danno dell’altra, ragione per cui è stato ipotizzato il reato di favoreggiamento, falso ideologico, abuso continuato e interesse privato in atti di ufficio, oltre che di associazione a delinquere, come denunciato alla Procura di Potenza. C’è da augurarsi che vengano svolte tutte le opportune indagini nei confronti dei magistrati giudicanti per restituire credibilità alle decisioni della Suprema Corte di Cassazione e la fiducia di tutti quei cittadini onesti che hanno speso la loro vita i patrimoni alla ricerca della verità e della giustizia, come le sorelle ultranovantenni Ida e Grazia Mazziotti.
http://archiviostorico.corriere.it/2005/ottobre/09/anni_lotta_per_eredita_co_10_051009106.shtml
UNA DELLE ULTIME TROVATE XENOBE E RAZZISTE DI CERTUNA MAGISTRATURA.
Il caso è sicuramente unico nel suo genere. La denuncia ci perviene dai nostri legali locali di Avvocati senza Frontiere.
Dopo il decreto Pisanu, a favorire l’espulsione immediata degli immigrati ci pensa il Tribunale di Pordenone con l’ultima trovata di sapore xenofobo e razzista, in base alla quale è ammesso lo sfratto, anche “inaudita altera parte” e pur in assoluta assenza di qualsiasi forma di morosità e a contratto di locazione vigente. A condizione si tratti di prostituta extracomunitaria.
In altre parole, l’intraprendente tribunale ha ammesso l’immediata esecuzione di rilascio di un appartamento sito nel centro di Pordenone, di proprietà di un avvocato locale, senza neppure peritarsi di citare l’inquilina extracomunitaria (asseritamente prostituta), disponendone l’immediato rilascio, ciò nonostante il contratto fosse pienamente vigente e la locatrice avesse versato tutti i canoni di locazione pattuiti, offrendone tra l’altro prova una volta venuta a conoscenza dell’ordinanza di sfratto.
Il provvedimento di rilascio risulterebbe essere stato emesso dal G.U. dr.ssa Zoso.
Il caso è stato denunciato ad Avvocati senza Frontiere da DE LOS SANTOS SUFRAN MIRIAM, 53enne, di origine Domenicana, che viveva già da oltre 20 anni in Italia, dopo aver convolato a nozze con un cittadino italiano, da cui ha avuto una figlia.
Dal punto di vista giuridico non vi erano quindi ragioni di sorta per legittimare il provvedimento e dare corso all’esecuzione di sfratto, anche in considerazione del fatto che la Signora De Los Santos risultava regolarmente abitare da tempo nell’immobile, oggetto della singolare esecuzione, per cui non ha mai ricevuto nessuna formale richiesta di rilascio, sino al giorno dello sfratto.
A questo punto, appare quindi naturale domandarsi con quale machiavellico espediente i giudici pordenonensi e il proprietario dell’appartamento, di professione avvocato, siano riusciti ad aggirare la legge che garantisce a tutti i conduttori, senza distinzione di razza e professione, di godere della cosa locata per tutta la durata del contratto. In punto va precisato che in materia di rilascio di immobili ad uso abitativo, anche in caso di asserita occupazione abusiva, vi è l’obbligo di citare la parte resistente e di emettere l’ordinanza di rilascio in contraddittorio tra le parti.
L’avvocato-proprietario chiede con ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. che l’alloggio, formalmente intestatato a tale P.A. (detenuto in attesa di giudizio), venga immediatamente liberato, assumendo che questi, accusato di reati inerenti il favoreggiamento della prostituzione, lo avrebbe utilizzato a suo dire “per ritrovi a tutte le ore del giorno e della notte, provocando nocumento agli inquilini e al pubblico decoro“. Ed è così che il Giudice, dr.ssa Toso, prendendo per oro colato le non certo disinteressate dichiarazioni del legale, ritiene di potere eludere le procedure di legge, disponendo lo sfratto coattivo, senza neppure convocare la convivente domenicana e la figlia minore sentendo le loro ragioni difensive.
Che le cose non stessero proprio come affermato dall’avvocato-proprietario, ben poteva desumersi dal fatto che, seppure sollecitato dai difensori della resistente, non volle concedere neppure un breve rinvio di gg. 10, temendo evidentemente nella revoca del provvedimento di rilascio inaudita altera parte. Senza parlare della macroscopica lesione del diritto difesa, derivante dal fatto che l’intestatario originario del contratto era in carcere e nell’impossilità di comparire e difendersi.
Non si vede quale urgenza abbia mosso il giudice a provvedere al frettoloso rilascio coattivo dell’abitazione, anche tenuto conto del fatto che l’esecutata viveva lì con la figlia minore, senza disporre di altra dimora, e che l’eventuale accertanda responsabilità penale ascritta al suo convivente è personale. La Signora De Los Santos non era infatti accusata di alcun reato, risultando per contro pagare regolarmente l’affitto e vivere nell’immobile da lungo tempo. Lo stesso Ufficiale Giudiziario, dando prova di civismo e rispetto della legalità, dietro richiesta dei legali di Avvocati senza Frontiere, ritenne sospendere lo sfratto, rivolgendo al Giudice incidente di esecuzione, richiedendo una breve proroga, onde consentire alla De Los Santos di presentare opposizione e/o reperire altra abitazione. Ciò nonostante, la dr.ssa Zoso confermava di procedere immediatamente, senza, neppure concedere all’inquilina dominicana, la possibilità, prevista dalla legge, di ritirare mobili ed effetti personali, come di norma avviene in ogni parte d’Italia, tra persone civili, dotate di senso di umanità e giustizia.
Alla minaccia di denunciare sia il giudice che l’avvocato procedente per concorso in violenza privata aggravata, abuso continuato in atti di ufficio, falso ideologico e violazione di domicilio, la reazione delle pubbliche Autorità locali a cui la vittima si è rivolta è stata quella di impedire alla sig.ra De Los Santos di ottenere persino “asilo politico“ dal parroco, a scopo umanitario.
Con i soliti metodi e avvicinamenti fu riferito al parroco, pare dai carabinieri, che la persona che si accingeva ad ospitare con la figlia era una “ex prostituta”. Raccomadazione che non solo impediva alla povera donna priva di mezzi di trovare ospitalità e altra idonea dimora in loco, ma addirittura di ritirare i propri effetti personali e arredi che senza alcun motivo, subito dopo l’illegittimo sfratto, venivano immediatamente bruciati nell’inceneritore, quasi a voler simbolicamente mondare e punire chi si era macchiato della “colpa” di avere la pelle nera e di avere denunciato il potere.
La persecuzione non finirà qui ma quella è un’altra storia.