Archivio Autore: Palau Giovannetti Pietro - Pagina 12

GIUSTIZIA CRIMINALE UCCIDE DISABILE-BAMBINO CON ETA' MENTALE DI TRE ANNI

DIETRO LE SBARRE

Muore un disabile nel carcere di Sanremo
Età mentale tre anni e pesava 186 chili

Fernando Panicci aveva 27 anni e avrebbe terminato di scontare la pena il 31 dicembre del 2011. Era invalido al 100%, affetto da ritardo mentale, epilettico, semiparalizzato, incapace di parlare correttamente. Per la prima volta in cella a 19 anni, per il furto di 3 palloni di cuoio in una palestra.

di CARLO CIAVONI

Muore un disabile nel carcere di Sanremo Età mentale tre anni e pesava 186 chili

SANREMO – Ragionava come un bambino di 3 anni, pesava 186 chili ed aveva 27 anni. Si chiamava Fernando Paniccia. Sono i tratti essenziali dell’ennesimo detenuto morto per “cause naturali”, questa volta nel carcere di Sanremo, ma che faceva parte dell’incredibilmente lunga schiera di oltre 500 persone disabili gravi rinchiuse nelle celle del sistema penitenziario italiano. Gente per la quale l’espressione “diritto alla salute” risulta, nè più né meno, come un suono senza alcun senso. Salgono così a 171 i detenuti morti nel 2010, di cui 65 per suicidio, gli altri per cause “naturali”, secondo l’attentissimo osservatorio di Ristretti Orizzonti 1, organizzazione di volontariato che monitorizza costantemente la vita dei circa 65 mila detenuti nelle carceri, costretti in uno spazio destinato a non più di 43 mila persone. 

Solo piccoli reati. Fernando Paniccia avrebbe terminato di scontare la pena il 31 dicembre del 2011. Era invalido al 100%, affetto da ritardo mentale, epilettico e semiparalizzato. Era entrato in carcere per la prima volta a 19 anni, per il furto di 3 palloni di cuoio in una palestra, e da allora era stato più volte arrestato per piccoli reati di cui probabilmente non era nemmeno consapevole, poiché la sua capacità di comprensione era, appunto, quella di un bambino di tre anni, incapace di muovere le mani, di parlare correttamente e controllare gli stimoli fisiologici. Eppure, nonostante l’evidente

deficit mentale, venne arrestato e richiuso in cella, fin dalla prima volta, quando caricò su un furgoncino tre palloni di cuoio presi nel piazzale antistante un centro sportivo della sua città.

Non riusciva a dimagrire. Paniccia era nato a Frosinone, ed è stato ucciso probabilmente da un arresto cardiaco. Le sue condizioni di salute erano critiche da tempo a causa dell’obesità. Nonostante l’interessamento dei sanitari, non era riuscito a dimagrire. Il giorno di Natale aveva accusato un malore. Ieri mattina il suo compagno di cella lo ha chiamato, ma inutilmente. Il sostituto procuratore Antonella Politi ha disposto che venga effettuata l’autopsia.

I detenuti disabili in carcere. Il dato, fornito dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) riguarda la disabilità motoria e sensoriale ed è fermo al dicembre 2008. La maggioranza di detenuti disabili è in Lombardia (121), seguita da Campania (96) e Lazio (51). A Fossombrone, nelle Marche, sono detenuti 28 ipovedenti. Nel dicembre del 2008 nelle carceri italiane erano presenti 483 detenuti con disabilità motoria o sensoriale. Questo il dato più recente sulla presenza della disabilità in carcere in possesso dell’Ufficio Servizi sanitari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un’identica rilevazione per il 2009 manca: “Le schede destinate alla compilazione erano state inviate anche lo scorso anno alle direzioni degli istituti di pena – spiegano dall’ufficio – ma l’indagine non è stata realizzata”.

Il primato alla Lombardia. La regione italiana con il maggior numero di detenuti disabili risulta essere la Lombardia: alla fine del 2008 negli istituti di pena della regione risultavano reclusi 121 detenuti con disabilità fisica e motoria, di cui 13 a San Vittore e 82 a Opera. Fra le regioni più “affollate” anche la Campania con 96 detenuti, il Lazio (51), le Marche (34, di cui 28 ipovedenti detenuti nella struttura di Fossombrone) e la Toscana (31). Seguono Sicilia (34), Piemonte e Valle d’Aosta (23), Veneto, Trentino e Fvg (20), Puglia (17), Emilia-Romagna (16), Sardegna (16), Calabria (14), Umbria, Abruzzo-Molise, Liguria (tutte con 3 detenuti) e, infine, Basilicata (1).

L’incompatibilità con il carcere. La malattia e la disabilità non sono incompatibili con la detenzione. Anzi accade spesso che chi varca la soglia del carcere porti con sé gli esiti di un trauma o di una malattia che hanno ridotto le sue capacità motorie o mentali. “Non esiste in Italia una normativa specifica per i detenuti disabili”, afferma Francesco Morelli, di Ristretti Orizzonti. “Uno dei principali riferimenti normativi per la disabilità in carcere – spiega Morelli – è l’articolo 47 ter dell’Ordinamento Penitenziario, relativo alla detenzione domiciliare”: in base al comma 3, “la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando trattasi di persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali”. 

 28 dicembre 2010

www.larepubblica.it

MARCELLO LONZI. MORTO IN CARCERE CON 8 COSTOLE ROTTE E 2 BUCHI IN TESTA PER UN INFARTO

La pena di morte è stata abolita dalla Costituzione nel 1948. In carcere muoiono però ogni anno più di 100 detenuti in circostanze misteriose. Ad esempio un ragazzo può morire di infarto a Livorno, lo dice il medico del carcere, con otto costole rotte, due denti spezzati, due buchi in testa, mandibola, sterno e polso fratturati. Di infarto, non a causa di un pestaggio. Marcello Lonzi, un ragazzo, era stato condannato per tentato furto, nove mesi di reclusione. Sua madre vuole la verità e le scuse dallo Stato che avrebbe dovuto vigilare sulla vita di suo figlio.

Intervista a Maria Ciuffi, mamma di Marcello Lonzi.

Otto costole rotte, due buchi in testa per un infarto.
“Sono Maria Ciuffi, la mamma di Marcello Lonzi, morto l’11 luglio 2003 nel carcere Le Sughere a Livorno. Fu arrestato per tentato furto, nove mesi di reclusione, dopo quattro mesi mio figlio muore. Nessuno mi avverte, non vengo avvertita né dai Carabinieri né dalla Polizia, ma soltanto da una zia il giorno 12 alle 13: 20, quando mi vengono a avvertire a casa, dicendo che mio figlio è morto. Io ho detto “ E’ impossibile, sarà un errore!”,corro al carcere e dopo un’ora e mezzo – ricordo benissimo – sotto il sole mi vengono a dire che mio figlio non c’era, ma che gli stavano già facendo l’autopsia. Naturalmente non ero in me con la testa, ero in confusione e non ho mai pensato, in quel momento, di mettere un perito di parte. A settembre rientra il Pubblico Ministero che aveva svolto le indagini e mi dicono che è morto d’infarto, però quando l’ho visto il giorno 13 nella bara quello che non mi è.. quelli che mi sono apparsi subito all’occhio sono stati i tre segni che lui aveva sul volto e i tre segni erano molto profondi. Poi degli amici gli hanno voluto mettere una bandana, una fascia alla fronte e lì ci siamo accorti che lui aveva un buco, perché il dito è penetrato dentro. Aspetto settembre /ottobre, se mi danno un po’ di risposte, il magistrato è il dott. Roberto Pennisi e lui continua a dirmi che è morto d’infarto o è morto da stress, come c’era scritto sulla perizia. Nel 2004 viene archiviato tutto con morte per cause naturali: ora io, in possesso della perizia, dove leggo che ci sono due costole rotte, una mandibola fratturata (sinistra), lo sterno fratturato, un’escoriazione a V, insomma, morte per arresto cardiaco, per infarto, mi sembra strano. Comunque viene archiviato il 10 dicembre, allora avevo l’avvocato Vittorio Trupiano di Napoli, a quel punto mi dice “Guarda, Maria, non c’è da fare niente, l’unica cosa che si può fare per fare riaprire il caso è che, se tu vuoi, però rischi, devi denunciare un magistrato o a Bologna, o a Firenze, o a Genova”. Niente, vado a Genova, presento denuncia al magistrato Pennisi, dopo quattro mesi circa vengo chiamata a Genova e il dott. Fenizia di Genova archivia la denuncia al magistrato Pennisi, ma fa riaprire il caso alla Procura di Livorno, dicendo che, basandosi sulle foto, che facciano ulteriori indagini, perché c’è qualcosa che non torna.
Nel 2006 viene riesumata la salma di mio figlio e si scopre che le costole non sono più due, ma bensì otto e che non c’è solo un buco in testa, ma ce ne sono due, di cui uno profondo fino all’osso e addirittura ci trovano attaccata la vernice blu scura della cella. Si trova anche il polso sinistro fratturato, di cui il primo medico legale Alessandro Bassi Luciani non aveva parlato. A questo punto, parlando con l’avvocato, dice “Qui c’è qualcosa che non torna, queste sono botte”, perché dalle foto si capisce che sono botte, però quello che ho notato è che hanno riarchiviato adesso, nel 2010 a insaputa nostra.Io ero stata convocata per il 25 maggio e invece il 19 vengo chiamata addirittura dai giornalisti di Livorno, che mi dicono: “Signora Ciuffi, il Procuratore capo Francesco De Leo ha chiesto l’archiviazione” Io dico: “ E’ impossibile, perché sono stata convocata per il giorno 25 dal dott. Giaconi, quello che sta svolgendo le indagini”, invece purtroppo era così.
Una mamma sola contro lo Stato.
Tutto questo perché? Perché il mio medico legale pensava che io arrivassi al processo e invece il processo non l’ho mai avuto, sono sette anni quest’anno che non ho mai avuto un processo e le due archiviazioni sono state fatte.. io, l’avvocato e lo stesso G.I.P., Rinaldo Merani, che è lo stesso del 2004 e del 2010. Anche questo mi sono chiesta: se dovevano rimettere lui, non lo so. Diciamo. Però penso che, guardando le foto anche il più imbecille, come sono io, che non sono nessuno, vede che mio figlio è stato picchiato. Oltretutto ho dovuto cercare un medico legale a Genova, perché in Toscana nessuno mi avrebbe aiutato, perché mi sono rivolta a uno e mi è stato riferito “Signora Ciuffi, si cerchi un medico legale fuori dalla Toscana, perché in Toscana non l’aiuterà nessuno”. Di Livorno dicono che è una città rossa, di comunisti, di.. così, perché praticamente abito a Pisa, però sono cresciuta a Livorno, mi sono sposata a Livorno, ho partorito a Livorno, mi sono separata a Livorno, ho fatto tutto a Livorno e credevo che i livornesi, proprio la gente di Livorno fosse diversa. Io invece ho avuto un aiuto e un risalto più da un centro sociale, altrimenti non se ne parlava. Ho fatto lo sciopero della fame per avere giustizia, per chiedere, per sapere perché mio figlio è morto e penso che io non abbia chiesto poi granché, perché in fondo credo che ogni mamma abbia diritto di sapere come è morto il proprio figlio. Ora sono arrivata a un punto che sinceramente non ce la faccio più e sono in Cassazione. Perché è dal 3 giugno che è stata depositata in Cassazione a Roma e ancora la sentenza non è stata emessa. Non mi aspetto granché, come mi ha detto l’avvocato. A quel punto ricorrerò a Strasburgo, però tutto quello che mi fa un po’ rabbia è che mio figlio non era un santo, l’ho sempre detto, era la prima volta che veniva arrestato e andava in carcere, poi te lo danno, te lo vedi chiuso in una bara tutto spaccato e ti devono prendere in giro, perché io penso che la Giustizia mi abbia preso in giro dicendo che è morto d’infarto. Io sono del parere che se sbaglio è giusto che paghi, come ha sbagliato mio figlio, e pagava, devono pagare anche gli altri, chi ha sbagliato, chi l’ha picchiato o perlomeno anche chi ha cercato di insabbiare tutte queste cose, perché per me hanno voluto insabbiare. La Procura di Livorno ha voluto insabbiare e queste sono cose che io ho detto in faccia sia al Procuratore che al G.I.P. che ha archiviato. C’era un compagno di cella che ha dichiarato “Io dormivo, quando ho sentito un tonfo in terra” e poi invece quando è uscito dal carcere.. perché c’è da premettere una cosa: il compagno di cella era entrato in carcere da dieci giorni, dopo la morte di mio figlio ha preso subito due giorni di permesso premio. Questo ragazzo, il compagno di cella, non aveva un livido, non aveva niente. Bene, l’ho incontrato fuori e invece mi ha detto “Io non c’ero, io ero a fare la doccia”. Dalle testimonianze che ho letto di 1.600 interrogatori dei detenuti e guardie, ma più che altro io e l’avvocato ci siamo basati sui detenuti, risultano due detenuti che dicono.., “Abbiamo visto il Lonzi prendersi con un appuntato”, l’appuntato gli ha detto “Stai buono”. Insomma si sono un po’ presi a parole, dicono “Poi il pomeriggio alle tre ci hanno chiuso blindati e si sentiva correre su e giù voci sconosciute, la mattina dopo del giorno dopo ci hanno detto che Marcello era morto”. Sui verbali scritti invece risultano contraffatti, perché si vede che sono ritoccati con la penna negli orari delle guardie che erano in servizio, l’orario della morte (hanno messo le 20: 20 e poi le 0.00 , poi le 20).. insomma ancora devo sapere se mio figlio è morto nel pomeriggio alle tre e mezzo, come hanno dichiarato alcuni detenuti, ed è agli atti, o se mio figlio veramente è morto alle 20:14, ancora non lo so.

Per ottenere giustizia occorrono i soldi.
Quello che so è che non c’era il dottore, anche se il carcere insiste a dire che c’era il medico, perché la dottoressa del 118 dichiara “Io sono entrata, mi sono avvicinata e purtroppo dal corpo già viola, già.. ho capito che questo ragazzo era morto”. Dopo si accosta un signore, lo tocca e dice, questa dottoressa del 118 “Quello che mi ha colpito di questo signore è che lo toccava senza guanti, allora mi sono permessa di chiedere chi era e lui mi dice: “Sono il medico del carcere””.Perciò era entrato con la macchina nel frattempo che entrava il 118. Anche lì allora perché hanno messo.. il medico, dott. Orlando, è corso subito, quando invece il medico in quel momento non era presente in carcere? Ci sono tanti perché, io mi sono permessa di dire al magistrato “Perché non indaga per mancato soccorso, poiché non c’era il medico? Perché non indaga il medico legale che ha scritto “ due costole rotte” e dopo ne sono venute fuori otto, dopo sono venuti fuori due buchi, anziché uno? Perché non ha scritto che c’aveva un’escoriazione a V, due denti rotti?”. Mi è stato risposto “Signora, è una svista” e allora se queste sono tutte sviste non lo so, non so più che cosa devo fare. Praticamente non ho avuto aiuto da nessuno: sì, ci fu all’inizio l’interrogatorio di Giancarlo.. di Pisapia, però poi è morto tutto lì. Ho bussato a mille porte, questo lo posso dire, però ho trovato tutti i cancelli chiusi. Ogni anno vado alle Sughere di Livorno. Ogni anno l’11 luglio porto un mazzo di fiori al carcere, lo metto fuori dal cancello, mi guardano con il sorriso, sto un pochino lì e poi me ne vado, perché mio figlio.. poi dopo vado anche al cimitero, però mio figlio è morto lì e io ogni anno vado lì. Non sono andata quest’anno, dico la verità, perché non mi aspettavo una seconda archiviazione. Tutte e due le volte, ripeto, sono stata chiamata in una stanzina con l’avvocato e questo G.I.P., che mi ha detto “Si archivia per morte naturale” nel 2004, e nel 2010 “Si archivia per un forte infarto”, io invece voglio un processo, credo sia un mio diritto avere un processo vero e proprio. Poi non so se sbaglio, ma non credo.
Ci sono delle persone che mi hanno scritto, anche dei detenuti di Opera mi hanno scritto dicendo “Ma come mai si parla tanto del caso Cucchi, quando di Marcello Lonzi non si parla?”, io ho risposto “Non so che dire, ditelo a quelli della tv”. L’unica cosa che posso dire della tv è che Maurizio Costanzo mi chiamò in diretta di mattina, allora faceva il programma mattiniero, e mise le foto proprio alle ore 10: 00 /10 : 30, le pubblicò in televisione e lui e il professor Relli mi ricordo che dissero: “Non si muore d’infarto conciati in quella maniera , è giusto che la mamma abbia una riesumazione della salma”, però anche quello è stato fatto tutto a spese mie e questo ci tengo a dichiararlo, perché alcune persone hanno detto “Ah, ma queste non le ha pagate la Procura?”. No! Le spese dei medici legali le ho pagate io, come tutto il resto. E posso ringraziare tanti giovani che mi hanno aiutato a pagarle, perché sinceramente in sette anni adesso mi sono venduta tutto quello che avevo, non ho più niente. Io faccio fatica anche a tirare avanti giornalmente, nonostante vada a pulire le scale e mi dia da fare non ci riesco più, perché ogni volta che la Procura faceva una perizia io ne dovevo controbattere un’altra, sono state fatte quattro o cinque perizie e ho dovuto far fare quattro o cinque perizie anch’io dal mio medico legale. Poi una volta veniva chiamato a Livorno, 550 Euro anche lì, perché la Procura ci voleva parlare: sono cose che penso che i giudici.. se ne rendono conto i magistrati di che cosa sta succedendo, quando muore un figlio o muore una persona in carcere, però noi genitori, non sono tanto le spese, quanto che dici: “Ho speso tutto, però arrivo a dire una sola parola: è vero, Marcello Lonzi è stato picchiato”, basta. No, invece la presa in giro, sentendomi dire ancoraSuo figlio è morto di un grande infarto”.. mio figlio non ha mai sofferto di cuore, questo è risultato agli atti: il cuore l’aveva molto sano, stava bene, era un ragazzo che faceva ginnastica e che correva, era un ragazzo che giocava a pallone. Proprio in carcere mi va a morire? No, non ci credo!
Se qualcuno mi volesse aiutare il mio numero di conto corrente Banco Posta è 66865767, intestato a Ciuffi Maria.

Grazie infinite per quello che farete.
Fonte: www.beppegrillo.it/2011/01/marcello_lonzi/index.html?s=n2011-01-06

PISANU. UNA CARRIERA DA PIANO RINASCITA. DAI RAPPORTI CON LA P2 ALLA PRESIDENZA DELL'ANTIMAFIA

Pisanu, l’8 giugno del 1982, risponde alla Camera. Già all’epoca c’era un enorme buco, c’era il buco del banco Andino, affiliato al Banco Ambrosiano, che stava rischiando di trascinare anche l’Ambrosiano nel crack.
Ma Pisanu rassicura: niente paura: è tutto sotto controllo, nessun allarme.

Dice: “le indagini condotte all’estero sull’Ambrosiano non hanno dato alcun esito”.
Non tanti giorni dopo, un giorno dopo, il 9 giugno Pisanu va di nuovo a cena con Flavio Carboni.
Un altro giorno dopo, il 10 giugno, Calvi scappa dall’Italia per finire, come sappiamo, sotto il Ponte dei Frati Neri, appeso.
Nove giorni dopo l’uscita di Pisanu in Parlamento – tutto sotto controllo, nessun problema per l’Ambrosiano – il governo suo, Fanfani, mette l’Ambrosiano in insolvenza.
Lo dichiara insolvente e manda sul lastrico migliaia di risparmiatori, che perdono tutto quello che avevano.
Poi, sia l’Ambrosiano, sia l’Andino fanno la loro regolare bancarotta.
La commissione P2, presieduta da Tina Anselmi, convoca Pisanu perché Angelo Rizzoli, editore, all’epoca proprietario del Corriere della Sera, P2, poi coinvolto in un crack, anche lui arrestato, racconta: “a proposito del Banco Andino, Calvi disse a me e a Tassandin – l’uomo della P2 al vertice del Corriere della Sera – che il discorso dell’onorevole Pisanu in Parlamento l’aveva fatto fare lui – Calvi. Qualcuno mi aveva detto che per quel discorso Pisanu aveva preso 800 milioni da Flavio Carboni“.
Quest’accusa, che poi verrà riesumata anche dal portaborse di Calvi, Pellicani, non ha mai trovato conferma, quindi possiamo ritenerla falsa o non provata.
Ma il problema è politico: Pisanu è il signore che ha messo la faccia, è andato in Parlamento a dire che il Banco Ambrosiano era una meraviglia mentre era alla vigilia del crack.
Il tutto a causa dei suoi conflitti di interessi, cioè dei suoi rapporti con Carboni, con Calvi e con Berlusconi.
In commissione P2 si scatenano le opposizioni: i più accesi sono Teodori, dei Radicali, e Tremaglia, del Movimento Sociale, che ne dicono di tutti i colori di Pisanu.
Se volete trovate in “Se li conosci li eviti”, la biografia di quei giorni terrificanti, tant’è che urlano “dimissioni, dimissioni, dimissioni!” e alla fine, il 21 gennaio del 1983, Pisanu si dimette da sottosegretario al Tesoro.
Poi rientrerà in un altro governo e verrà riciclato da Forza Italia, perché sapete che in Italia non si butta via niente!
Lo ritroviamo, Pisanu – ve lo racconto di nuovo il suo possibile ruolo di presidente della commissione antimafia – nel 2004, 10 gennaio, in una telefonata.
Non è lui al telefono: al telefono ci sono Berlusconi, presidente del Consiglio, e Cuffaro, all’epoca governatore della Sicilia per il centrodestra.
Cuffaro, sapete, era preoccupato perché c’era un’indagine per favoreggiamento alla mafia da parte della Procura di Palermo, Berlusconi lo rassicura e gli dice: “io ho saputo qui, la ragione perché ti telefono, il ministro dell’Interno mi ha parlato e mi ha detto che tutta la… è sotto controllo, è tutto sotto controllo”.
Chi era ministro degli Interni in quel periodo? Pisanu.
A che titolo Pisanu sapeva notizie o controllava notizie su un’indagine segreta della magistratura a Palermo, un’indagine di mafia che coinvolgeva anche il governatore?
E a che titolo informava Berlusconi di queste eventuali notizie segrete di cui aveva saputo?
E a che titolo Berlusconi informava Cuffaro?
C’è, per caso, un reato di favoreggiamento in questo comportamento? Lo domando perché Cuffaro è stato condannato per avere avvertito dei mafiosi su notizie riservate su indagini in corso.
Se fosse vero quello che dice Berlusconi al telefono, forse ci sarebbe qualcosa di illecito anche nel comportamento di un ministro dell’Interno che si procura notizie su un’indagine segreta, che le rivela al presidente del Consiglio, che le rivela all’interessato, cioè all’indagato, cioè a Totò Cuffaro.
Perché non sono stati chiamati a risponderne penalmente? Perché in quel periodo la procura di Palermo adottava una linea morbida nei confronti dei politici.
Pisanu fu sentito come testimone, Berlusconi non fu nemmeno sentito.
La procura, presieduta da Piero Grasso, chiese e ottenne la distruzione di quei nastri, anziché mandarli al Parlamento per ottenere l’autorizzazione a utilizzarli per valutare eventuali reati da parte di Berlusconi e Pisanu.
Tutti da dimostrare, naturalmente, ma la telefonata è quanto mai inquietante, soprattutto perché Cuffaro non si è mai saputo da chi sapesse le notizie riservate che poi passava ai mafiosi.
Qui abbiamo un piccolo indizio: “il ministro dell’Interno mi ha parlato, e mi ha detto che tutta la… è tutto sotto controllo, tutto sotto controllo”.
Perché dico questo? Perché è evidente che una commissione parlamentare antimafia seria, che volesse occuparsi dei rapporti mafia-politica, potrebbe per esempio cominciare dal caso Cuffaro.
E nel caso Cuffaro domandarsi se c’erano deviazioni istituzionali.
E magari convocare Berlusconi e Pisanu.
Ma se il presidente dell’antimafia fosse Pisanu, potrebbe convocare se stesso? Si, dovrebbe guardarsi allo specchio e farsi le domande e darsi le risposte.
Passate parola!

Ps. La scorsa settimana ho citato l’ex onorevole Publio Fiori a proposito della Loggia P2.
Fiori mi prega di precisare che il suo nome figurava, sì, nelle liste ritrovate nel 1981 negli uffici di Gelli a Castiglion Fibocchi.
Ma poi una sentenza definitiva del Tribunale di Roma (come pure l’Avvocatura Generale dello Stato) hanno stabilito che la presenza del suo nome nelle liste non dimostra la sua adesione alla Loggia.
Il suo nome, insomma, potrebbe essere stato inserito abusivamente negli elenchi.”
Marco Travaglio


Bimba di 8 anni. «L' abbiamo bruciata viva per divertirci»

Bimba uccisa ad Andria, fermati altri quatto ragazzi. I familiari assediano la caserma: liberateli. L’ urlo della madre: “Voglio ammazzarli tutti”. Il magistrato: hanno agito come la banda dei sassi.

ANDRIA (Bari) – «Giochiamo a bruciare la bambina». La verità sulla morte di Graziella Mansi, 8 anni, uccisa ad Andria sabato scorso, è da correggere. Anzi, è tutta da riscrivere. Pasquale Tortora, il diciottenne chiuso da domenica mattina nel carcere di Trani, non era solo. I carabinieri e il magistrato ieri hanno fermato altri quattro ragazzi con l’ accusa d’ avere massacrato la piccola. Sono Michele Zagaria, Giuseppe Di Bari, Domenico Margiotta e Vincenzo Coratella, tutti di Andria, tutti di età compresa fra i 18 e i 20 anni. Due hanno già confessato: quella sera, hanno ammesso, c’ erano anche loro tra il parcheggio di Castel del Monte e il boschetto della morte. Anche loro si sarebbero impegnati ad adescare Graziellina, a farla camminare per quel pezzo di sentiero, ad aggredirla, a torturarla, a incendiarla finché, come ha raccontato Pasquale, «s’ è come sciolta» nelle fiamme. I quattro sono stati interrogati separatamente, sono stati fatti dei riscontri incrociati, alla fine uno è crollato. E un secondo ha deciso, lui pure, di liberarsi del peso. Il racconto è da brivido: «Pasquale ha avvicinato la bambina alla fontanella – hanno detto ai carabinieri -. Noi lo prendevamo sempre in giro, perché diceva che s’ era innamorato di lei. E’ entrato nel bosco, teneva la bambina. A quel punto, noi siamo saltati fuori. Graziella aveva paura e questo ci faceva divertire ancora di più. Volevamo torturarla un po’ , ma solo per farle un po’ male. Non volevamo violentarla, era soltanto un gioco, volevamo divertirci con lei. Poi, è uscita l’ idea del fuoco. Ci pensavamo da giorni, a giocare nel fuoco. Bevevamo birra e ci esaltavamo a giocare, a tenerla. Abbiamo raccolto sterpaglia, intorno, abbiamo legato la bambina. E il fuoco l’ ha coperta». Le accuse per la banda sono pesantissime: sevizie su minore, sequestro, omicidio premeditato. Roba da ergastolo. Aggravate dal concorso nel reato e da due parole che rendono quest’ uccisione, se possibile, ancora più agghiacciante: «Futili motivi». Perché la pedofilia, sembra, c’ entra sì e no. Ed è sicuro che non sia stata solo questa, o non lo sia stata per l’ insieme del gruppo, la ragione scatenante. «L’ hanno uccisa per gioco», ripetono gli investigatori. Forse per vedere che effetto faceva. Forse per cacciare la noia. Dal comando dei carabinieri e dalla procura di Trani, solo un comunicato di poche righe «per non compromettere indagini ulteriori». A tarda sera, infatti, i quattro ragazzi erano ancora sotto torchio. Sono tutti di Andria, anche se uno pare abiti a Barletta, età fra i 18 e i 20 anni. Si conoscono da tempo, erano compagni di giochi e di bravate: piccoli balordi incensurati, uno solo con precedenti penali per furto, cresciuti in famiglie che vengono descritte come «difficili». E ieri notte, i familiari dei quattro hanno circondato la caserma dei carabinieri di Andria per chiedere la liberazione dei ragazzi. L’ ipotesi di un delitto di gruppo era emersa immediatamente, sabato, prima ancora che venisse trovato il corpo bruciato della bimba. L’ aveva avallata lo stesso Tortora, che s’ era fatto avanti parlando di tre persone che avevano preso Graziella. Il suo racconto però era sembrato confuso, fino a incastrarlo. Il fatto che soffrisse di gravi disturbi psichici, poi, aveva diviso gli inquirenti: chi propendeva per il gesto solitario dello psicolabile Pasquale, chi pensava ci fossero complici. Nel convalidare l’ arresto, anche il gip Antonio Lovecchio aveva ipotizzato che dietro la confessione di Tortora si nascondesse qualcosa d’ altro: come spiegare, altrimenti, che l’ assassino avesse bruciato da solo una bambina, viva, senza riportare una sola scottatura, un segno sui vestiti? Graziella, tra l’ altro, era una bimba vivace, abituata a vivere in strada e, all’ occorrenza, a difendersi. L’ altro giorno, quando Pasquale ha fatto dal carcere i nomi di tre complici, due esistenti e uno inventato, i carabinieri stavano già facendo alcuni riscontri. Tortora conosceva i quattro, li frequentava. Per non destare sospetti, i balordi avevano anche partecipato ai funerali della bambina. Ma portati in caserma, sono caduti l’ uno dopo l’ altro in contraddizioni, bugie, imprecisioni. Fino a confessare. Francesco Battistini LA TESTIMONIANZA L’ urlo della madre: «Voglio ammazzarli tutti» ANDRIA (Bari) – «Come dice, c’ erano dei complici? Sono stati in cinque a massacrare la mia Graziella?». Fa solo in tempo a sussurrare queste parole, poi Giovina Antolino, la mamma della bambina uccisa ad Andria, corre subito ad abbracciare la fotografia di sua figlia. La guarda, la stringe al cuore, la bacia e l’ accarezza e dice: «Graziella, cosa ti hanno fatto? Dillo a tua madre, è vero che in quel bosco ti hanno attirata per gioco e ti hanno bruciata viva, mentre chiedevi il mio aiuto?». Piange a dirotto e prega, la signora Giovina. Ha ancora la forza di reagire a una tragedia che nessuno si aspettava in una città di 80 mila abitanti a 50 chilometri da Bari. Le sue lacrime rigano il portaritratti verde con gli angoli dorati attorno al quale da domenica si stringe tutta la famiglia Mansi: il padre Vincenzo, 31 anni, da sempre disoccupato; Vittorio, il nonno paterno, invalido, che vende noccioline ai turisti in visita a Castel del Monte; e la nonna materna, Concetta, quasi cieca e con una gamba amputata, ammutolita dal dolore. Nella piccola casa al piano rialzato di viale Ovidio 147, rione Tirassegno di Andria, non ci sono invece le altre due figlie della coppia: Concettina, di 6 anni, e Vittoria, che ne ha 3. Loro non sanno ancora che la sorellina più grande è stata massacrata e data alle fiamme. Vivono a casa di una parente, al piano terra dell’ edificio che ospita i Mansi. Ma stasera le urla della mamma di Graziella si sentono anche dalla strada. «Ditemi chi sono? – grida – . Fatemeli vedere, perché li voglio ammazzare tutti con le mie mani. Voglio giustizia, ma non quella dei giudici. Voglio vederli morire come hanno fatto loro con la mia bambina: li devo sciogliere vivi nel fuoco». Mentre le mani non lasciano neanche per un attimo la foto di Graziella: la piccola in posa davanti al presepe della scuola. Il padre della bambina, invece, è sconvolto, incredulo. È in preda a un incubo. «Credetemi – dice – non potevo fermarla. Ve lo giuro. Non sapevo che, mandandola a riempire l’ acqua a quella fontana, sarebbe potuta accadere una tragedia simile». Poi si ferma per un attimo, si butta sulla branda della camera da letto e, in preda al dolore, continua a ripetere a sé stesso e ai familiari: «Pasquale Tortora io lo conoscevo, faceva il parcheggiatore abusivo davanti alla nostra bancarella. Si avvicinava a Graziella. Non mi ha mai insospettito, sembrava un ragazzo normale. Ma chi sono gli altri: ditemi i loro nomi. Forse sono quei quattro ragazzi che in città si trattenevano sempre con Pasquale? Quei quattro giovanotti che sabato notte hanno partecipato con noi alle ricerche di Graziella? Che urlavano nei boschi il nome di mia figlia portandoci in posti lontani dove la mia bambina non c’ era?». Resta una tragedia gigantesca, quella di Andria, ma la trama è cambiata: non un solo assassino, un diciottenne psicolabile, ma una banda di ragazzi. Che hanno ucciso per divertimento. Sembrava tutto chiaro, tanto che il pubblico ministero, Francesco Bretone, al termine di un’ indagine-lampo aveva detto: «In questa storia c’ è un solo assassino che è Pasquale Tortora». La svolta di ieri dice che i presunti assassini sono cinque. Adesso Andria si prepara a una fiaccolata. Lunedì sera migliaia di persone ricorderanno Graziella con un corteo silenzioso che attraverserà le strade in cui la bambina viveva e giocava. Ora che la sua vita si è fermata all’ improvviso in un bosco, tra i pini dietro ai quali si accucciava quando giocava a nascondino con le sue sorelline. Roberto Buonavoglia

IL RETROSCENA Il magistrato: hanno agito come la banda dei sassi

DAL NOSTRO INVIATO ANDRIA (Bari) – Come a Tortona: «È un delitto di gruppo, che per le motivazioni ricorda molto la vicenda di quella donna uccisa per i sassi lanciati dal cavalcavia», dice il sostituto procuratore di Trani, Francesco Bretone. Sbalordito, lui insieme con i due ufficiali dei carabinieri che hanno dato la svolta alle indagini: «Da non credere», è il commento del colonnello Livio Criscuolo e del maggiore Roberto Tortorella.

 GLI INDIZI – Nella notte a Trani si interrogano i quattro fermati, si continua a verbalizzare la nuova verità. E non è ancora tempo di spiegare come si è arrivati a bloccare e a fare confessare i complici di Pasquale Tortora: il tam tam d’ una conferenza stampa, annunciata per le otto di ieri sera, ora rinvia a un incontro con gli inquirenti fissato per oggi. Decisive sono state, pare, alcune indicazioni date dal ragazzo nella cella del supercarcere. Qualche indizio, e soprattutto quella spiegazione («Ho buttato Graziella nelle fiamme e la tenevo ferma con un piede») che non tornava: «Fin dal primo istante – dice il pubblico ministero – la circostanza non ci ha convinto appieno». Mercoledì, il colonnello Criscuolo e il maggiore Tortorella erano in giro per ascoltare alcune persone. Si credeva che Pasquale coprisse un giro di pedofili. Invece: «La pedofilia a questo punto è un aspetto che sembra diventare marginale – dice il dottor Bretone -. Questo non è il delitto di uno o di più maniaci. È qualcosa di assai più terribile e atroce. È l’ impresa senza logica di cinque balordi che hanno deciso, per gioco, di bruciare una bambina». Insomma, gli inquirenti lavorano su uno scenario ancora più agghiacciante di quello emerso subito dopo il ritrovamento del corpo di Graziella.

L’ AUTOPSIA – E quei segni di violenza, individuati dal medico legale, che hanno condotto l’ autopsia? «È vero che l’ autopsia ha confermato la presenza d’ una lesione all’ apparato genitale, e questo non esclude che un tentativo di stupro ci sia stato, nonostante le mutandine della bimba fossero integre. Ma, ripeto, questo è un qualcosa che s’ aggiunge alla dinamica del gruppo, mosso innanzi tutto dal desiderio di fare un terribile “gioco” con Graziella Mansi». Si sta cercando di capire chi abbia avuto il ruolo d’ un leader, in questa banda di ragazzi: «Al momento, le responsabilità risultano equivalenti. Tutti e cinque i giovani avrebbero partecipato, seppure in modo diverso, all’ intera azione, dal sequestro fino all’ uccisione». E adesso, cinque giorni dopo, sembrano ancora esaltati dal loro gesto: «Non si tratta di sicuro di ragazzi normali», è l’ unico commento che si riesce a intercettare fuori dalla stanza.

PRIMO CASO – Bretone, figlio d’ un celebre romanista e fino a qualche tempo fa pretore a Crotone, è al suo primo caso d’ omicidio. È uno di quei magistrati che scelsero la prima linea del Sud e, una volta, vennero liquidati da Cossiga come «i giudici ragazzini che hanno dato qualche esame di diritto romano». Non vuole fotografi né operatori tivù, non ama le interviste. E se proprio deve commentare questa storiaccia, ripete con più forza quel che pensava domenica, quando sembrava «solo» un caso di pedofilia: «Mi auguro, come cittadino e specialmente come sostituto procuratore, di non dover più ripassare per momenti del genere». F. Bat. Omicidi di gruppo: ecco i precedenti PALMINA Nel novembre del 1981 a Fasano (Bari) quattro giovani di Locorotondo, uno di 23 anni, due di 22 e l’ ultimo di 18, danno fuoco a Palmina Martinelli, 14 anni, perché non vuole prostituirsi. La ragazzina morirà in ospedale a dicembre. I quattro saranno assolti dalla Corte di Cassazione DOMENICO Ginosa (Taranto), ottobre 1991: violentato e gettato in un pozzo, Domenico Valenzano muore a 16 anni per mano di tre amici, un minorenne e due giovani di 19 e 20 anni FABIO Luglio 1999: a Carini (Palermo), scompare Fabio Ravanusa, 17 anni. Dopo una settimana viene trovato il suo cadavere. E’ stato ucciso a sassate da tre giovani, fra cui due minorenni DAVIDE Picchiato a morte per uno sguardo dato alla sorella di un amico. E’ successo nel Siracusano nell’ agosto ‘ 99. La vittima è Davide Carbone, 16 anni, ucciso dai ragazzi della sua compagnia. I carabinieri fermano due 16enni e un 17enne

 Battistini Francesco, Buonavoglia Roberto
(25 agosto 2000) – Corriere della Sera

PALMINA MARTINELLI: BRUCIATA VIVA NON VIENE CREDUTA. ASSOLTI GLI AGUZZINI

La storia agghiacciante di una adolescente di 14 anni bruciata vita perchè non voleva prostituirsi ed offesa dalla magistratura sino alla Cassazione che non le crede, assolvendo scandalosamente i suoi truci aguzzini.

Palmina Martinelli

FASANO (Brindisi) – “Palmina era molto bella, aveva 14 anni, vogliono farla prostituire, lei si rifiuta e le danno fuoco” e subito la registrazione della voce della sfortunata adolescente fasanese che racconta, mentre lotta tra la vita e la morte nel reparto di rianimazione del Policlinico di Bari, quello che le è accaduto facendo i nomi dei suoi aguzzini.

Ha aperto così la  giornalista televisiva, Federica Sciarelli, la puntata del 15 giugno 2010 del programma di Rai Tre “Chi l’ha visto?”.

La storia è quella di Palmina Martinelli, la 14enne fasanese data alle fiamme perchè si rifiutava di prostituirsi. Prima di morire la ragazza era riuscita a fare i nomi dei suoi aguzzini, ma il caso venne chiuso come suicidio.
I fatti risalgono all’11 novembre del 1981, quando a Fasano, nella sua abitazione, venne ritrovata in fin di vita Palmina Martinelli. Gli investigatori puntarono immediatamente i loro sospetti su quattro giovani di Locorotondo, uno di 23 anni, due di 22 e l’ ultimo di 18. Secondo l’accusa i quattro avrebbero dato fuoco a Palmina Martinelli perché non voleva prostituirsi. La ragazzina morì in ospedale a dicembre. Le prove portate dall’ accusa a sostengo delle tesi di colpevolezza non ressero, però, né in primo né in secondo grado. Alla fine i quattro furono assolti anche dalla Corte di Cassazione.

A raccontare una delle più brutte storie accadute a Fasano, nello studio di Rai Tre, ieri sera, c’era una delle sorelle di Palmina, Giacomina (da tutti chiamata Mina) che oggi ha 44 anni, che all’epoca dei fatti aveva 15 anni, un anno in più della sorella morta a causa delle ustioni sul 70% del corpo. Proprio Mina Martinelli ha interpellato la nota trasmissione televisiva di Rai Tre per cercare di fare chiarezza a quasi 30 anni da quella morte, atroce e violenta, che scosse l’opinione pubblica locale e nazionale. Mina Martinelli insegue ancora oggi la verità. E insieme a lei, nel corso della trasmissione con una telefonata, si sono schierati anche altri i due fratelli più piccoli di Palmina: Carmela e Roberto, che all’epoca aveva 8 anni.

Ad aprire la trasmissione, come dicevamo, la registrazione audio disposta in ospedale dal Pm Nicola Magrone, che con l’aiuto del prof. Fiore interroga Palmina che, con un filo di voce, alla domanda “Chi ti ha fatto del male?” risponde facendo i nomi di “Enrico e Giovanni” e quando gli si chiede “cosa ti hanno fatto?” risponde “alcool e fiammifero”.
Una registrazione agghiacciante che ha toccato veramente il cuore di chi ieri sera ha seguito la trasmissione di Rai Tre. Soprattutto di chi, per la giovane età, non conosceva per niente la storia di Palmina Martinelli.
Palmina, però, non venne creduta ed il caso fu archiviato come suicidio. A sollecitare la trasmissione di RaiTre ad occuparsi del giallo di Fasano è stata la sorella di Palmina, Mina Martinelli, che ha dichiarato in diretta di provare a 30 anni ancora “tormento ed emozione ad ascoltare le parole di mia sorella”.  L’agonia di Palmina durò 22 giorni, di cui 2 in coma.

Ospite alla trasmissione “Chi l’ha visto?” oltre alla sorella Mina, anche il Pm che all’epoca si occupò del caso di Palmina, Nicola Magrone che prese a cuore la vicenda della 14enne fasanese, senza però riuscire a far condannare gli imputati maggiori. Magrone ha scritto anche un libro su questa storia, ed ha dichiarato in una intervista che la vicenda che l’ha coinvolto di più in tutta la sua carriera è stata proprio quella della adolescente fasanese.

La trasmissione di Rai Tre ha ricostruito la vita e la storia della sfortunata Palmina, che abitava nelle case popolari di Fasano, in una famiglia povera e numerosa, con il padre disoccupato e la madre donna di pulizie. Sesta di 11 figli, Palmina lascia la scuola in quarta elementare.
“Era bella, intelligente – spiega la giornalista di “Chi l’ha visto?” -. Era un fiore cresciuto nel fango. Il suo sogno era quello di sposarsi ed andare via da quella situazione”.
“Palmina è piccola, ingenua e vergine  – prosegue la giornalista Rai inviata a Fasano alla ricerca di notizie e di immagini – si innamora di Giovanni Costantini che, con il fratellastro Enrico Bernardi, procacciavano ragazzine e le avviavano alla prostituzione”.
La stessa sorte era capitata alla sorella maggiore di Palmina, Franca Martinelli, costretta – a seguito di percosse e botte alla propria figlioletta di pochi mesi – a prostituirsi in una chiesa sconsacrata nelle campagne di Locorotondo. È proprio Franca Martinelli che racconta, in una intervista rilasciata alla giornalista di Rai Tre inviata a Fasano, quello che le era accaduto nel lontano 1981.
Dopo la testimonianza di Franca, si passa a raccontare gli ultimi momenti in vita di Palmina.

L’11 novembre del 1983 Palmina Martinelli, indossa l’abito buono ed una collanina, esce di casa alle 14.30 per andare alla chiesa della “Salette” per partecipare al catechismo in vista della Cresima. Per strada incontra un suo coetaneo, Bruno, con il quale ha una accesa discussione in quanto questo suo amico avrebbe messo in giro la voce che “se l’era portata a letto”. Palmina reagisce a queste calunnie ed affronta il suo coetaneo con il quale ha una accesa discussione. Alle 15.30 viene raggiunta dal padre e dal cognato, i quali invece di prendere le difese di Palmina, la schiaffeggiano e  la riaccompagnano a casa alle ore 16, e vanno via. Palmina quel pomeriggio non andrà più al catechismo e resta sola in casa.

Alle 16.25 torna a casa il fratello maggiore, Antonio, che entrando sente un odore di bruciato e dei lamenti provenire dal bagno, nel quale rinviene la sorella mentre sta tentando di aprile l’acqua della doccia per spegnere le fiamme che, ormai, le invadono la maggior parte del corpo. Quel giorno, però, a Fasano l’acqua manca ed è una tragedia.

Antonio Martinelli a quel punto carica la sorella in auto e l’accompagna al pronto soccorso dell’ospedale “Umberto I” dove è in servizio il giovane medico Lello Di Bari. Proprio Lello Di Bari (oggi primario del pronto soccorso di Fasano e Ostuni oltre che sindaco di Fasano) racconta quel pomeriggio alle telecamere di “Chi l’ha visto?”, e ricorda che “Palmina era lucida e raccontava quello che le era accaduto”. La 14enne verrà, poi, trasferita d’urgenza nel reparto di rianimazione del Policlinico di Bari dove il suo cuore cesserà di battere 22 giorni dopo.

Secondo quanto dichiarato, subito dopo l’accaduto, dal fratello Antonio (il primo a soccorrerla) Palmina gli avrebbe detto che “non ce la faceva più e che voleva morire” che “era stato Gianni ed Enrico” e che “mi hanno dispregiata e che non sarà più bella come prima”.

Il 20 novembre il Pm Magrone mette a verbale il racconto di Palmina Martinelli.

“Il primo contatto che ebbi con Palmina in ospedale – racconta Magrone a “Chi l’ha visto?” – fu spaventoso. Era un tronchetto annerito, il viso e gli occhi si vedevano appena. Il prof. Fiore gli tolse i tubi che l’aiutavano a respirare e si riuscì a fare il verbale”.
Magrone, però, uscendo dalla stanza decide anche di registrare su nastro il racconto di Palmina. E così fece. Con l’aiuto del prof. Fiore, Palmina viene nuovamente interrogata e la sua deposizione viene registrata su una cassetta che, poi, sarà uno degli elementi di prova portati dal Pm nel processo. Una registrazione che ieri sera è stata mandata più volte in onda.

Nel suo racconto Palmina parla del fatto che i due – Giovanni ed Enrico – prima di cospargerla di alcool e darle fuoco, le fanno scrivere una lettera di addio alla madre. Copia di questa lettera “Chi l’ha visto?” la manda in onda. E su questa lettera vengono fuori altri aspetti mai resi noti alla opinione pubblica.
L’associazione “8 marzo”, infatti, costituita da un gruppo di donne che chiedono giustizia contro la mentalità maschilista, nel processo Martinelli si è costituita parte civile. Alla trasmissione di ieri sera è intervenuta proprio l’avvocato di parte civile, Laura Rennidoli, che ha spiegato come proprio il biglietto di Palmina Martinelli lasciato alla madre nel quale lei racconta di essersi stancata di come veniva trattata in famiglia, è stato oggetto di approfondimenti ed indagini. Il biglietto si concludeva con la scritta “ADDIO PER SEMPRE”. Secondo la tesi della parte civile, confermata anche da una specifica perizia grafica compiuta sul biglietto, le parole “ER SEMPREsarebbero state scritte da uno degli imputati, ovvero la grafia, secondo la perizia grafica, apparterrebbe ad uno degli imputati. Quindi è ipotizzabile che Palmina avesse scritto il biglietto perché in procinto di scappare di casa con il suo fidanzato, dopo l’ennesima lite in famiglia. Secondo l’accusa, infatti, i due imputati avrebbero raggiunto la casa di Palmina Martinelli dopo le 16 dell’11 novembre (non ci sono però testimoni che confermano la presenza dei due imputati nella casa di Palmina) per portarla via con la scusa di una vita migliore. Ecco perché il biglietto di addio alla madre firmato con la sola iniziale del nome “P”.
Palmina, però, all’ultimo minuto si sarebbe resa conto dell’intenzione dei due fratellastri (Giovanni ed Enrico) di volerla far prostituire, si sarebbe ribellata e, quindi, avrebbe firmato la sua condanna a morte. Ecco, perché, si spiega l’aggiunta della scritta “ER SEMPRE” sotto il biglietto che sarebbe stata opera, sempre secondo la perizia grafica, di uno degli imputati. Insomma un elemento di non poco conto che, però, insieme al racconto di Palmina reso al Pm, non sono stati sufficienti a dimostrare la colpevolezza dei due imputati.
Secondo la difesa, invece, Palmina era stanca e depressa ed aveva deciso di suicidarsi.

Il 2 dicembre, dopo 22 giorni di agonia, Palmina muore. Tutto il paese partecipa al suo funerale.

Il 28 novembre 1983 inizia il processo in Corte d’Assise a Bari a carico di Enrico Bernardi e Giovanni Costantini, all’epoca ventenni, accusati di omicidio pluriaggravato e di altri reati.

Giovanni Costantini avanza  un alibi dicendo che lui l’11 novembre 1981 era a svolgere il servizio militare presso una caserma a Mestre. Il Pm Magrone smonta, però, questo alibi, e scopre, a seguito di indagini ed in base ad alcune testimonianze, che Costantini era andato via da Mestre il 10 novembre e vi era tornato la mattina del 12, ed aveva anche confidato ad alcuni commilitoni di essere tornato a casa. Neanche questo elemento è servito a dimostrare la colpevolezza di Costantini.

Il 22 dicembre 1983 la Corte d’Assise di Bari in primo grado assolve Costantini e Bernardi per insufficienza di prove. I due, però, vengono condannati a 5 anni per sfruttamento della prostituzione di altre donne (tra cui Franca Martinelli).
Il 27 ottobre 1987 la sentenza viene confermata dalla Corte d’Appello, e nel 1988 dalla Cassazione.

Da ieri sera la storia di Palmina, grazie a “Chi l’ha visto?” e alla caparbietà della sorella Mina – che ha trovato sostegno anche dalla sorella Carmela e dal fratello Roberto – è tornata alla ribalta facendo tornare Fasano indietro di 30 anni.
“Chiedo a chiunque sa o ha sentito qualcosa – è stato l’appello lanciato da Mina Martinelli in conclusione del programma di Rai Tre – di farsi avanti e di dire quello che sa”.

Un appello che facciamo nostro nel ricordo di una adolescente morta in circostanze tragiche proprio negli anni più belli della sua vita.
Ed è un appello che vale anche per altri omicidi accaduti a Fasano o che hanno avuto come vittima un fasanese, sui quali non si è fatta ancora piena luce: dall’omicidio di Valerio Gentile, a quello di Giovanni Scarpantonio a quello di Vito Margaritondo.

DALLA MAREMMA AD ANCONA. I MASSONI INVADONO IL PD

Massoneria e Pd: dalla Maremma ad Ancona infuria la polemica

di Osvaldo Sabato

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«Oggi nel Pd ce ne sono a bizzeffe» dice Renzo Bardelli, ex sindaco comunista di Pistoia. Massoni e democratici: la discussione nel partito è molto accesa, la questione è spinosa e toccherà alla commissione di garanzia, convocata per lunedì prossimo, dirimere una buona volta per tutte la matassa sulla compatibilità tra l’iscrizione al partito e alla massoneria. A riportare al centro dell’attenzione questo argomento è stato il caso di Guido Maria Destri, assessore al Bilancio di Scarlino, comune della Maremma grossetana, al centro delle polemiche per essere stato fotografato durante una riunione massonica. Un altro caso di un assessore Pd affiliato alla massoneria era scoppiato ad Ancona, con le dimissioni di Ezio Gabrieli, dopo aver dichiarato la sua appartenenza al Grande Oriente d’Italia. Sono bastate queste due vicende per dare fiato alle polemiche dentro il Pd. Nel frattempo il capogruppo in Provincia di Macerata chiede ai vertici democratici di pronunciarsi sulla compatibilità della massoneria nel partito, gli ex popolari insistono sul divieto esplicito di appartenere al Pd e alle logge. Questi nuovi casi hanno di fatto riacceso il confronto nel partito, in prima fila anti-massonica due esponenti di spicco dell’area cattolica come Pierluigi Castagnetti e Beppe Fioroni. Ma davvero sarebbe cospicua la pattuglia di democratici dentro la massoneria? «Penso che in un paese democratico sia la cosa più normale del mondo, presumo, noi però non facciamo censimenti» commenta Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia «a noi interessa che i fratelli, siano essi di destra che di sinistra, rispettino i principi della libertà e uguaglianza e che pratichino la filosofia del dialogo». Chi non pensa che sia poi tanto normale è il sindaco di Scarlino Maurizio Bizzarri, anche lui del Pd, specie dopo che ha scoperto di avere in giunta un assessore affiliato alla loggia Nicola Guerazzi di Massa Marittima. Anzi, ex associato: proprio ieri Guido Maria Destri ha fatto recapitare sulla scrivania del sindaco Bizzarri una lettera di dimissioni dalla massoneria, con tanto di timbro del segretario della sua loggia. Ma se questa è una vicenda chiusa, resta sempre aperto invece il filone del dibattito. Nel Pd c’è chi parla addirittura di una questione morale. «Esagerato, mi sembra eccessivo» commenta il parlamentare Luca Sani, coordinatore della segreteria toscana. Da ex sindaco di Massa Marittima, in questo comune ci sono ben tre logge massoniche, Sani, getta acqua sul fuoco delle polemiche «cosa vuole che sia la storia di un assessore di Scarlino massone…» dice «con un presidente del Consiglio e un capogruppo del Pdl che sono stati iscritti alla P2». Sono in molti a domandarsi però se un iscritto può far parte della massoneria. A questo proposito lo statuto nazionale del Pd non è abbastanza chiaro poiché nelle norme il termine «massoneria» non viene mai citato, anche se l’articolo 3 del codice etico stabilirebbe che non si può essere del Pd e della massoneria. Almeno questa è la tesi che sposa anche la presidente nazionale Rosy Bindi. Sulla trasparenza delle logge punta invece il Gran Maestro d’Italia, Gustavo Raffi «conosco Gabrielli è stato un buon amministratore». La lacerazione interna al Pd? «Non vorrei che fosse un pretesto per non parlare della situazione difficile del paese» spiega Gran Maestro, Raffi. Per l’ esponente della massoneria, insomma, puntare l’attenzione sulle logge non sarebbe altro che un modo per distogliere la gente dai problemi reali. Sicuramente non è l’obiettivo del Pd. «È importante che lo si dichiari prima» precisa il segretario toscano, Andrea Manciulli. È certo però che quando c’è di mezzo la massoneria i veleni si sprecano. L’ultimo è di ieri, sempre in Toscana, con l’ex sindaco di Pistoia, Renzo Bardelli, che indica il neo consigliere regionale del Pd, Gianfranco Venturi, come massone. In risposta si becca una querela e una smentita.

L’Unità, 4 giugno 2010

MASSOMAFIA: "MI DICEVANO DI LASCIAR PERDERE". IN ONORE DI GIUSEPPE D'URSO

L’EROE SCONOSCIUTO CHE PER PRIMO RIVELO’ INASCOLTATO CHE «STATO E MASSOMAFIE» SONO UNA «COSA SOLA».

di Pietro Palau Giovannetti (sociologo)

Il termine sincretico «massomafie», quasi mai utilizzato dai media,  è stato coniato negli anni ’80 dal Prof. Giuseppe D’Urso, docente universitario e presidente per la Sicilia dell’Istituto Nazionale di Urbanistica che, per primo, grazie alle sue ricerche, svolte in ambito istituzionale, svelò il connubio fra mafie, massonerie e sistema giudiziario, quale collante del controllo politico-economico-mafioso del territorio, denunciando inascoltatamente i cavalieri catanesi, i magistrati corrotti al loro servizio, gli appalti e le connivenze politiche-affaristiche, indicandoci che le mafie, ieri come oggi, non sono una patologia tipica delle Regioni del Sud Italia, ma un vero e proprio «braccio armato» di un regime corrotto, un «male endemico» diffuso e istituzionalizzato, protetto e organizzato su basi ben precise, espressione di una parte consistente della classe dirigente locale e nazionale.  Quella che, negli ultimi decenni, sino alle più recenti vicende sulla P3,  è emerso essere, in maniera sempre più nitida, collegata a doppio filo, a consorterie occulte, dalla Massoneria (deviata) all’Opus Dei, dal Bilderberg ai Cavalieri di Malta, etc…

A partire dagli anni ’60, studiando gli investimenti di capitali in grandi operazioni immobiliari, soprattutto acquisti di terreni e costruzioni di opere pubbliche, il Prof. D’Urso denunciò instancabilmente, sino alla morte, anche nel corso di assemblee sindacali a livello nazionale, dibattiti e interviste, l’esistenza di poteri occulti in grado di condizionare la magistratura e la vita democratica.

Fu lui, scrive Riccardo Orioles, a postulare per primo, e a descrivere con precisione, il legame organico fra mafie e massonerie, ad analizzarne le strutture, a denunciarne la strategia. Tutti gli altri, vennero dopo. E quando, faticosamente, il concetto di “massomafia” – il termine da lui coniato nei primi anni Ottanta – divenne senso comune, allora e solo allora la lotta ai poteri mafiosi poté cominciare davvero. Andreotti, Licio Gelli, i cavalieri catanesi ebbero nel suo cervello il nemico piu’ pericoloso. [“La raison tonne en son cratère”, Riccardo Orioles, in “Allonsanfan”, libro elettronico].

Il Prof. D’Urso, fondatore della storica Associazione “I Siciliani“, è infatti ricordato come il principale punto di riferimento del movimento antimafia di Catania e di Palermo, poiché non si era limitato ad individuare la crucialità del rapporto tra massoneria e mafia, ma l’aveva tradotta in puntuali atti di denuncia all’Autorità giudiziaria, a cui per lunghi anni inascoltato aveva trasmesso l’enorme materiale probatorio silenziosamente raccolto sulle prove delle irregolarità amministrative, i misfatti edilizi, gli appalti pubblici pilotati e gli insabbiamenti da parte della magistratura catanese collusa con mafia, politica e massoneria.

«Per ogni abuso» – scrive di lui Claudio Fava – «il professor D’Urso aveva compilato un dossier completo di cifre, nomi, indicazioni di legge, estratti del Piano regolatore, copie di delibere comunali. Quegli esposti, con incrollabile perseveranza, forse perfino con un filo di dolente ironia, erano stati puntualmente spediti all’autorità giudiziaria. Che per molti anni aveva continuato ad inghiottirli in silenzio. L’ultimo fascicolo Giuseppe D’Urso aveva preferito invece farlo trovare sui banchi del Csm. Dentro, in bell’ordine, i promemoria del professore su tutte le inchieste insabbiate dalla Procura di Catania: le protezioni accordate, le illegalità compiute, le indagini depistate. Ma soprattutto c’era il testo del telegramma che D’Urso aveva spedito “per conoscenza” a ministri e presidenti di mezza Repubblica. La vertenza Catania di fatto era nata su quelle poche righe di denuncia civile, sull’intransigente ribellione di un “cittadino qualsiasi.”…». [“La mafia comanda a Catania”, C. Fava, Laterza, Roma-Bari 1991].

«Per primo» – aggiunge Peppe Sini, responsabile del “Centro di ricerca per la pace” di Viterbo – «il professor D’Urso aveva individuato la crucialità del rapporto tra massoneria e mafia. Rapporto, e decisività, successivamente emersi con grande evidenza: cfr. ad esempio la “tesi 8” nel libro di Luciano Violante, «Non è la piovra. Dodici tesi sulle mafie italiane» [Einaudi, Torino 1994, pp. 169-181]; e varrà la pena di trascrivere qui almeno l’enunciazione di questa tesi: “Logge massoniche “deviate” costituiscono il tramite più frequente e più sicuro nei rapporti tra mafia e istituzioni. Per mezzo di queste logge, in particolare, la mafia cerca di “aggiustare” i processi che la riguardano. Esponenti delle logge massoniche, a loro volta, hanno chiesto in diverse occasioni la partecipazione di Cosa Nostra a vicende criminali ed eversive. Il terreno d’incontro tra la mafia e queste logge è costituito dai comuni interessi antidemocratici». [“Esempi per una cultura antimafia: Giuseppe D’Urso”, http://lists.peacelink.it/mafia/msg00042.html ].

Ci piacerebbe sapere, se dopo la scomparsa del professor D’Urso, avvenuta il 16 giugno 1996, nel generale e servile silenzio di media e istituzioni, i suoi scritti ed il suo archivio siano stati ordinati, pubblicati e messi a disposizione degli studiosi, delle istituzioni e delle associazioni antimafia, oppure se “more solito” le massomafie che, oltre alla magistratura e alla politica, controllano anche la cultura dominante e l’informazione, siano riuscite ad occultare tutto.

Di seguito riportiamo un’intervista esclusiva dell’epoca, rilasciata dal Prof. D’Urso al settimanale “I Siciliani”, nonché subito dopo, in calce, un suo interessante intervento, seppure molto schematico, in occasione dell’assemblea nazionale delle Confederazioni Sindacali Cgil, Cisl, Uil, che si tenne a Palermo il 15 e 16 ottobre 1982, dopo il delitto Dalla Chiesa, dal titolo: “Per la democrazia, il lavoro, lo sviluppo: lotta alla criminalità mafiosa e al terrorismo”.

Tutti gli atti dei lavori vennero in seguito pubblicati ma tra di essi non vi era però singolarmente traccia delle schede presentate dal Prof. D’Urso sulla necessità di approfondire l’analisi degli assetti e delle trasformazioni del territorio, quale strumento formidabile per comprendere, risalendo alle cause, interconnessioni occulte, intrecci speculativi e per conoscere i gestori segreti.

MASSOMAFIA. IL TEOREMA. MI DICEVANO DI LASCIAR PERDERE.

da “I Siciliani settimanale”, 19 marzo 1986

Per anni ha denunciato, quasi inascoltato, l’esistenza di un intreccio di interessi illegali tra massoneria nera e mafia, coniando persino un termine inedito, massomafia. Oggi la scoperta della loggia di via Roma conferma le intuizioni del professore Giuseppe D’Urso, docente universitario catanese ed ex dirigente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica. Lo abbiamo intervistato.
– Professore, quando e da cosa nascono le sue intuizioni?
«Nascono da analisi territoriali che a partire dagli anni sessanta vado facendo, per ragioni di studio, in tutta la Sicilia sui capitali investiti in grandi operazioni immobiliari, soprattutto acquisti di terreni e costruzioni di opere pubbliche. La cosa che dapprima mi meravigliò e su cui poi cominciai a riflettere fu la serie di coperture offerte a queste operazioni da personaggi di rilievo della vita politica ed istituzionale siciliana. Ogni volta che cercavo di vedere chiaro in certe speculazioni, ricevevo da parte di questi personaggi – politici, magistrati, professionisti – certi consigli: stare calmo, non interessarmi troppo di certe cose, farmi gli affari miei, insomma. Così, alla fine, mi resi conto che dietro quelle operazioni si muoveva un fronte occulto che collegava tra loro personaggi apparentemente del tutto slegati l’uno dall’altro. A comprendere la natura di questi legami mi aiutò una ricerca dell’università di Catania che si basava sul rinvenimento di una serie di documenti di logge massoniche di quell’epoca ritrovate a Messina. Ne venivano fuori interessantissime considerazioni sui rapporti, esistenti prima del fascismo, tra logge massoniche e mafia. Quello che mi colpì fu il fatto che molti dei nomi citati in quella ricerca si ritrovavano – e si ritrovano ancora oggi – perfettamente inseriti ai posti chiave del potere in Sicilia».
– Una sorta di discendenza di padre in figlio, insomma…
«Proprio così. Approfondii queste coincidenze e mi convinsi dell’esistenza di una serie di interconnessioni tra i vari poteri, le istituzioni, l’imprenditoria, la stampa, la cultura e così via. E il collante era proprio la massoneria, alla quale aderiscono molti dei personaggi eccellenti della società siciliana».
– Quando si parla di massoneria la verità viene a galla molto, troppo lentamente. Perché?
«Esiste una volontà politica di mettere tutto a tacere. Io per esempio mi sono molto meravigliato del fatto che la Commissione sulla P2 non abbia pubblicato gli elenchi di tutti i massoni italiani. Alcuni commissari hanno barattato la loro adesione alla relazione Anselmi in cambio della segretezza di questi elenchi; e tra coloro che si sono opposti alla pubblicazione dei nomi ci sono alcuni politici siciliani di spicco, come il socialista Salvo Andò e il senatore democristiano Calarco».
– A Palermo una parte di verità è venuta a galla dopo la scoperta della loggia di via Roma. E a Catania?
«Anche a Catania esistono delle logge che attraversano trasversalmente i partiti di governo, le istituzioni, la stampa cittadina, l’imprenditoria. Un comitato d’affari, insomma, che da venti anni governa di fatto la città. Se proviamo ad immaginare uno scenario non troppo fantastico, possiamo assegnare il ruolo di gran maestro all’onorevole democristiano Nino Drago, probabilmente la vera testa pensante di questo comitato. Ogni tanto c’è un ricambio di uomini, ma i metodi restano sempre gli stessi. E questi vengono applicati, da altri uomini, in tutta la Sicilia».

http://www.claudiofava.it/old/siciliani/memoria/masso/mas02.htm

L’eredità perduta.

Quello che consta rimanere dell’enorme mole di scritti, esposti al C.S.M. e denunce corredate da voluminosi dossier,  pare siano solo una serie di schede in cui traccia un’analisi degli assetti e delle trasformazioni del territorio che costituiscono, a suo avviso, «uno strumento formidabile per comprendere, risalendo alle cause, interconnessioni occulte, intrecci speculativi, per conoscere i gestori segreti delle più grosse operazioni di rapina mafiosa nel territorio siciliano», di cui afferma aver fornito agli organi inquirenti e alle massime cariche dello Stato ogni più dettagliata informazione.

Le schede rappresentano, secondo le stesse indicazioni dell’Autore «tracce sistematiche di lavoro di ulteriore ricerca collettiva da svolgere». Ne riproduciano di seguito integralmente il contenuto, tratto da Avvenimenti del giugno 96 [in ”Antimafia” n. 2/1990].

“PER RIPRENDERE E CONTINUARE”

di Giuseppe D’Urso 

La sezione siciliana dell’Istituto Nazionale di Urbanistica sottolinea la maturità dei contenuti e l’approfondimento delle tematiche di tutti gli interventi di questa coraggiosa e democratica assemblea.

Per noi, urbanisti democratici, l’analisi degli assetti e delle trasformazioni del territorio costituisce uno strumento formidabile per comprendere, risalendo alle cause, interconnessioni occulte, intrecci speculativi e per conoscere gestori segreti.

Abbiamo fornito e forniamo alla Magistratura elementi precisi e puntuali sulle più grosse operazioni di rapina mafiosa nel territorio siciliano.

Al Sindacato democratico, unitariamente riunito oggi a Palermo, vogliamo invece fornire delle riflessioni, sotto forma di schede sintetiche, per contribuire a fare chiarezza sulle questioni generali dibattute in questa assemblea e ciò alla luce dell’esperenza fatta nelle nostre specifiche ricerche.

Le schede rappresentano tracce sistematiche di lavoro di ulteriore ricerca collettiva da svolgere.

Esse sono le seguenti:

Scheda 1

Necessità di possedere una definizione complessiva, esaustiva e storicamente valida del fenomeno in generale etichettabile come: “alta criminalità organizzata”.

E’ necessaria l’unificazione sistematica di fenomeni sociali come:

a) criminalità economica organizzata

– mafia (Sicilia)

– ‘ndrangheta (Calabria)

– camorra (Campania)

– fibbia (Puglia)

– banditismo (Sardegna)

b) servizi segreti deviati

– dell’est (Patto di Varsavia)

– dell’ovest (Patto Atlantico)

– del Terzo Mondo (Paesi non allineati)

c) criminalità politica organizzata

– terrorismo rosso

– terrorismo nero

d) poteri occulti laici

– massoneria bianca ((Ovest-Est-Terzo Mondo)

– massoneria nera (nei Paesi dell’Ovest)

– massoneria rossa (nei Paesi dell’Est)

e) poteri occulti religiosi

– cattolici (internazionali)

               – Opus Dei

               – gesuiti laici

               – cavalieri di Malta

– altre religioni (terzo mondo)

Anche se si rischia di allargare troppo il campo dell’indagine, questo è uno sforzo che deve essere compiuto con l’aiuto degli intellettuali progressisti: il rischio inverso è quello di tenere l’obiettivo puntato sopra un elemento troppo limitato rispetto al quadro generale.

Bisogna individuare l’intera figura della “piovra” e non solamente uno dei suoi innumerevoli tentacoli (il quale anche se asportato, col tempo si riforma così come era).

Una definizione di “alta criminalità organizzata” può essere la seguente:

Gruppo sociale chiuso che, nell’ambito di un sistema economico, articolandosi in una complessità di sottogruppi, ha come fine l’accumulo e la gestione per i propri affiliati di ricchezze non lavorative: il “gruppo” si avvale di strumentazione per la violenza fisica e l’intimidazione morale, lega i suoi appartenenti con regole di subordinazione e di morte ed ha un processo di adeguamento continuo a quello del sistema economico a cui si riferisce“.

Scheda 2

Necessità di possedere una visione storica del problema, cercando di intravedere i nessi tra storia della Sicilia, storia del Meridione d’Italia e storia d’Italia dall’Unità alla fine della seconda guerra mondiale (conferenza di Yalta).

A questa scheda si allegano alcune fotocopie di testi ritenuti fondamentali per la comprensione di come alcuni fatti economico-sociali si sono tra loro intrecciati: tutto ciò per capire quali sono le interconnessioni del presente e quindi la limitazione delle analisi che focalizzano solo un aspetto della questione.

L’analisi storica deve mettere in luce quali sono stati i rapporti tra potere economico e potere istituzionale sia nelle campagne che nelle città, sia al centro (Roma) che in periferia (settentrionale e meridionale) facendo risaltare come il tutto si è evoluto fino ai nostri giorni (e ciò al di fuori di esasperati ideologismi).

Debbono individuarsi fatti, situazioni e nomi precisi in modo tale da comprendere in maniera puntuale i corsi e gli intecci degli avvenimenti economico-sociali.

Le tappe di questa analisi sono:

1) la situazione preunitaria

2) l’Unità, Cavour e Garibaldi

3) l’età giolittiana

4) la prima guerra mondiale ed il primo dopoguerra (arricchimenti di guerra e loro impieghi)

5) avvento del fascismo: lotta alla mafia ed alla massoneria: il concordato

6) secondo conflitto mondiale e sistema Yalta

7) il secondo dopoguerra, ricostituzione di “cosche” e di “logge” e loro scala internazionale.

Scheda 3

Necessità di possedere una chiara radiografia dello stato patrimoniale degli individui e dei gruppi che gestiscono oggi il sistema economico, il sistema istituzionale, il sistema dei mass-media, il sistema culturale. Solo una analisi puntuale in questo senso può porre in luce i sotterranei rapporti che, mettendo in cortocircuito il potere economico, il potere politico (legislativo, esecutivo, giudiziario), il potere dell’informazione ed il potere culturale, bloccano di fatto lo sviluppo economico e democratico del popolo italiano a vantaggio di determinati gruppi chiusi di sfruttamento economico e di conseguente reazione politica.

I lavoratori italiani debbono farsi carico politico di analisi che, focalizzando comuni, province, regioni, organizzazione statale, mettano a nudo, attraverso l’indagine finanziario-catastale, le posizioni di tutti gli attuali detentori di potere.

Debbono farsi altresì carico dell’introduzione di una strumentazione democratica che consenta per il futuro il controllo continuo su tutti i detentori di potere previsti dalla nostra carta costituzionale.

Riproporre oggi tali materiali e schede che conservano piena attualità e necessità di approfondimento ci appare oltre che un valido strumento di analisi metodologica del fenomeno massomafioso anche un modo per rendere omaggio a uno dei più coraggiosi siciliani  che ha combattuto come pochissimi altri per il bene comune e fare emergere la Verità e la Giustizia (n.d.r.).

L’insabbiamento del «Caso Catania»

Alla fine del 1982, dietro denuncia del Presidente della sezione siciliana dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, Prof. Giuseppe D’Urso, scoppiava il “Caso Catania”.

Il Consiglio Superiore della Magistratura (C.S.M.) aveva finalmente avviato una inchiesta sui denunciati ritardi, omissioni, falsità in atti pubblici e insabbiamenti di alcune scottanti inchieste della Guardia di Finanza e di altre Procure, segnalati dal noto urbanista e docente siciliano.

Mentre a Palazzo dei Marescialli la Commissione referente del C.S.M. interrogava il procuratore capo aggiunto Giulio Cesare Di Natale e il sostituto procuratore Aldo Grassi, i principali indiziati del cd. “Affaire Catania”, a Catania il sostituto Procuratore D’Agata spediva 56 comunicazioni giudiziarie per altrettanti imprenditori e presunti faccendieri siciliani coinvolti in un colossale giro di fatture false e di frodi fiscali.

il rapporto della Guardia di Finanza era stato lasciato in un cassetto, negli uffici della Procura, per molti mesi; e improvvisamente, mentre a Roma si sceglieva il capo della Procura catanese, questo fascicolo delle Fiamme Gialle tornava a galla e partivano 56 comunicazioni giudiziarie.” [Claudio Fava, “La Procura di Catania può saltare in aria”, I Siciliani, Febbraio 1983] (6).

Il 15 dicembre 1981, il Prof. D’Urso risulta avere infatti inviato un voluminoso carteggio sulle presunte irregolarità nell’appalto che il Comune di Catania concesse all’impresa del cavaliere del lavoro Francesco Finocchiaro per la costruzione dell’edificio che ancora oggi ospita gli Uffici giudiziari catanesi. Per finanziare i lavori e affidarne la realizzazione, l’Amministrazione Comunale aveva utilizzato – sosteneva nel suo esposto il prof. D’Urso – una legge creata per scopi totalmente diversi. Una legge, invero, chiarissima – osserva Claudio Fava – «che era difficile pensare ad un errore in fase di interpretazione».

Quell’esposto non aveva ricevuto alcuna risposta né dalla Procura di Catania, né dal C.S.M.

Poi, ad ottobre, dieci mesi dopo, con un breve telegramma di poche righe, indirizzato anche al Presidente, Sandro Pertini, il Prof. D’Urso denuncia il silenzio in cui erano caduti i precedenti esposti inviati al CSM, contenenti voluminosi dossier e vere e proprie circostanziate denunzie, con cifre, testimonianze, documenti, fotocopie di delibere comunali viziate, estratti del piano regolatore, citazioni di articoli di legge completamente disattesi. Tra i dossier scottanti c’era anche quello della Guardia di Finanza di Agrigento e l’impresa di costruzioni Rendo.

Dopo la barbara uccisione del Generale Dalla Chiesa e della moglie, l’opinione pubblica e la società civile premevano per conoscere tutte le verità e la situazione della Procura catanese, osserva Claudio Fava, «non poteva rimanere nel sospetto: bisognava acclararne la trasparente linearità dei comportamenti di legge, oppure le colpe. Quali esse fossero».

Ed è così, che dopo l’interlocutoria designazione di Costa a procuratore Capo, seppure fosse ormai prossimo al pensionamento, il C.S.M. affida l’incarico di coordinare l’inchiesta della prima Commissione Referente al prof. Alfredo Galasso, docente universitario palermitano, membro “laico” del Consiglio Superiore della Magistratura. Tutte le denunzie pervenute al Consiglio sulla Procura di Catania vengono riunite nel procedimento N. 501/81 e proprio prendendo lo spunto da questi “capi d’accusa” la Commissione chiede formalmente ai vertici giudiziari catanesi (Presidente del Tribunale, Ufficio Istruzione e Procuratore Generale) dettagliate informazioni sullo stato delle più scottanti inchieste da anni giacenti presso la Procura catanese. Anzitutto il rapporto della Guardia di Finanza di Agrigento che aveva provocato le 56 comunicazioni giudiziarie di novembre. L’inchiesta della G.d.F. era nata nel 1979 dalle indagini su un imprenditore di Licata, Giuseppe Cremona, che due anni prima era stato arrestato con l’accusa di ricettazione di veicoli pesanti. Il Cremona, accertarono i finanzieri, successivamente aveva preso in subappalto alcuni lavori per la costruzione di una diga nella provincia di Enna. La ditta che aveva fornito il subappalto era l’Ira, una delle molte imprese del gruppo Graci. La Guardia di Finanza scoprì una grossa partita di fatture false rilasciate dal Cremona alla ditta di Graci per lavori in realtà mai eseguiti. Servendosi di queste fatture fasulle l’Ira avrebbe evitato (questa l’accusa della Finanza) di versare allo Stato un congruo numero di miliardi dovuti sull’Iva. Un’evasione fiscale in grande stile che incuriosì gli inquirenti; nel giro di pochi mesi le Fiamme Gialle di tutta la Sicilia accertarono che allo stesso sistema erano ricorsi molti altri imprenditori dell’isola: l’Iva frodata alle casse dello Stato ammontava, secondo i calcoli della G.d.F., ad oltre quattrocento miliardi di vecchie lire. Gli imprenditori – secondo l’accusa – si sarebbero serviti di alcuni comprimari compiacenti che rilasciavano fatture – per importi elevatissimi – relative a lavori mai eseguiti. Il rapporto della Finanza approdò alla Procura di Catania, dopo aver fatto scalo negli uffici giudiziari di Siracusa, parecchi mesi prima. Si ipotizzavano reati precisi: non solo l’evasione fiscale nei confronti di Iva, Irpeg e Ilor ma anche reati di ben diversa caratura penale quali la truffa e l’associazione per delinquere a scopi mafiosi, prevista dalla legge La Torre. E nel rapporto della Finanza c’era tutto il «Gotha» dell’imprenditoria siciliana, dai cavalieri del lavoro Gaetano Graci e Mario Rendo, all’altro cavaliere catanese Carmelo Costanzo (all’epoca latitante), ed ancora il costruttore Rosario Parasiliti, il banchiere Salvatore Iaconitano (direttore dell’agenzia catanese della Banca Agricola di Ragusa). In coda alla lista anche alcuni nomi di noti personaggi assurti alle cronache giudiziarie come il mafioso agrigentino Filippo Di Stefano (già assegnato ad un soggiorno obbligato) e il trapanese Giovanni Traina, titolare di un’impresa di calcestruzzi nel cui cantiere anni prima furono trucidate tre persone.

Nei vari esposti trasmessi al C.S.M., il Prof. D’Urso denunciava come il rapporto della Finanza fosse rimasto lettera morta negli uffici della Procura di Catania. Anzi, sempre secondo i termini degli esposti, accadde che il dossier, ove si indicavano reati precisi sulla scorta di elementi probatori altrettanto inequivocabili, venne infilato nel cosiddetto fascicolo degli «Atti relativi». Il che, per un procedimento penale, equivale alla morte civile.  

«Un insabbiamento in piena regola» denunciano gli esposti del Prof. D’Urso inviati al C.S.M.

La città “senza mafia”

Nonostante l’appalto della nuova sede, proprio per la Pretura di Catania, in via Crispi, fosse stato denunciato dal prof. D’Urso, Direttore del Dipartimento Urbanistica della locale Università e da un nutrito gruppo di architetti e giornalisti, nessuno si mosse per lungo tempo né presso il  Consiglio Comunale né in Procura né al C.S.M., che alla fine assunse dei provvedimenti minori, senza intaccare la struttura di potere della città siciliana che vantava il primato esclusivo di essere «senza mafia».

Nella storia della città e del movimento antimafia quella inerzia, secondo Giambattista Scidà, «segnò una svolta». Le forze dominanti e il costruttore della Pretura potevano dormire sonni tranquilli. Il Prefetto di Palermo Dalla Chiesa, autore della fatidica intervista sulla mafia a Catania e sulle collusioni con gli im­prenditori catanesi (La Repubblica del 10/08/’82), venne ucciso il 3 settembre, cioè 24 giorni dopo. Durante la solenne inaugurazione del nuovo edificio, in ottobre, il costruttore poté esaltare, tra gli applausi, i meriti dell’imprenditoria catanese. Dall’interno di quel nuovo «tempio della giustizia» il disin­volto costruttore mafioso trionfava sul servitore dello Stato Italiano, che rinunciava a fare prevalere la  legalità e lo stato di diritto. A Dalla Chiesa successe, con poteri di Alto Commissario Antimafia, ex Questore di Catania, il quale aveva sempre mantenuto buoni rap­porti con la mafia imprenditoriale locale e i grandi costruttori isolani. [“Per capire il caso Catania”, Giambattista Scidà, http://www.ucuntu.org/Per-capire-il-caso-Catania.html].

Il giornale “I Siciliani” fu chiuso quello stesso anno. Giuseppe Fava venne ucciso il 05.01.1984. Il quotidiano La Repubblica accettò di chiudere il proprio ufficio di corrisponden­za e di non occuparsi della provincia et­nea nella cronaca regionale. In tale clima, l’inchiesta del C.S.M.  venne facilmente es­orcizzata, senza mettere in luce le prassi devianti della locale Procura, riducendo il “caso Catania” alle respon­sabilità di soli due soggetti. Dei complessi intrecci della realtà catanese, tuttora persistenti, come nel resto dell’isola, tutto restava in ombra.

«I Siciliani»

Nell’autunno 1984, il Prof. D’Urso fondò l’Associazione «I Siciliani», di cui fu il Presidente. L’Associazione si radicò rapidamente ed acquistò peso ed influenza in tutta Italia. Insieme al Coordinamento Antimafia di Palermo e al Centro Peppino Impastato, fu il primo esempio in assoluto di politica militante, nell’Italia degli anni Ottanta, fuori dai partiti. L’Associazione godette della collaborazione di studiosi e magistrati, come il prof. Franco Cazzola e il giudice Scidà, ma anche di religiosi e persone comuni, come il sacerdote Giuseppe Resca e l’operaio Giampaolo Riatti. Era la nuova classe dirigente, quella che avrebbe potuto davvero cambiare tuttom che – come conclude Orioles – «finche’ essa fu unita, non passarono i gattopardi».

Nel 1990, il professore fu fra i ventiquattro fondatori della Rete. Ne organizzò i primi passi dal letto in cui già era inchiodato, contribuendo come pochi altri alle sue prime vittorie.

BIBLIOGRAFIA

1. “Massomafia. Il teorema. Mi dicevano di lasciar perdere”, I Siciliani settimanale, 19.3.86;

2.  Claudio Fava, “La mafia comanda a Catania”, Laterza, Roma-Bari 1991;

3.  Luciano Violante, «Non è la piovra. Dodici tesi sulle mafie italiane», Einaudi, Torino 1994;

4.  P. Sini, “Esempi per una cultura antimafia”: http://lists.peacelink.it/mafia/msg00042.html;

5.  Claudio Fava, “La Procura di Catania può saltare in aria”, I Siciliani, Febbraio 1983;

6.  “Per capire il caso Catania”, http://www.ucuntu.org/Per-capire-il-caso-Catania.html;

7.  “la raison tonne en son cratère”, Riccardo Orioles, in “Allonsanfan”, libro elettronico;

8.  G. D’Urso: “Per riprendere e continuare”: http://lists.peacelink.it/mafia/msg00042.html

In ricordo della vedova di Moro che rifiutò funerali di Stato.

Morta la vedova di Moro: rifiutò funerali di Stato

28 dicembre 2010

Eleonora, vedova dello statista Dc ucciso dalle Brigate rosse, è morta a quasi 95 anni.

In polemica con i vertici Dc rifiutò i funerali di Stato per il marito. Oggi pomeriggio i funerali a Torrita Tiberina, sarà sepolta accanto all’ex leader democristiano che aveva il sogno di cambiare la giustizia.

Roma – È morta Eleonora Moro, la vedova di Aldo Moro, lo statista democristiano ucciso dalle Brigate rosse. Aveva quasi 95 anni. I funerali si svolgeranno oggi pomeriggio Torrita Tiberina, il paese dove è sepolto l’ex leader democristiano. Eleonora Mora sarà sepolta accanto al marito. La signora Chiavarelli aveva sposato Moro nel 1945 e da lui aveva avuto quattro figli: Maria Fida, Agnese, Anna e Giovanni. Quando Moro fu assassinato dalle Brigate rosse nel 1978, dopo 55 giorni di prigionia, rifiutò i funerali di Stato in polemica con i vertici della Dc che accusava di non aver voluto trattare per salvare la vita al marito.

L’ultima lettera dello statista 

Nell’ultima lettera prima della uccisione Moro si rivolge sempre a sua moglie Noretta, la “dolcissima Noretta”, alla quale non nasconde la consapevolezza della fine: “Dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo – scrive Moro – siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Per il futuro – prosegue Moro – c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienimi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca) Anna Mario il piccolo non nato Agnese Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo”.

Il Generale Mori da indagato per “concorso esterno in associazione mafiosa” diventa Consulente di Expo 2015.

Il Generale Mori da indagato per “concorso esterno in associazione mafiosa” diventa Consulente di Expo 2015.

Una torta da 11 milioni di euro che fa gola alle massomafie, le quali come noto hanno messo silenziosamente forti radici in Lombardia, grazie alle connivenze di forze dell’Ordine, magistratura, politica, Opus Dei e logge massoniche.

Sapete chi hanno scelto per contrastare i tentativi di infiltrazione di mafia e ‘ndrangheta negli appalti legati alle grandi opere, di cui il Governatore Formigoni si dice certo, al punto di avere già percepito da vari segnali «un rischio ambientale notevole»…?

Poco di meno che il Generale Mario Mori e il colonnello dei Carabinieri Giuseppe di Donno…

Si proprio coloro che sono sospettati dalla DDA di Palermo della trattativa tra Stato e mafia, nell’ambito della quale si inseriscono gli attentati che costarono la vita ai magistrati Falcone e Borsellino e le bombe di Firenze, Milano e Roma della primavera 93.

Mori già accusato dalla Procura di Palermo di «favoreggiamento aggravato» a Cosa nostra insieme al maggiore Mauro Obinu, in relazione alla mancata cattura di Bernardo Provenzano, si appresta così a diventare uno dei massimi garanti del Comitato per la legalità che affiancherà la Regione lombarda, ove le massomafie controllano il territorio e gli appalti già dagli anni ’70.

Cosa che non può certo non destare allarme, tenuto conto che, come ricordato dallo stesso Mori ai magistrati di Palermo, una delle piste più importanti perseguite da Falcone e Borsellino era proprio quella degli appalti, in cui Vito Ciancimino, padre dell’odierno grande accusatore  dell’ex Generale, era “il dominus che aveva rivestito e che ancora in parte rivestiva nel condizionamento degli appalti pubblici e più in generale la sua funzione di cerniera tra il mondo politico-imprenditoriale e l’ambito mafioso”.

Accuse quelle di Massimo Ciancimino confermate dalla Dott.sa Ferrero del Ministero di Giustizia   e dalle deposizioni di due sottufficiali dei carabinieri che hanno denunciato anomalie durante la perquisizione effettuata a casa di Massimo Ciancimino nel 2005.

11 miliardi di euro in tre anni per realizzare grandi opere, tra cui quelle necessarie per l’Expo: strade, ferrovie, ma anche ospedali, che rischiano così di finire nelle fauci delle massomafie.

Formigoni tiene a precisare di non essere tenuto «in termini di legge» a prendere questa iniziativa che ove la scelta fosse ricaduta su altre figure meno sospette potrebbe apparire lodevole e come una scelta di campo contro la moderna criminalità massomafiosa dei colletti bianchi. Ma aggiunge di ritenerla «assolutamente necessaria».

Forse perché pensa che, in particolare a Milano, i rischi di infiltrazione mafiosa sono sottovalutati? Domanda d’obbligo, dopo che il Sindaco Letizia Moratti e la maggioranza del consiglio comunale hanno scandalosamente bloccato la costituzione di una commissione d’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose, in vista degli appalti legati all’Expo.

Risposta del governatore: «Non amo interferire e giudicare ciò che fanno altre istituzioni. Però nei miei colloqui con diverse autorità è da tempo che rilevo segnali di grande allarme.

Noi invece no…

MILANO: 'NDRANGHETA ARRESTATO CAPITANO DEI CARABINIERI.

‘NDRANGHETA: ARRESTATO PER CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA E CORRUZIONE IL CAPITANO DEI CARABINIERI SAVERIO SPADARO TRACUZZI, GIA’ ALLA DIA DI REGGIO CALABRIA

Postato da Enrico Di Giacomo

MILANO – Concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione: con queste accuse è finito in manette Saverio Spadaro Tracuzzi, capitano dei carabinieri già in servizio al Centro Dia di Reggio Calabria.

I magistrati ritengono che sia stato colluso con una cosca della ‘ndrangheta, quella dei Lo Giudice, fornendo notizie coperte da segreto investigativo su indagini in corso e anticipando l’adozione di provvedimenti restrittivi da parte dell’autorità giudiziaria.

GLI INCARICHI – Spadaro Tracuzzi, arrestato dai carabinieri di Reggio Calabria, era stato trasferito mesi fa nella seconda Brigata mobile di Livorno, dove è stato fermato. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere è stata emessa dal gip reggino su richiesta della Dda. A Reggio Calabria l’ufficiale era stato in servizio prima al Nucleo operativo ecologico, dal 2003 al 2007, e poi alla Dia fino allo scorso giugno.